sabato 15 ottobre 2011

Nutriamoci della Parola di Dio di domenica 16 ottobre 2011

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Nutriamoci della Parola di Dio 16 ottobre 2011

Vangelo (Mt 22,15-21)

15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. 21 Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

La frase conclusiva del brano è una delle più note, ma anche delle più enigmatiche; non è facile stabilirne il significato, per cui non sempre viene citata a proposito. È impiegata, a volte, da chi detiene il potere per invitare le gerarchie ecclesiali a non immischiarsi in faccende politiche; altre volte sono queste a richiamarla ai governanti, per affermare il proprio diritto a difendere e a proclamare i valori che scaturiscono dal vangelo. È stata usata, peraltro, da chi sosteneva la ierocrazia papale e da chi propugnava il cesaropapismo, da chi difendeva la laicità dello stato e da chi sognava una sudditanza di questo al potere religioso, da chi sacralizzava le istituzioni e da chi giustificava il potere temporale della chiesa. Qualcuno, più banalmente, la usa per invitare a dare a ciascuno ciò che gli spetta.
Per comprenderla è necessario collocarla nel contesto del dialogo che l’ha originata.
L’imperatore di Roma esigeva da ogni suo suddito che avesse compiuto i quattordici anni, se uomo, i dodici, se donna e fino a sessantacinque anni, il versamento all’erario di un denaro annuo. Era il tributum capitis o testatico per il quale si facevano gli odiosi censimenti che provocavano spesso rivolte popolari (Lc 2,1-5; At 5,37). Contare il popolo che apparteneva a Dio equivaleva, per il pio israelita, a sottrarlo all’autorità del Signore e asservirlo a un potere umano. Per questo, dopo aver fatto il censimento, Davide si sentì battere il cuore ed esclamò: “Ho peccato gravemente per quanto ho fatto; ho commesso un’enorme sciocchezza” (2 Sam 24,10).
Un giorno i farisei, accompagnati dai simpatizzanti di Erode, si presentano a Gesù e, in modo molto ossequioso, dopo aver riconosciuto il suo amore per la verità e il suo rifiuto dei compromessi, gli rivolgono una domanda insidiosa: “Sappiamo che sei un uomo onesto, non hai soggezione di nessuno e non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (vv. 16-17).
Strana questa alleanza fra farisei ed erodiani. I primi ritenevano un’empietà appoggiare l’occupazione romana, i secondi erano invece sostenitori di Erode Antipa, il fantoccio senza personalità, succube dell’imperatore Tiberio ed erano dei collaborazionisti. Li troviamo alleati contro Gesù perché egli infastidiva entrambi: era leale e rifiutava ogni forma di ipocrisia.
La loro domanda è formulata in modo tale da rendergli impossibile qualunque scappatoia: se si pronuncia contro il pagamento delle tasse, può essere denunciato alle autorità romane come un sovversivo (e difatti, secondo Lc 23,2, davanti a Pilato lo accuseranno di sobillare il popolo a non pagare i tributi a Cesare); se si dichiara favorevole, si attira le antipatie del popolo che odia i romani colonizzatori.
Le tasse sono sempre pagate ovunque di malavoglia, ma, a rendere odioso il tributo, si aggiungeva in Palestina un motivo di ordine religioso: il denaro richiesto aveva su un lato la raffigurazione dell’imperatore di Roma e l’iscrizione: “Tiberio Cesare, figlio augusto del divino Augusto” e sul retro il titolo “Sommo Pontefice” con l’immagine di una donna seduta, simbolo della pace, forse Livia, la madre di Tiberio. Nel 1960 è stata rinvenuta una trentina di queste monete sul monte Carmelo.
È nota la ripugnanza degli israeliti per le immagini umane, proibite dalla loro legge. Usare il denaro di Tiberio significava dare il proprio assenso a una forma di idolatria.
Gesù si rende conto dell’insidia che gli hanno teso, ma non elude la domanda; com’è solito fare, conduce abilmente i suoi interlocutori alla radice del problema.
Vuole anzitutto che gli mostrino la moneta ed essi, ingenuamente, allungano le mani sotto la tunica dove erano soliti nascondere il denaro (gli abiti in quel tempo non avevano tasche) e gliela presentano. Non si accorgono che Gesù li sta giocando: anzitutto, se chiede la moneta, significa che egli non la possiede (per sé non ha neppure una pietra dove posare il capo; Mt 8,20) e se essi la tirano fuori, vuol dire che la utilizzano senza problemi, la ricevono per le loro prestazioni e con essa acquistano i prodotti al mercato. Ma c’è di più, la disputa avviene nel recinto del tempio (Mt 21,23), quindi nel luogo santo, ed essi non si preoccupano di profanarlo mostrando quell’immagine; si fanno scrupoli solo quando devono pagare le tasse.
Dopo averla osservata Gesù chiede: “Di chi è quest’immagine?”. “Di Cesare”, rispondono. “Allora – conclude – date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (v. 21).
Il primo messaggio che Gesù vuole dare è chiaro: è un dovere morale oltre che civile contribuire al bene comune con il pagamento del tributo; non c’è ragione che giustifichi l’evasione fiscale o il furto dei beni dello Stato. Qualunque sia la linea politica ed economica scelta dal governo, il discepolo di Cristo è chiamato ad essere un cittadino onesto ed esemplare, impegnato attivamente nella costruzione di una società giusta, rifugge dai sotterfugi e fa le scelte politiche che favoriscono i più deboli, non quelle che salvaguardano i suoi interessi.
Scrivendo ai romani, Paolo ripropone in termini più espliciti la direttiva del Maestro. Siamo agli inizi del regno di Nerone – l’imperatore è ventenne e da tre anni governa inizialmente in modo clemente e moderato – ed ecco cosa raccomanda l’Apostolo ai cristiani della capitale: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto” (Rm 13,1-7).
La risposta di Gesù, però, non si limita ad affermare il dovere di contribuire al bene comune con il pagamento delle tasse; egli aggiunge: “Rendete a Dio ciò che è di Dio”.
Il verbo che usa significa più esattamente “restituite”. Rivolto ai presenti dice dunque: “Restituite a Cesare ciò che appartiene a Cesare e restituite a Dio ciò che è di Dio”. Essi non solo stanno trattenendo del denaro che va consegnato all’imperatore, ma si sono anche impossessati, in modo illegale e ingiusto, di una proprietà di Dio e devono ridargliela subito perché egli la esige, è sua. Che cosa?
Già Tertulliano nel 200 d.C. aveva intuito che era l’uomo che andava riconsegnato a Dio. Creandolo, infatti, aveva detto: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” e creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Gn 1,26-27).
Se la moneta doveva essere “restituita” a Cesare, perché su di essa c’era impresso il volto del suo padrone, l’uomo andava “restituito” a Dio. L’uomo è l’unica creatura su cui è impresso il volto di Dio, è sacra e nessuno se ne può appropriare. Chi la fa sua (la schiavizza, la opprime, la sfrutta, la domina, la usa come oggetto...) deve immediatamente riconsegnarla al suo Signore.

Padre Fernando Armellini, biblista

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