sabato 29 ottobre 2011

È fariseo, anzitutto, chi occupa una cattedra non sua



Vangelo (Mt 23,1-12)

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non voglionomuoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì’’dalla gente.
8 Ma voi non fatevi chiamare "rabbì’’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.
11 Il più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.

Se leggiamo tutto il capitolo dal quale è tratto questo brano, non possiamo non rimanere sconcertati di fronte al linguaggio duro impiegato da Gesù. Come un lugubre ritornello ritorna sulle sue labbra, per sette volte, l’invettiva: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti”. Non siamo abituati a sentirlo apostrofare la gente in questo modo e abbiamo anche l’impressione che le sue minacce siano eccessive. Non pare che agli scribi e ai farisei si potessero imputare tutti i misfatti che vengono loro attribuiti. Erano orgogliosi e fieri della loro rettitudine, ostentata davanti a tutti, ma è difficile riconoscerli nella descrizione polemica che di loro fa Matteo. Paolo, educato secondo la spiritualità di questa scuola, si vantava di essere stato “fariseo quanto alla legge, irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dalla legge” (Fil 3,4-6); “Come fariseo – dichiarava – sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione” (At 26,5) e ai romani scriveva: “Rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio” (Rm 10,2).
Infine, quand’anche fosse esatta la presentazione che di loro viene fatta, ci chiediamo quale senso abbia riproporre oggi alla meditazione dei cristiani il lungo elenco di accuse contro i farisei di duemila anni fa.
È importante rendersi conto del genere letterario di questa pagina, se non si vuole perderne il messaggio che non è rivolto ai giudei del tempo di Gesù, ma alle comunità cristiane di oggi. Le parole del Maestro sono dure perché il pericolo denunciato è grave. Il “fariseo” è un personaggio tipico: rappresenta un modo di pensare, di giudicare, di comportarsi opposto a quello evangelico; i ragionamenti e le convinzioni dei farisei si infiltrano in modo subdolo fra i discepoli e vengono facilmente assimilati.
Per accostarci correttamente al testo, verifichiamo anzitutto a chi Gesù si rivolge, a chi dirige i suoi sette, terribili “guai”. La risposta sembra scontata: i destinatari sono gli scribi e i farisei del suo tempo. Invece non è così. Dal primo versetto del capitolo risulta chiaro che Gesù sta parlando “alla folla e ai suoi discepoli”; sono questi che corrono il rischio di comportarsi da “farisei”. Siamo noi oggi ad essere chiamati in causa dai suoi rimproveri.
Il brano che ci viene proposto oggi non include la parte più dura del discorso, quella dei sette “Guai a voi” che espongono, in un drammatico crescendo, le contraddizioni del comportamento farisaico: da quella di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini, di non entrarvi e di impedire agli altri di accedervi, fino a quella di uccidere i profeti (vv. 13-32). Tuttavia bastano questi pochi versetti per individuare alcuni aspetti caratteristici del fariseismo e per verificare, come in uno specchio, se, dove e come il fariseismo si ripresenta nelle nostre comunità.

È fariseo, anzitutto, chi occupa una cattedra non sua (v. 2).
Nella sinagoga di Corozaim è stato trovato un seggio di basalto che, a quanto pare, serviva allo scriba incaricato di spiegare le Scritture. In ogni sinagoga ce n’era uno simile ed era chiamato “cattedra di Mosè”, perché si riteneva che, per bocca del rabbino che ivi stava seduto, lo stesso Mosè insegnasse la legge al popolo.
Gesù si serve dell’immagine di questa cattedra per delineare la prima caratteristica negativa degli appartenenti alla setta dei farisei: l’abuso d’autorità.
Nel libro del Deuteronomio si afferma che i successori di Mosè – gli incaricati di trasmettere al popolo la parola di Dio – sono i profeti (Dt 18,15.18). Ma quando, negli ultimi secoli prima di Cristo, i profeti scomparvero, il loro posto fu subito e abusivamente occupato dagli scribi. Così dalla profezia si passò alle prescrizioni e alle disposizioni dei rabbini, fatte passare come “parola e volontà di Dio”.
Chi oggi riduce il rapporto con il Signore all’osservanza di norme e precetti, chi sostituisce la profezia con i codici di leggi, chi predica un giuridismo che soffoca la spontaneità e toglie la gioia di sentirsi sempre e comunque amati e accolti da Dio sta perpetuando la spiritualità farisaica.

Il v. 3 sorprende perché sembra parlare in modo positivo dell’autorità morale dei farisei che, nel resto del vangelo, sono invece criticati in modo sistematico: “Guardatevi dalla dottrina dei farisei!”, raccomanda Gesù ai discepoli (Mt 16,12). Qui, dunque, non può esortare ad assimilare il loro insegnamento. Il versetto va inteso in senso ironico, come dire: “Seguite, seguite pure le loro chiacchiere vuote e dissennate e presto vi renderete conto come vi allontanino da Dio”.
Viene così evidenziata la seconda caratteristica del fariseo, l’incoerenza. Fariseo è chiunque dice e non fa, si presenta come persona devota, pronuncia bei discorsi sull’amore, sulla pace, sul rispetto degli altri, ma evita abilmente di lasciarsi coinvolgere da queste affermazioni di principio.
Sono opportuni i documenti ben articolati e le solenni dichiarazioni, ma bisogna anche essere vigilanti per non cadere negli errori che in essi vengono denunciati. Sono nobili le richieste di perdono per i crimini del passato, ma si deve anche prendere coscienza che, da quelle stesse radici, attingono linfa e vigore i mali e i comportamenti riprovevoli di oggi.

La terza caratteristica dei farisei è quella di caricare pesi insopportabili sulle spalle della gente (v. 4). Commettono un errore dalle conseguenze devastanti: riducono la fede e l’amore di Dio alla pratica della religione; predicano la fedeltà a precetti, osservati i quali – dicono – ci si può tranquillamente sentire a posto e in pace con il Signore. Ma così si getta l’uomo in un circolo angosciante: leggi, inevitabili trasgressioni, riti purificatori, poi nuove leggi, sempre più minuziose e dettagliate, interpretate in modo rigoroso con il risultato di togliere il respiro, di rendere la vita impossibile, di provocare ansie invece di condurre alla pace interiore. Nasce la religione giudaica rappresentata dalle giare di pietra vuote, è la festa di nozze senza vino, priva di gioia perché manca lo slancio amoroso, libero e fiducioso verso Dio (Gv 2,1-11).
Gli scribi che hanno imposto queste leggi non muovono poi nemmeno un dito per aiutare il popolo, schiacciato dal peso di tali precetti. “Non vogliono muoverli neppure con un dito”, non considerano le circostanze concrete, non suggeriscono interpretazioni meno rigide, non invitano a cercare l’essenziale (v. 4). Gesù si commuove di fronte a questa situazione e interviene per liberare la gente da un carico divenuto insopportabile: “Venite a me – dice – voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt 11,28-30). È l’invito a prendere su di sé un unico giogo, dolce e leggero, quello dell’amore. Anche Paolo lo raccomanda: “Non sentitevi legati da nessun altro dovere, se non quello dell’amore vicendevole” (Rm 13,8).
Chi oggi tenta di imporre agli uomini “carichi assurdi e insopportabili”, chi detta arbitrariamente norme, chi si preoccupa di minuzie cui Gesù non ha mai accennato, chi filtra il moscerino e ingoia il cammello (Mt 23,24) si comporta da fariseo.

La quarta caratteristica dei farisei è l’esibizionismo (vv. 5-7), la smania di mettersi in mostra. Questo vizio era profondamente radicato, per questo Gesù lo denuncia spesso: “Come potete credere – dice un giorno – voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44) e chiama ipocriti coloro che praticano le opere buone davanti agli uomini per essere ammirati, coloro che pregano stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere notati, coloro che digiunano con aria malinconica, affinché tutti si accorgano che si stanno mortificando (Mt 6,1.5.16).
Nel brano di oggi vengono descritti altri trucchi con cui i farisei tentano di ottenere riconoscimenti, i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe: allargano le strisce e le frange dei vestiti usate durante la preghiera.
Oggi il desiderio di attirare gli sguardi della gente, la pretesa di avere le telecamere puntate su di sé non sono scomparsi. Si pretende che venga sottolineato e pubblicizzato il bene che si fa e ci si indispettisce quando questo non avviene. Possiamo tranquillamente affermare che non tutti i cristiani compiono le opere buone sperando che nessuno ne parli, facendo il possibile affinché “la sinistra non sappia ciò che fa la destra” (Mt 6,3).

Nell’ultima parte del vangelo di oggi (vv. 8-12) viene tratteggiata l’immagine dell’autentica comunità cristiana, quella in cui ogni forma di superiorità e di disuguaglianza è stata eliminata. È l’opposto della società, sia civile che religiosa, in cui vengono riconosciute e approvate le classi, le discriminazioni, le distinzioni fra superiori e sudditi.
Ci sono argomenti che noi riteniamo importanti e ai quali Gesù, invece, ha dato scarso rilievo, ma sulla questione dei primi posti, dei titoli onorifici, degli inchini, dei baciamani, delle adulazioni è stato di una chiarezza, di una radicalità e di una insistenza tali da rendere evidente che il tema gli stava a cuore, costituiva una parte centrale del suo messaggio.
Sorse fra i discepoli, durante l’ultima cena, la discussione su chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però non così! Ma il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc 22,24-26).
È il capovolgimento dei criteri di questo mondo. Gesù è tanto preoccupato che questi criteri possano riemergere o che vengano recuperati nella comunità cristiana che proibisce in modo esplicito perfino l’uso, apparentemente innocuo, dei titoli onorifici. Ne ricorda tre, quelli usati al suo tempo per le persone onorate e rispettate: rabbi (che significa “mio grande”), padre (che vuol dire “modello di vita e di comportamento”) e maestro (cioè “guida spirituale”).
Inutile escogitare interpretazioni riduttive e concilianti o ricorrere a sottili disquisizioni, per tentare di giustificarli. Gesù si è espresso in modo inequivocabile; le sue parole sono fra le più chiare e forse anche fra le più disattese. Oggi egli non sarebbe meno rigido su questo punto, era troppo allergico al “fariseismo” e non tollerava che, fra i suoi discepoli, si infiltrasse anche solo l’apparenza di tale comportamento.
Nella comunità cristiana gli unici titoli benedetti sono: fratello, sorella, discepolo, servo e quelli che indicano un ministero, un servizio; gli altri vanno banditi e dovrebbero suscitare disagio non solo in chi li rivolge, ma anche in chi li riceve. Non è casuale il fatto che nei padri apostolici (quindi fin verso la metà del II secolo d.C.), il termine “padre” sia stato riservato a Dio ed è significativo che, alla fine del IV secolo d.C., Gerolamo osservi ancora: “Il Signore ha ammonito di non chiamare nessuno padre, se non Dio solo. Non capisco quindi chi abbia autorizzato i superiori dei monasteri ad essere chiamati “Abbà” o come noi possiamo permettere a qualcuno di chiamarci in questo modo”.
Le ultime parole del vangelo di oggi ripropongono in sintesi tutto il messaggio esposto: “Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato” (v. 11).

Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 22 ottobre 2011

Chi ama l'uomo incontra Dio


XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Chi ama l’uomo incontra Dio

Solitudine, silenzio, ascesi sono necessari per creare un clima favorevole alla contemplazione, alla “vita interiore”, all’incontro con Dio, ma divengono segni di patologie se allontanano dagli uomini, se portano al disinteresse per i fratelli. La contrapposizione fra l’amore per l’uomo e il culto a Dio è fondata su miti pagani, non deriva dal vangelo.
Amico degli uomini, Prometeo aveva insegnato loro i numeri, le lettere, l’arte di domesticare gli animali, l’agricoltura, la navigazione, la lavorazione dei metalli; era salito sull’Olimpo per rubare il fuoco agli dèi e portarlo sulla terra, per questo Zeus lo aveva fatto incatenare ad una roccia del Caucaso e aveva ordinato a un avvoltoio di dilaniargli eternamente le carni. Così il signore degli dèi sfogava il suo rancore contro colui che, per aver beneficato gli uomini, si era inimicato i numi.
Nulla è più contrario al messaggio biblico. Ogni promozione, ogni crescita dell’uomo realizza il progetto di Dio: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’, e odiasse il proprio fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4,19-21).
Con ragione, partendo da una prospettiva biblica, Prometeo è stato definito “l’uomo secondo il cuore di Dio”; il Signore infatti ha insegnato al suo popolo “che il giusto deve amare gli uomini” (Sap 12,19).


Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.

Prima Lettura (Es 22,20-26)

20 Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto.
 21 Non maltratterai la vedova o l’orfano. 22 Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, 23 la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.
 24 Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
 25 Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, 26 perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso.

Anticamente non c’erano ambasciate per proteggere i cittadini residenti all’estero. Coloro che, a causa di guerre, di calamità naturali o per motivi di lavoro, erano costretti ad abbandonare la propria terra, la propria tribù o il proprio clan andavano spesso incontro a soprusi, ingiustizie, malversazioni. Abusare degli stranieri, sottoporli a lavori gravosi e umilianti, ridurli in schiavitù era, presso molti popoli, la prassi abituale. Nulla di tutto questo in Israele, dove la legge proibiva, in modo severo, di compiere ingiustizie nei confronti di queste persone indifese. Nell’AT Dio ammonisce frequentemente: “Non molestare lo straniero” (Es 23,9) e – come avviene nel brano riportato nella lettura di oggi – aggiunge anche la motivazione: “Ama il forestiero, perché anche tu sei stato forestiero nel paese d’Egitto” (Dt 10,17-19).
Gli israeliti si sentivano intimamente solidali con gli stranieri perché, lungo i secoli, avevano ripetutamente fatto la drammatica esperienza dell’esilio. La loro professione di fede inizia infatti: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto e vi stette come forestiero” (Dt 26,5).
La raccomandazione della lettura “non molesterai il forestiero, né lo opprimerai” è la denuncia di ogni discriminazione derivante dall’appartenenza a una razza, a un’etnia, a un gruppo sociale diversi. Poi continua: “Non maltratterai la vedova o l’orfano…” (vv. 21-23). 
Di nuovo siamo di fronte a persone prive di protezione: la moglie senza marito e i figli senza genitori divengono facilmente vittime di abusi. In loro difesa si alza Dio, “padre degli orfani e difensore delle vedove” (Sal 68,6), colui che “protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova” (Sal 146,9).
Come si prende cura di queste persone? Anzitutto impartendo al suo popolo disposizioni come questa: “Quando facendo la mietitura del tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto” (Dt 24,19-21).
A proposito di questa norma, i rabbini osservavano: tutti gli altri precetti sono stati dati dall’Onnipotente perché li osservassimo consapevolmente, ma questo è un precetto che noi adempiamo inconsciamente. Facendo dimenticare qualcosa al contadino, il Signore sfama lo straniero, l’orfano e la vedova.
Maltrattare queste persone indifese significa provocare la collera di Dio che – applicando il principio dell’occhio per occhio, dente per dente – promette di far morire di spada i responsabili e di rendere le loro mogli vedove e i loro figli orfani (v.23). 
La scelta dell’autore sacro di attribuire al Signore la pratica della legge del taglione è quanto mai ardita. L’immagine però è efficace: serve a inculcare l’idea che il Dio d’Israele non è come gli dèi pagani che gioivano del profumo degli incensi ed erano placati dall’offerta di olocausti; egli è il vindice (anche questa – sia chiaro – è solo un’immagine!) dei poveri e degli oppressi. “Chi opprime il povero – diranno i saggi d’Israele – offende il suo creatore” (Pr 14,31).
La lettura continua con la proibizione del prestito a interesse (v. 24). Il termine ebraico che traduciamo con interesse è néshek, che letteralmente significa morso. Facile intuire la ragione per cui il Signore – che difende la causa dei miseri e il diritto dei poveri (Sal 140,11) – condanni ripetutamente e con severità ogni prestito di denaro o di beni dietro compenso: “Se tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa vivere tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto” (Lv 25,35-38).
Commovente, infine, è l’ultimo caso preso in considerazione, quello del povero che, per non morire di fame, è costretto a consegnare in pegno il proprio mantello (v. 25). Era la cappa senza maniche e dai lembi arrotondati che veniva infilata da sopra la testa e che il povero portava con sé ovunque, come unica copertura. Dio stabilisce che, prima di sera, gli venga riconsegnato, senza condizioni, altrimenti non gli rimarrebbe nulla su cui coricarsi e in cui avvolgersi per dormire. Se, privo del suo mantello, durante la notte il povero gemesse per il freddo, io – dice il Signore – ascolterei il suo lamento, presterei ascolto alla sua richiesta di aiuto e interverrei in suo favore, “perché io sono pietoso”.


Seconda Lettura (1 Ts 1,5c-10)

5 Ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
6 E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione, 7 così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia. 8 Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. 9 Sono loro infatti a parlare di noi, dicendo come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero 10 e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura.

Dopo aver affermato che la nascita e lo sviluppo della comunità di Tessalonica confermano che, attraverso la predicazione del vangelo, si rende presente e opera la potenza di Dio (1 Ts 1,5ab), Paolo dichiara che anche la vita irreprensibile sua, di Sila e di Timoteo ha dato un’importante testimonianza in favore dell’autenticità del messaggio evangelico (v. 5c). 
Divenendo imitatori dei tre apostoli e condividendo il loro coraggio e la loro fermezza di fronte agli attacchi delle forze del male, i tessalonicesi sono divenuti, a loro volta, modelli per le chiese della Macedonia e dell’Acaia (vv. 6-7).
A questo punto Paolo si lascia prendere dalla gioia e dall’entusiasmo e, in forma iperbolica, esprime la sua profonda stima per la comunità di Tessalonica: “La fama della vostra fede – dice – si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne” (v. 8). 
L’ultima parte del brano (vv. 9-10) descrive la conversione dei cristiani di Tessalonica: erano pagani, rendevano culto a idoli inerti e falsi, ora si sono allontanati dal male e si sono accostati all’unico Dio fedele e datore della vita. Avendo scelto di seguire Cristo, non devono temere il giudizio futuro che il Signore pronuncerà su di loro: sarà certamente favorevole, come lo è ora quello dell’Apostolo.


Vangelo (Mt 22,34-40)

34 I farisei, udito che Gesù  aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
37 Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38 Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. 39 E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.

I rabbini del tempo di Gesù, studiando la Bibbia, erano giunti a scoprirvi 613 comandamenti, di cui 365 (come i giorni dell’anno) negativi, cioè azioni proibite e 248 (come le membra del corpo umano) positivi, cioè opere da compiere. Le donne erano tenute ad osservare solo i precetti negativi. Poveri “catechisti”! Spiegando un comandamento al giorno, avrebbero impiegato quasi due anni per insegnarli tutti e, alla fine, i primi sarebbero certo già stati dimenticati. Se era difficile impararli, si può immaginare quanto fosse complicato osservarli; evitare i peccati era praticamente impossibile. La gente del popolo, che non era in grado di apprendere le sottili distinzioni e l’interminabile casistica della morale, era disprezzata dagli scribi: “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”, affermava Caifa (Gv 7,49).
Gesù considera questa congerie di norme un giogo pesante che opprime e stanca, toglie il respiro e la gioia di vivere (Mt 11,28). “Guai a voi – ammonisce i dottori della legge – che caricate gli uomini di pesi insopportabili” (Lc 11,46).
Un giorno uno di questi scribi, forse un po’ risentito, gli s’avvicina in modo ostile e, per tentarlo, gli chiede: “Qual è il comandamento grande della legge?” (v.36). Intende dire: tutti i 613 precetti sono grandi e importanti e devono essere osservati con il massimo impegno; sono un giogo, ma “è bene per l’uomo portarlo fin dalla giovinezza” (Lam 3,27). Come osi dunque definirli “pesi insopportabili”, intendi forse annullare parte della legge (Mt 5,17-20)?
Non tutti i rabbini erano così rigidi, molti operavano una distinzione fra precetti gravi e leggeri e sentivano anche il bisogno di fare una sintesi, di trovarne uno che li unificasse. Il testo cui facevano riferimento era il famoso Shema’ Israel che ogni giorno, il mattino e la sera, ogni israelita recitava e che Gesù stesso cita: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). 
C’era anche chi poneva al primo posto l’amore del prossimo. Si racconta che un giorno fu chiesto a Hillel – un famoso rabbino vissuto pochi anni prima di Cristo – di insegnare tutta la Toràh nel tempo in cui fosse riuscito a reggersi su una sola gamba. Hillel rispose: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo! Questa è tutta la legge, il resto è commento”.
Filone – il filosofo e letterato giudeo, contemporaneo di Gesù, vissuto ad Alessandria d’Egitto – riteneva che tutta la legge si riassumesse nel decalogo e che questo potesse essere a sua volta sintetizzato nell’amore a Dio e al prossimo.
Non c’è dunque alcuna novità nella risposta di Gesù?
Esaminiamo le sue parole. Il comandamento grande, il primo, è l’amore a Dio che deve coinvolgere tre facoltà: il cuore, l’anima, la mente.
Dio anzitutto va amato con cuore indiviso (con tutto il cuore). Oggi parliamo di credenti e di atei, ma nei tempi biblici questa distinzione non avrebbe avuto alcun senso perché gli atei non esistevano; la discriminazione era fra credenti e idolatri, fra coloro che amavano il Dio vivo e vero e coloro che si affidavano agli dèi morti e ingannevoli. Oggi ci sono credenti, c’è gente di chiesa, ci sono fedeli che adempiono tutte le pratiche religiose, ma contemporaneamente adorano il conto in banca, la posizione sociale, i titoli onorifici, la carriera, il potere, le proprie ambizioni. Costoro hanno certamente “il cuore diviso”, non amano con tutto il cuore, come Gesù pretende.
Con tutta la vita (l’anima). Al credente è richiesta la disponibilità a sacrificare tutto (denaro, interessi, legami affettivi, diritti) e perfino il coraggio di affrontare il martirio, pur di non venir meno alla propria fede. Amare Dio, accordargli fiducia può comportare – e accade spesso – la necessità di fare scelte e rinunce eroiche. In tal caso, non è lecito ricorrere a sotterfugi e mistificazioni; non possono essere accettate per sé, né suggerite ad altri, soluzioni di compromesso.
Con tutta la mente. Anche l’aspetto razionale fa parte dell’amore verso Dio. Le emozioni non possono essere oggetto di un comandamento, può esserlo invece la richiesta di impegnare tutto l’intelletto nella ricerca del Signore e della sua volontà. Chi si interessa di futilità, chi dedica più tempo ad argomenti frivoli, a pettegolezzi sui divi piuttosto che allo studio della parola di Dio, chi ignora le problematiche teologiche e morali attuali, chi non si impegna ad approfondire le ragioni della propria fede è ben poco coinvolto nell’amore di Dio.
Fin qui nulla di nuovo rispetto alla fede giudaica, se non il fatto (fondamentale per un cristiano) che la scoperta del volto di Dio e della sua volontà passano attraverso la rivelazione che viene da Cristo e che l’amore a Dio è frutto del dono del suo Spirito.
Dopo avere enunciato qual è il grande comandamento, Gesù aggiunge che questo è anche il primo. Fa questa specificazione per introdurre il secondo, che è simile al primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (v. 39) e qui cominciano le novità più evidenti.
La qualifica di “simile” – homoia in greco significa ugualmente grande, ugualmente importante, uguale a – conferisce all’amore per l’uomo lo stesso valore che all’amore verso Dio: solo Gesù ha collocato i due comandamenti sullo stesso piano, ha conferito loro pari valore. 
Nella succitata risposta di Hillel abbiamo certamente percepito il richiamo a un invito rivolto da Gesù ai discepoli: “Tutto ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è tutta la legge ed i profeti” (Mt 7,12). Abbiamo di sicuro notato anche la differenza: Gesù ha volto in positivo (fa…) la raccomandazione che Hillel aveva formulato in negativo (non fare…). Il Maestro ha preso le mosse dalle riflessioni dei più saggi fra i rabbini per comunicare la luce piena del suo messaggio.
Anche nel richiamo al comandamento dell’amore al prossimo ha usato lo stesso procedimento. Si è rifatto – come i rabbini – a un testo biblico spesso citato: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), ma ha conferito al precetto una prospettiva nuova, una dimensione sconfinata. Per l’israelita “prossimo” erano i figli del suo popolo; per Gesù è ogni uomo, anche il nemico (Mt 5,43-48).
L’affermazione conclusiva – “Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (v. 40), va interpretata, dunque, tenendo presente espressioni simili usate dai rabbini. Questi due comandamenti sono il punto di riferimento di qualunque norma, devono essere presi come criteri di giudizio per valutare ogni precetto: tutte le leggi sono buone se sono espressione di amore, vanno rifiutate se si oppongono, se sono un intralcio al bene dell’uomo.

Rimane un ultimo punto da chiarire: il rapporto fra l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Notiamo che negli autori del NT c’è una progressiva tendenza a unificare i due comandamenti. Marco, il primo degli evangelisti, parla di primo e di secondo comandamento; dopo di lui, Matteo riprende la stessa espressione, ma vi aggiunge: il secondo è simile, cioè equivale al primo; Luca non accenna a un primo e ad un secondo comandamento, ma li unisce in uno solo (Lc 10,25-28); Giovanni ricorda le parole di Gesù che parla di un solo comandamento: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).
In seguito e in tutto il resto del NT non si accenna più a due comandamenti, ma a uno solo, l’amore all’uomo. “Tutta la legge – ricorda Paolo – trova la sua pienezza in un solo precetto: Ama il prossimo come te stesso!” (Gal 5,14) e, scrivendo ai romani, raccomanda: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore (Rm 13, 8-10).
Sappiamo cosa significa amare l’uomo, anche se non sempre è facile stabilire come questo amore possa essere concretizzato. Ma come si fa ad amare Dio? 
Se si continuano a mantenere separati i due comandamenti, si corre il rischio di mettere Dio e il prossimo in competizione e di pensare che essi si contendano il cuore dell’uomo, il suo tempo, i suoi pensieri, i suoi interessi, così che ciò che è dato all’uno è tolto all’altro. Amare Dio non significa sottrarre qualcosa all’uomo per darlo a Dio. Erano gli dèi pagani che avevano creato gli uomini per essere da loro serviti mediante offerte, sacrifici, prostrazioni. Il Dio di Gesù non ha mai chiesto nulla per sé, è lui che si pone a servizio dell’uomo, fino a chinarsi per lavargli i piedi e chiede a noi di fare altrettanto: “Se Dio ci ha amato – dice Giovanni – anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).
Amare questo Dio significa assimilare i suoi sentimenti nei confronti dell’uomo, significa amare l’orfano, la vedova e lo straniero, come Dio li ama e li protegge. 
La connessione fra i due comandamenti era stata notata da vari rabbini. Qualcuno però ha anche intuito la ragione per cui essi si richiamano reciprocamente, ragione sublime che facciamo nostra: l’amore per l’uomo è ancora amore rivolto a Dio, perché è diretto alla sua immagine (Gn 1,27).

Padre Ferdinando Armellini biblista

sabato 15 ottobre 2011

Nutriamoci della Parola di Dio di domenica 16 ottobre 2011

..

Nutriamoci della Parola di Dio 16 ottobre 2011

Vangelo (Mt 22,15-21)

15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. 21 Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

La frase conclusiva del brano è una delle più note, ma anche delle più enigmatiche; non è facile stabilirne il significato, per cui non sempre viene citata a proposito. È impiegata, a volte, da chi detiene il potere per invitare le gerarchie ecclesiali a non immischiarsi in faccende politiche; altre volte sono queste a richiamarla ai governanti, per affermare il proprio diritto a difendere e a proclamare i valori che scaturiscono dal vangelo. È stata usata, peraltro, da chi sosteneva la ierocrazia papale e da chi propugnava il cesaropapismo, da chi difendeva la laicità dello stato e da chi sognava una sudditanza di questo al potere religioso, da chi sacralizzava le istituzioni e da chi giustificava il potere temporale della chiesa. Qualcuno, più banalmente, la usa per invitare a dare a ciascuno ciò che gli spetta.
Per comprenderla è necessario collocarla nel contesto del dialogo che l’ha originata.
L’imperatore di Roma esigeva da ogni suo suddito che avesse compiuto i quattordici anni, se uomo, i dodici, se donna e fino a sessantacinque anni, il versamento all’erario di un denaro annuo. Era il tributum capitis o testatico per il quale si facevano gli odiosi censimenti che provocavano spesso rivolte popolari (Lc 2,1-5; At 5,37). Contare il popolo che apparteneva a Dio equivaleva, per il pio israelita, a sottrarlo all’autorità del Signore e asservirlo a un potere umano. Per questo, dopo aver fatto il censimento, Davide si sentì battere il cuore ed esclamò: “Ho peccato gravemente per quanto ho fatto; ho commesso un’enorme sciocchezza” (2 Sam 24,10).
Un giorno i farisei, accompagnati dai simpatizzanti di Erode, si presentano a Gesù e, in modo molto ossequioso, dopo aver riconosciuto il suo amore per la verità e il suo rifiuto dei compromessi, gli rivolgono una domanda insidiosa: “Sappiamo che sei un uomo onesto, non hai soggezione di nessuno e non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (vv. 16-17).
Strana questa alleanza fra farisei ed erodiani. I primi ritenevano un’empietà appoggiare l’occupazione romana, i secondi erano invece sostenitori di Erode Antipa, il fantoccio senza personalità, succube dell’imperatore Tiberio ed erano dei collaborazionisti. Li troviamo alleati contro Gesù perché egli infastidiva entrambi: era leale e rifiutava ogni forma di ipocrisia.
La loro domanda è formulata in modo tale da rendergli impossibile qualunque scappatoia: se si pronuncia contro il pagamento delle tasse, può essere denunciato alle autorità romane come un sovversivo (e difatti, secondo Lc 23,2, davanti a Pilato lo accuseranno di sobillare il popolo a non pagare i tributi a Cesare); se si dichiara favorevole, si attira le antipatie del popolo che odia i romani colonizzatori.
Le tasse sono sempre pagate ovunque di malavoglia, ma, a rendere odioso il tributo, si aggiungeva in Palestina un motivo di ordine religioso: il denaro richiesto aveva su un lato la raffigurazione dell’imperatore di Roma e l’iscrizione: “Tiberio Cesare, figlio augusto del divino Augusto” e sul retro il titolo “Sommo Pontefice” con l’immagine di una donna seduta, simbolo della pace, forse Livia, la madre di Tiberio. Nel 1960 è stata rinvenuta una trentina di queste monete sul monte Carmelo.
È nota la ripugnanza degli israeliti per le immagini umane, proibite dalla loro legge. Usare il denaro di Tiberio significava dare il proprio assenso a una forma di idolatria.
Gesù si rende conto dell’insidia che gli hanno teso, ma non elude la domanda; com’è solito fare, conduce abilmente i suoi interlocutori alla radice del problema.
Vuole anzitutto che gli mostrino la moneta ed essi, ingenuamente, allungano le mani sotto la tunica dove erano soliti nascondere il denaro (gli abiti in quel tempo non avevano tasche) e gliela presentano. Non si accorgono che Gesù li sta giocando: anzitutto, se chiede la moneta, significa che egli non la possiede (per sé non ha neppure una pietra dove posare il capo; Mt 8,20) e se essi la tirano fuori, vuol dire che la utilizzano senza problemi, la ricevono per le loro prestazioni e con essa acquistano i prodotti al mercato. Ma c’è di più, la disputa avviene nel recinto del tempio (Mt 21,23), quindi nel luogo santo, ed essi non si preoccupano di profanarlo mostrando quell’immagine; si fanno scrupoli solo quando devono pagare le tasse.
Dopo averla osservata Gesù chiede: “Di chi è quest’immagine?”. “Di Cesare”, rispondono. “Allora – conclude – date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (v. 21).
Il primo messaggio che Gesù vuole dare è chiaro: è un dovere morale oltre che civile contribuire al bene comune con il pagamento del tributo; non c’è ragione che giustifichi l’evasione fiscale o il furto dei beni dello Stato. Qualunque sia la linea politica ed economica scelta dal governo, il discepolo di Cristo è chiamato ad essere un cittadino onesto ed esemplare, impegnato attivamente nella costruzione di una società giusta, rifugge dai sotterfugi e fa le scelte politiche che favoriscono i più deboli, non quelle che salvaguardano i suoi interessi.
Scrivendo ai romani, Paolo ripropone in termini più espliciti la direttiva del Maestro. Siamo agli inizi del regno di Nerone – l’imperatore è ventenne e da tre anni governa inizialmente in modo clemente e moderato – ed ecco cosa raccomanda l’Apostolo ai cristiani della capitale: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto” (Rm 13,1-7).
La risposta di Gesù, però, non si limita ad affermare il dovere di contribuire al bene comune con il pagamento delle tasse; egli aggiunge: “Rendete a Dio ciò che è di Dio”.
Il verbo che usa significa più esattamente “restituite”. Rivolto ai presenti dice dunque: “Restituite a Cesare ciò che appartiene a Cesare e restituite a Dio ciò che è di Dio”. Essi non solo stanno trattenendo del denaro che va consegnato all’imperatore, ma si sono anche impossessati, in modo illegale e ingiusto, di una proprietà di Dio e devono ridargliela subito perché egli la esige, è sua. Che cosa?
Già Tertulliano nel 200 d.C. aveva intuito che era l’uomo che andava riconsegnato a Dio. Creandolo, infatti, aveva detto: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” e creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Gn 1,26-27).
Se la moneta doveva essere “restituita” a Cesare, perché su di essa c’era impresso il volto del suo padrone, l’uomo andava “restituito” a Dio. L’uomo è l’unica creatura su cui è impresso il volto di Dio, è sacra e nessuno se ne può appropriare. Chi la fa sua (la schiavizza, la opprime, la sfrutta, la domina, la usa come oggetto...) deve immediatamente riconsegnarla al suo Signore.

Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 8 ottobre 2011

LE VIVANDE SONO ANCORA LI' PRONTE SUL TAVOLO

Nutriamoci della Parola di Dio 09 ottobre 2011

Vangelo (Mt 22,1-14)

1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.
11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.

Al tempo di Gesù, fra il popolo si favoleggiava molto sul “Gan Eden” – il Giardino di Eden – dove i giusti avrebbero goduto ogni felicità. Alla luce della ben nota profezia di Isaia che abbiamo trovato nella prima lettura, lo si immaginava come un sontuoso banchetto dove per bevanda sarebbe stato servito nientemeno che il “vino conservato nel grappolo dai sei giorni della creazione”; lo si rappresentava come un luogo dove non ci sarebbe stato bisogno di spargere aromi e profumi, perché “un vento del settentrione e un vento di mezzogiorno, soffiando fra le piante aromatiche del Gan Eden, avrebbero sparso ovunque la loro fragranza”.
I rabbini continuavano con promesse di gioie ancora maggiori: “Può un ospite – si chiedevano – preparare un banchetto per dei viandanti, senza sedersi a mensa con loro? Può uno sposo preparare un banchetto per degli invitati, senza sedersi accanto a loro?”. La risposta era: “Nell’aldilà, il Santo, benedetto egli sia, disporrà una danza per i giusti nel Gan Eden e siederà in mezzo ad essi e ciascuno lo additerà dicendo: ecco, questi è il nostro Dio, lo abbiamo atteso, godremo della sua salvezza”.
È su questo sfondo culturale che va proiettata la parabola che ci viene proposta oggi. Notiamo subito che la prospettiva del regno di Dio predicato da Gesù è però notevolmente diversa da quella dei rabbini. Questi annunciavano un Gan Eden preparato per l’aldilà, il banchetto del regno di Dio di cui parla Gesù è imbandito nell’aldiqua: è la condizione nuova in cui entra immediatamente chi accoglie il dono del suo Spirito, chi crede nella sua proposta di felicità, chi si fida delle sue beatitudini.
In tutta la parabola l’atmosfera è quella della gioia e della festa, ma ci sono anche, inattesi, due momenti drammatici: al centro c’è una città in fiamme e, nell’epilogo, un malcapitato che viene gettato fuori nelle tenebre. Cercheremo di cogliere il significato anche di queste due scene, ma cominciamo prima a identificare i personaggi.

La festa di nozze è l’immagine biblica dell’incontro d’amore tra il Signore e Israele. Nella parabola lo sposo è Gesù, è lui il figlio, e la sposa è l’umanità intera che, pur presentando tanti aspetti poco attraenti (odi, guerre, ingiustizie, lacrime di innocenti…) è amata perdutamente da Dio.
Il banchetto rappresenta la felicità dei tempi messianici. Chi accoglie la proposta del vangelo ed entra nel regno di Dio fa l’esperienza della gioia più autentica e profonda. Nella Bibbia il regno di Dio non è paragonato a una cappella dove tutti pregano raccolti e devoti; non è immaginato come un convento dove non si ode il minimo rumore, dove nessuno disturba la meditazione e l’estasi degli altri, ma è un banchetto dove ci si incontra, si mangia e si beve a sazietà, si dialoga e si fa festa.
Nella prima lettura il profeta ha promesso che Dio avrebbe organizzato un banchetto per celebrare la vittoria sulla morte. La Pasqua è il momento del trionfo di Dio ed è anche il giorno in cui sono state celebrate le nozze indissolubili fra Cristo e l’umanità. Da lì in avanti non hanno più senso la tristezza, la sfiducia, lo scoraggiamento; tutte le morti sono state vinte, tutti i sepolcri sono stati spalancati.
I servi che hanno l’incarico di portare l’invito sono divisi in tre gruppi. I primi due rappresentano i profeti dell’AT, fino a Giovanni Battista. Questi hanno svolto il compito di preparare Israele ad accogliere Gesù, lo sposo. Non hanno avuto successo. Il terzo gruppo indica gli apostoli e tutti noi; i risultati ottenuti da costoro sono decisamente migliori.
I primi invitati non sono entrati alla festa, non se la sono sentita di abbandonare i loro interessi, il campo e gli affari (v. 5). Non avevano bisogno di un banchetto; si sentivano sazi, ritenevano di possedere già ciò che è necessario per una vita senza problemi. Rappresentano le guide spirituali d’Israele, soddisfatti della struttura religiosa che si erano data e che offriva loro sicurezza davanti agli uomini e davanti a Dio.
Coloro che non prendono coscienza della loro povertà, che non hanno fame e sete di un mondo nuovo, non entreranno mai nel regno di Dio, si adatteranno alle meschinità con cui sono soliti convivere. Solo i poveri sono in grado di capire la gratuità dell’amore di Dio.
Gli invitati raccolti lungo le strade e nelle piazze sono gli uomini di tutto il mondo. Non è casuale il fatto che, nel testo originale, non si parli di buoni e cattivi – come risulta dalla nostra traduzione (v. 10) – ma di cattivi e buoni, senza distinzione, anzi, dando la precedenza proprio a coloro che non hanno meriti. È un modo sottile di alludere alla completa gratuità dell’amore di Dio e al fatto che “mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi” (Rm 5,6).
La presenza del bene e del male nella chiesa è un tema ripreso più volte da Matteo. Chi entra nel regno di Dio non diviene immediatamente perfetto, porta con sé tutte le proprie miserie, debolezze morali, infermità. Il popolo di Dio è composto da gente che è cattiva e buona, è un campo dove continuano a crescere insieme grano e zizzania, è una rete che mette insieme ogni sorta di pesci.
È l’invito a coltivare la comprensione per le debolezze umane e a mantenere le porte delle nostre comunità aperte a tutti. I poveri, gli emarginati, coloro che si sentono rifiutati devono trovare nella chiesa il luogo dove si sentono accolti, capiti e stimati.
Prima di passare alla seconda parte del brano, va chiarito il dettaglio della città in fiamme (v. 7). È stato certamente introdotto da Matteo nella parabola raccontata da Gesù, infatti il versetto interrompe il racconto e, se lo si togliesse, la storia scorrerebbe via più logica. È difficile immaginare un banchetto che inizia, poi, nel bel mezzo, si fa una guerra e alla fine... le vivande sono ancora lì pronte sul tavolo e gli invitati sono rimasti in attesa.
L’evangelista ha voluto fare una lettura teologica della rovina di Gerusalemme, che è già avvenuta quando egli scrive il suo vangelo. I primi cristiani consideravano questo tragico evento come un castigo di Dio per il rifiuto del messia da parte di Israele.
Siamo di fronte a una interpretazione che urta la nostra sensibilità. Sappiamo bene che Dio non è responsabile dei disastri provocati dalle nostre insensatezze. Si tratta di un modo di esprimersi abbastanza arcaico, derivato dal linguaggio dell’AT dove spesso sono chiamati castighi di Dio quelli che in realtà sono le conseguenze del peccato. Ecco ad esempio come Isaia spiega le catastrofi cui Israele è andato incontro: “Hanno rigettato la legge del Signore, hanno disprezzato la parola del Santo d’Israele, per questo è divampata l’ira del Signore contro il suo popolo e su di esso ha steso la sua mano per colpire” (Is 5,24-25). Non sarebbe una fedeltà al testo sacro, ma insensato fondamentalismo, ripetere oggi queste espressioni che, nella nostra cultura, hanno tutt’altro significato. È dunque necessario fare una trasposizione e riformulare l’immagine, per renderla comprensibile all’uomo d’oggi.
Ecco come potrebbe essere proposto oggi il messaggio: chi rifiuta i pressanti inviti del Signore a prendere parte al banchetto del regno di Dio, si autocondanna alla distruzione, vedrà la propria vita ridotta in cenere e, di tutto ciò che ha costruito, non scorgerà alla fine che macerie fumiganti (1 Cor 3,13).
Come sempre però, Dio si serve anche dei disastri provocati dal peccato per portare avanti il suo progetto di bene, li fa entrare nella realizzazione del suo disegno di salvezza. La distruzione del tempio di Gerusalemme e il rifiuto del messia da parte di Israele hanno infatti favorito l’entrata dei pagani nella Chiesa. Gli “esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio” (Ef 2,12) ora possono a pieno diritto sedersi come commensali al banchetto. La conclusione è tanto semplice quanto commovente: “E la sala fu piena” (v. 10). Non manca nessuno, tutti i figli sono riuniti attorno alla mensa del Padre, la festa può avere inizio.

Il sipario potrebbe calare su questa scena dolce e suggestiva, invece ecco che la parabola continua con un episodio che sembra rovinare tutto: il re entra nella sala, passa in rassegna gli ospiti e se la prende con un malcapitato che non ha indosso l’abito conveniente; lo tratta con durezza inaudita, addirittura ingiustificata, se si considera la venialità della colpa (vv. 11-13). Chi si era lasciato coinvolgere dalla gioia della festa non può che rimanere allibito. Come si spiega?
Risulta subito evidente che questa parte del racconto è slegata dalla precedente: non si accorda con quanto è stato affermato; perché meravigliarsi che ci sia qualcuno senz’abito nuziale, se le persone sono state raccolte per strada, nei campi, sulle piazze? Sarebbe più sorprendente trovare chi indossa l’abito di gala. Ma ciò che stona di più è lo sdoppiamento di personalità del sovrano. Si comporta da schizofrenico: prima è generoso e buono verso i più disgraziati, poi, per una mancanza da nulla, gli saltano i nervi, diventa terribile, persino crudele.
La spiegazione è abbastanza semplice. La seconda parte della parabola non è il seguito della prima, ma una nuova parabola che va isolata e interpretata senza fare riferimento a quella che la precede.
Il tema che l’evangelista vuole mettere a fuoco è la possibilità, anche per coloro che hanno accolto l’invito ad entrare nel regno di Dio, di allontanarsi dalla logica evangelica. Costoro rischiano il fallimento, come chi ha rifiutato l’invito.
La vita nuova del cristiano è spesso paragonata nel NT ad un abito nuovo, indossato nel giorno del battesimo. Non basta aver ricevuto il sacramento, è necessario assumere un comportamento consono. Non ci si può presentare con gli stracci della vita antica: gli adulteri, le disonestà, le slealtà, la dissolutezza morale. Non ci si può accontentare di mettere una pezza nuova sul vestito vecchio, bisogna rinnovare completamente il corredo, è necessario impostare la vita su valori del tutto nuovi.
Quanto al castigo inflitto all’uomo senz’abito nuziale, va tenuto presente, anzitutto, che questo modo duro di esprimersi è tipico di Matteo. Solo lui impiega spesso le espressioni “gettare fuori nelle tenebre esteriori” (Mt 8,12, 23,30) e “là ci sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13,42-50, 23,30, 24,51...). Gli altri evangelisti non usano questo linguaggio.
Matteo scrive per giudei abituati ad essere esortati e rimproverati dai loro predicatori con queste espressioni forti. Si tratta di immagini legate al tempo e alla cultura del popolo d’Israele. Questo fatto va tenuto presente per non farsi un’immagine di Dio assurda e addirittura blasfema, quella di un Dio senza cuore e senza misericordia.
Lo scopo dell’evangelista è quello di richiamare i cristiani – delle sue e delle nostre comunità – alla serietà con cui vanno assunti e portati avanti gli impegni battesimali.
L’ultima frase: “Molti (cioè “tutti”) sono chiamati, ma pochi gli eletti” (v. 14) non è legata a nessuna delle due parabole che la precedono. In esse gli eletti sono molti (quasi tutti) e pochi i rifiutati (uno solo).
Siamo di fronte a un detto che Gesù ha pronunciato in un contesto diverso. Matteo lo ha inserito qui per scuotere, con un’affermazione ad effetto, il torpore e la tiepidezza di alcuni cristiani delle sue comunità. Viene interpretato spesso come un’indicazione sul numero limitato di coloro che entreranno in paradiso. Qui però Gesù non sta parlando del paradiso, ma del regno di Dio, del mondo nuovo nel quale si entra aderendo alla sua impegnativa proposta di vita. Tutti sono invitati, ma pochi hanno il coraggio di compiere il passo decisivo. La maggioranza esita, tentenna, vacilla, è titubante, non è del tutto convinta che dentro troverà una tavola imbandita, non se la sente di rinunciare alla sicurezza che le deriva da ciò che già possiede. Gesù mette in guardia dal rischio di perdere tempo prezioso: si potrebbe arrivare in ritardo, quando gli altri sono già al dolce o alla frutta.



Padre Fernando Armellini biblista

sabato 1 ottobre 2011

LA VIGNA

Nutriamoci della Parola di Dio 02 ottobre 2011

Vangelo (Mt 21,33-43)

33 Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò.
34 Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. 35 Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono.
36 Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo.
37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! 38 Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. 39 E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero.
40 Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?”.
41 Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”.
42 E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri? 43 Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”.


Come il profeta Isaia, anche Gesù ricorre all’immagine della vigna per descrivere l’opera di Dio e la risposta dell’uomo; la scena però è alquanto diversa. Cambiano i personaggi: in primo piano non ci sono più Dio e la vigna che dà uva acerba e immangiabile, ma ci sono un padrone, Dio, e i suoi dipendenti, identificati con i sommi sacerdoti e le guide spirituali del popolo ai quali è diretta la parabola (Mt 21,23). Poi la vigna non è infeconda, pare dia frutti, ma questi non vengono consegnati. Infine la conclusione è diversa: non ci sono l’abbandono, la devastazione della vigna, ma un nuovo inizio, un intervento di salvezza, una sostituzione degli operai inetti.
Veniamo alla parabola. Un padrone pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava un frantoio, vi costruisce una torre, la affida a dei vignaioli e se ne va.
Giunto il tempo della vendemmia, invia i suoi servi a ritirare il raccolto, ma ecco la sorpresa: gli agricoltori non vogliono consegnare i frutti. La prima ipotesi cui si pensa è che essi li vogliano trattenere per sé; ma c’è un’altra possibilità, forse più probabile, che non abbiano alcun frutto da presentare. Può darsi che non abbiano lavorato, che abbiano passato il tempo in crapule e gozzoviglie oppure che abbiano lavorato male.
Qualcuno di loro comincia a prendersi gioco degli inviati del padrone, poi gli insulti, infine le percosse e l’uccisione di alcuni servi. Il padrone non si arrende, ama troppo la sua vigna e allora manda altri servi, più numerosi dei primi, ma anche questi non hanno fortuna. Come ultimo tentativo invia il proprio figlio, ma i lavoratori della vigna cacciano fuori anche lui e lo uccidono, convinti di poterla fare da padroni nel campo che è stato loro affidato.
Come nella prima lettura, anche nel vangelo tutti i particolari del racconto hanno un significato simbolico.
Il padrone è il Signore che ha prodigato tante cure e manifestato un immenso amore per il suo popolo (v. 33). La siepe è la Toràh, la legge che Dio ha rivelato al suo popolo per proteggerlo dai nemici, cioè dalle proposte di vita insensate che lo porterebbero alla rovina. I vignaioli rappresentano i capi, le guide religiose e politiche, il cui compito è quello di collocare il popolo nelle condizioni ideali per produrre i frutti che il padrone si attende e che la prima lettura permette di identificare: si tratta delle opere di amore al prossimo e della giustizia sociale.
I due gruppi di inviati indicano i profeti che, prima e dopo l’esilio a Babilonia, sono stati mandati, sempre più numerosi, per richiamare Israele alla fedeltà all’alleanza. Ecco come si esprime Dio per bocca di Geremia: “Dal giorno in cui i vostri padri uscirono dall’Egitto fino ad oggi, ho mandato a voi tutti i miei servitori, i profeti, con premura e sempre, ma non mi ascoltarono, anzi rimasero ostinati” (Ger 7,25-26). La sorte cui sono andati incontro questi uomini è stata drammatica: percosse, lapidazione (2 Cr 24,21), ceppi e catene (Ger 20,2), morte di spada (Ger 26,23). Non dovevano aspettarsi altro: erano i portavoce di Dio e della sua sapienza, troppo lontana dai pensieri degli uomini, assurda, inaccettabile. Ecco perché i vignaioli vogliono impossessarsi del campo, rifiutano ogni altro punto di riferimento, pretendono di gestire da soli “la vigna”. Rappresentano coloro che vogliono fare a meno di Dio e considerano i suoi doni un bene di cui appropriarsi.
Il figlio è Gesù.
Il tempo della vendemmia rappresenta il momento del giudizio di Dio che – questo va tenuto ben presente – non va inteso come la “resa dei conti”, ma come un intervento di salvezza. Mi spiego. Al termine della parabola, Gesù coinvolge i suoi ascoltatori e chiede loro un parere sul comportamento da suggerire al padrone ed essi rispondono convinti: “Il padrone farà perire miseramente quei malvagi” (v. 41).
Questa immagine severa è frutto dell’effervescente fantasia orientale che – come più volte abbiamo rilevato – si compiace nel dipingere quadri con tinte forti.
Ma Gesù segue un’altra logica. Invece di approvare le parole di minaccia e di distruzione pronunciate dai suoi ascoltatori (v. 41), propone l’azione di Dio: il Signore non reagirà distruggendo il malvagio e neppure fingendo che il male non sia stato commesso. Questo rimane, non può essere azzerato. Dio interviene per farlo servire al bene, ne ricava un capolavoro di salvezza. Si può ricordare ciò che Giuseppe dice ai fratelli che lo avevano venduto agli egiziani: “Voi avevate pensato il male contro di me, ma Dio ha pensato di farlo servire a un bene: dare vita a un popolo numeroso” (Gn 50,20).
I vv. 39.42-43 costituiscono la parte centrale della parabola: descrivono morte e risurrezione di Gesù. I capi del popolo prendono il Figlio e lo gettano fuori della vigna. È ciò che è accaduto a Gesù: è stato ritenuto un bestemmiatore, un impuro e per questo è stato portato fuori delle mura della città e giustiziato. Ma Dio, risuscitandolo, lo ha glorificato, lo ha costituito Signore, pietra angolare di un nuovo edificio.
Il risultato finale dell’intervento del padrone è la consegna della vigna ad altri lavoratori che porteranno frutti. Non si tratta di una reazione indispettita del padrone, ma di un suo gesto di amore e di salvezza. Neppure il rifiuto e l’uccisione del figlio riescono a renderlo nemico dell’uomo.
Riferendo questa parabola, l’evangelista Matteo pensava certamente all’infedeltà dei capi del suo popolo e al loro rigetto del messia di Dio. Ma non soltanto a loro; pensava anche alle sue comunità e al mondo intero: ogni uomo è un vignaiolo dal quale il Signore si attende la consegna dei frutti.
La lieta notizia con cui si conclude il brano evangelico (v. 43) è che, malgrado tutti i rifiuti dell’uomo, alla fine Dio trova sempre e comunque il modo di raggiungere il suo scopo e di ottenere i frutti buoni che desidera.

Padre Fernando Armellini, biblista