sabato 26 marzo 2011

"Dammi da bere"


Vangelo (Gv 4,5-42)

5Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. 7 Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: “Dammi da bere”. 8 I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. 9 Ma la Samaritana gli disse: “Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. 10 Gesù le rispose: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. 11 Gli disse la donna: “Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?”. 13Rispose Gesù: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”. 15 “Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. 16 Le disse: “Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui”. 17 Rispose la donna: “Non ho marito”. Le disse Gesù: “Hai detto bene "non ho marito"; 18 infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. 19 Gli replicò la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. 21 Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. 24 Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. 25 Gli rispose la donna: “So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa”. 26 Le disse Gesù: “Sono io, che ti parlo”.
27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: “Che desideri?”, o: “Perché parli con lei?”. 28 La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: 29 “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”. 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui.
31 Intanto i discepoli lo pregavano: “Rabbì, mangia”. 32 Ma egli rispose: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. 33 E i discepoli si domandavano l’un l’altro: “Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?”. 34 Gesù disse loro: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35 Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36 E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. 37 Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. 38 Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro”.
39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. 40 E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. 41 Molti di più credettero per la sua parola 42 e dicevano alla donna: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.

Giovanni non riferisce mai i fatti della vita di Gesù nella loro pura materialità, li rilegge sempre e li utilizza per comporre pagine dense di teologia: non è mai agevole stabilire cosa sia realmente accaduto. Il caso della samaritana è esemplare: il simbolismo che accompagna tutto il racconto appare tanto evidente, che qualcuno ha addirittura posto in dubbio la storicità dell’evento e ha pensato che si tratti di una composizione letteraria dell’evangelista. Noi riteniamo che ci sia stato un incontro di Gesù con una donna di Samaria, ma il fatto è stato poi redatto con il linguaggio, le immagini, i riferimenti biblici con cui si è voluto veicolare un messaggio teologico.
Nel nostro commento terremo presenti i due livelli – quello storico e quello teologico – concentrando la nostra attenzione sul secondo.
Anticamente il pozzo era il luogo dove si ritrovavano le persone. Al pozzo si incontravano i pastori che venivano ad abbeverare le loro greggi, si fermavano i commercianti con le loro mercanzie in attesa dei clienti, venivano le donne ad attingere acqua (e magari anche a fare quattro chiacchiere...), si recavano gli innamorati a cercarsi una compagna.
La Bibbia racconta molti di questi incontri al pozzo (suggerisco di leggere i seguenti: Gn 24,10-25; 26,15-25; 29,1-14; Es 2,15-21); quello narrato nel vangelo di oggi ha come protagonisti Gesù e una donna di Samaria. Il pozzo di cui si parla esiste ancora, si trova lungo la strada che dalla Giudea conduce in Galilea, ha più di tremila anni, è molto profondo (m. 32) e dà ancora acqua buona e fresca, come al tempo di Gesù. Era il luogo dove tutti i viandanti facevano sosta, si ristoravano, ritempravano le forze.
Anche Gesù, stanco per il viaggio, si siede su questo pozzo. È mezzogiorno, quando arriva una donna ad attingere acqua e Gesù le chiede da bere.
La meraviglia della donna è comprensibile: dall’accento si è subito resa conto di avere a che fare con un galileo inviso alla sua gente. Come osa chiedere da bere a lei, una samaritana? Perché viola la norma severa che proibisce di parlare da soli con donne sconosciute? I rabbini insegnavano che, anche per un’informazione, le parole dovevano essere ridotte al minimo. Celebre l’episodio accaduto a rabbi Josè il Galileo che, ad un crocevia, chiese a una donna: “Quale strada porta a Luz?”. Riconosciutolo, la donna rispose: “Hai parlato troppo con una donna, dovevi dire: “Luz?”.
Essendo questa la mentalità, si spiega anche la meraviglia dei discepoli che, al ritorno dal villaggio dove si sono recati per acquistare cibo, trovano Gesù che parla con una samaritana.
L’atteggiamento libero del Maestro offre uno spunto di riflessione, anche se marginale rispetto al tema del brano. Gesù esige dai discepoli la purezza di cuore e di intenzioni; è addirittura severo su questo punto: “Chi guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28), ma si comporta in modo libero e rifiuta ogni forma di discriminazione.
Dopo questa introduzione, veniamo alla parte centrale del brano, cioè al dialogo fra Gesù e la samaritana (vv. 7-26).
È importante capire chi è questa donna.
Il modo come l’evangelista la presenta lascia chiaramente trasparire la sua volontà di trasformarla in simbolo.
Proviamo a identificarla: non ha nome, non si dice da dove venga, l’unico elemento che la definisce è “samaritana”, che equivale aereticainfedele a Dio. Chi può essere?
Viene al pozzo e nella Bibbia il pozzo – lo abbiamo rilevato – è spesso il luogo dell’incontro fra innamorati che poi finiscono per sposarsi. Curioso è il fatto che, per lasciare soli Gesù e la donna, l’evangelista, in modo abbastanza goffo e poco verosimile, allontani tutti i discepoli con la scusa della “provvista di cibo” (v. 8).
Chi rappresentano allora i due “innamorati” al pozzo?
Nell’AT si parla spesso del popolo d’Israele come della sposa alla quale il Signore si è legato con affetto indefettibile (si tenga presente che Israele, in ebraico, è femminile). Queste nozze non hanno avuto esito felice. L’innamoramento era iniziato nel deserto, dove Dio e Israele avevano vissuto esperienze indimenticabili. A questi momenti il Signore ripensava con nostalgia: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto” (Ger 2,2). Poi erano cominciate le infedeltà della sposa, i suoi tradimenti, le sue infatuazioni per gli amanti, il rimpianto per gli dèi dell’Egitto, l’adorazione dei Baal dei cananei, i flirts con le divinità degli assiri, dei babilonesi, dei persiani ed infine anche dei romani, provocando la gelosia del suo sposo.
Quale sarà la reazione del Signore? Il ripudio, il divorzio, il castigo?
Non se ne parla nemmeno: “Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? – dice il tuo Dio – Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore” (Is 54,6-7). Il Signore sceglierà un’altra soluzione. A costo di umiliarsi davanti alla sposa infedele, riprenderà a corteggiarla, perché l’unico suo obiettivo è riconquistarla: “Ecco, la attirerò a me, le parlerò al cuore… Canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto” (Os 2,16-17).
A questo punto l’identificazione della samaritana è scontata: è la sposa Israele, con alle spalle tutta la sua storia di amori e di adulteri; ha avuto tanti “mariti” e quello che ha ora non è il suo sposo. Al pozzo Gesù la incontra e vuole ricondurla al suo primo, unico vero amore, il Signore.
Alla luce di questo simbolismo sponsale, acquistano significato anche i dettagli apparentemente marginali del racconto. Anzitutto la strana annotazione: Gesù doveva passare per la Samaria; dal punto di vista geografico non era affatto obbligato a passare: si trovava al Giordano (Gv 3,22) e sarebbe stato molto più semplice per lui risalire lungo il fiume. Il “doveva” non può che riferirsi al bisogno irresistibile dello sposo – Dio – che non riesce a fare a meno di incontrare l’amata.
Era stanco per il viaggio. È l’unica volta che nel vangelo si accenna alla stanchezza di Gesù e non è certo per ragguargliarci sulla sua resistenza fisica. Il dettaglio è stato introdotto per richiamare il lungo viaggio, la distanza infinita che il Signore ha dovuto percorrere per ritrovare la sposa che lo aveva abbandonato: dalle altezze del cielo è venuto sulla terra; mosso da una passione incontenibile, infinita, è sceso fin nell’abisso più profondo alla ricerca dell’amata. Nessuna distanza, nessuna difficoltà, nessuna fatica lo ha scoraggiato. Il pensiero va spontaneamente all’inno della Lettera ai filippesi: “Egli che era di natura divina… svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo… divenendo simile agli uomini, umiliò se stesso… fino alla morte di croce” (Fil 2,6-8).

Siamo così introdotti nel tema centrale del dialogo fra Gesù e la samaritana.
I discepoli sono andati alla ricerca del cibo materiale; la donna è venuta ad attingere acqua al pozzo. A tutti Gesù offre invece un cibo e un’acqua che essi non conoscono (vv. l0.32).
La sete della samaritana è il simbolo dei bisogni più intimi che tormentano il cuore della sposa-Israele: il bisogno di pace, di amore, di serenità, di speranza, di felicità, di sincerità, di coerenza, di Dio. Sono questi i bisogni che ogni uomo sperimenta.
L’acqua del pozzo indica i tentativi e le astuzie che l’uomo mette in atto per placare questa sete che nessuna “cosa” materiale riesce a soddisfare.
L’acqua viva che Gesù promette è di altro tipo, è lo spirito di Dio, è quell’amore che riempie i cuori. Chi si lascia guidare da questo Spirito ottiene la pace e non ha bisogno d’altro.
La donna di Samaria, all’inizio del dialogo, pensava all’acqua materiale, non sospettava neppure che potesse esisterne un’altra. Un po’ alla volta, però, ha cominciato a percepire e ad accogliere la proposta di Gesù. La sua progressiva scoperta è sottolineata con cura dall’evangelista. All’inizio, per lei, Gesù è un semplice viandantegiudeo (v. 9); poi diviene un signore (v. 11); poi un profeta (v. 19); in seguito è il messia (vv. 25-26); infine, con tutto il popolo, lo proclama Salvatore del mondo (v. 42).
Attraverso il cammino spirituale della donna di Samaria, Giovanni vuole far intuire ai cristiani delle sue comunità il percorso proposto a ogni discepolo. Prima di incontrare Cristo l’uomo è preoccupato unicamente degli aspetti materiali della vita. Sono realtà importanti, anche indispensabili, ma non bastano, non possono costituire l’obiettivo unico e ultimo della vita. Solo chi incontra Cristo, chi scopre che egli è il “salvatore del mondo” e accoglie il dono della sua acqua, sente che ogni fame e ogni sete possono essere saziate.

L’ultima parte del vangelo (vv. 28-41) presenta la conclusione del cammino spirituale della samaritana e di ogni discepolo. Cosa fa questa donna dopo aver incontrato Cristo? Abbandona la brocca(non le serve più perché ormai ha trovato un’altra acqua!) e corre ad annunciare ad altri la sua scoperta e la sua felicità.
È l’invito a divenire missionari, apostoli, catechisti, a raccontare a tutti la gioia e la pace che prova chi incontra il Signore e beve la sua acqua.

Fernando Armellini (biblista)

giovedì 24 marzo 2011

Eccomi!



“Andate, predicate il Vangelo... Io sono con voi...”. —Lo ha detto Gesù... e lo ha detto a te. (Cammino, 904)

Perché non ti dai a Dio una buona volta..., sul serio..., adesso? (Cammino, 902)

Digli: “Ecce ego quia vocasti me!”., perché mi hai chiamato! (Cammino, 984)

Coltiva e preserva l'ideale nobilissimo che è appena nato in te. —Bada che sono molti i fiori a sbocciare in primavera, e pochi quelli che maturano in frutto. (Cammino, 987)

Ti troverai libero

Costanza, che nulla faccia vacillare. —Ne hai bisogno. Chiedila al Signore e fa' quanto puoi per ottenerla: perché è un gran mezzo per non separarti dal fecondo cammino che hai intrapreso. (Cammino, 990)

Lo scoraggiamento è nemico della tua perseveranza. —Se non lotti contro lo scoraggiamento, giungerai dapprima al pessimismo, e poi alla tiepidezza. —Sii ottimista. (Cammino, 988)

Cominciare è di tutti; perseverare è dei santi.
La tua perseveranza non sia conseguenza cieca del primo impulso, opera dell'inerzia: sia una perseveranza riflessiva. (Cammino, 983)

Non puoi “salire”. —Non è strano: quella caduta!...
Persevera e “salirai”. —Ricorda ciò che dice un autore spirituale: la tua povera anima è un uccello con le ali imbrattate di fango.
C'è bisogno di molto sole del cielo e di sforzi personali, piccoli e costanti, per strappare quelle inclinazioni, quelle immaginazioni, quell'abbattimento: quel fango appiccicoso delle tue ali.
E ti troverai libero. —Se perseveri, “salirai”. (Cammino, 991)

Innamòrati, e non “lo” lascerai

“Mi è passato l'entusiasmo”, mi hai scritto. —Tu non devi lavorare per entusiasmo, ma per Amore: con coscienza del dovere, che è abnegazione. (Cammino, 994)

Qual è il segreto della perseveranza? L'Amore. —Innamòrati, e non “lo” lascerai. (Cammino, 999)

Irremovibile: così devi essere. —Se le miserie altrui o tue personali fanno vacillare la tua perseveranza, mi faccio un triste concetto del tuo ideale.
Deciditi una volta per tutte. (Cammino, 995)

Hai ragione. —“Dalla vetta —mi scrivi— dovunque si guardi —ed è un raggio di molti chilometri—, non si vede una pianura: dietro ogni montagna, un'altra montagna. Se in qualche punto il paesaggio sembra addolcirsi, all'alzarsi della nebbia ecco ancora una catena di monti che era dietro celata”.
Così è, così deve essere l'orizzonte del tuo apostolato: bisogna attraversare il mondo. Ma non ci sono vie tracciate per voi... Le traccerete, attraverso le montagne, col battere dei vostri passi. (Cammino, 928)

Assenza, isolamento: prove per la perseveranza. —Santa Messa, orazione, sacramenti, sacrifici: comunione dei santi! Ecco le armi per vincere nella prova. (Cammino, 997)

Asinello di nòria

Benedetta perseveranza dell'asinello di nòria! —Sempre allo stesso passo. Sempre gli stessi giri. —Un giorno dopo l'altro: tutti uguali.
Senza di ciò, non vi sarebbe maturità nei frutti, né freschezza nell'orto, non avrebbe aromi il giardino.
Porta questo pensiero alla tua vita interiore. (Cammino, 996)

Leggi adagio questi consigli. Medita con calma queste considerazioni. Sono cose che ti dico all'orecchio, in confidenza d'amico, di fratello, di padre. E queste confidenze le ascolta Dio. (Prologo di Cammino)

Dal libro Cammino

sabato 19 marzo 2011

la trasfigurazione di Gesù


Seconda Domenica di Quaresima 20-03-2011
La trasfigurazione di Gesù Cristo
Commento di don Dolindo Ruotolo

Secondo il Vangelo di San Matteo
« 1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, e li condusse in disparte sopra un alto monte, 2 e fu trasfigurato innanzi a loro. Il suo volto risplendeva come il sole, e le sue vesti si fecero bianche come la neve. 3 Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, i quali conversavano con Lui. 4 Pietro, allora, prendendo la parola, disse a Gesù: “Signore, è buona cosa per noi stare qui; se vuoi facciamo qui tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia”. 5 Mentre Egli stava ancora parlando, una nube splendente li avvolse ed ecco dalla nube una voce che diceva: “Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo”. 6 Udendo [questa voce], i discepoli caddero bocconi per terra ed ebbero un grande timore. 7 Ma Gesù si accostò e li toccò, dicendo loro: “Alzatevi e non temete”. 8 Ed essi, alzati gli occhi, non videro altri che il solo Gesù.
9 Nel discendere dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione prima che il Figlio dell’uomo sia risuscitato da morte” (Mt 17,1-9).

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo
Il programma proposto da Gesù ai suoi seguaci: rinnegarsi e prendere la croce, aveva dovuto abbattere non poco gli apostoli, e perciò Egli, nella sua carità infinita, volle sollevarne lo spirito, con una manifestazione gloriosa che doveva imprimersi nella loro mente per i giorni tristi che sarebbero venuti.
Partendo dai pressi di Cesarea di Filippo, giunse alle falde di un monte che la tradizione individua nel Tabor e, presi con sé i suoi apostoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ascese alla sua cima, elevata a 780 metri sul lago di Genesaret e a 400 sulla pianura di Esdrelon. Non prese con sé tutti gli apostoli, perché avrebbero fatto pubblicità inopportuna, ma volle solo tre testimoni affinché avessero potuto sostenere la fede vacillante negli altri apostoli, scossa dalla continua propaganda ostile degli scribi e farisei.
Dal modo come san Luca narra l’avvenimento, si rileva che dovette avverarsi nella notte (cf Lc 9,28ss); Gesù era infatti salito sul monte per pregare, ciò che faceva di notte, e ne discese il giorno dopo, passando la notte sull’altura. Le tenebre e la solitudine diedero all’avvenimento un maggiore risalto. Il Redentore si mise in orazione, e si raccolse tutto nella gloria del Padre. L’anima sua, attratta dalla divinità, si trovò in piena visione beatifica, e il Corpo fu reso glorioso dalla luce divina. L’ineffabile purezza di quel Corpo divino non offrì neppure il più piccolo ostacolo alla luce eterna che tutto l’avvolgeva, lo penetrava e lo rischiarava, di modo che fu tutto luce e splendore. Il volto divenne come sole, in un’ineffabile espressione di gloria e le vesti per la gran luce che emanava dal corpo, si fecero bianche come la neve o, come dice il testo greco, come la luce. Era uno spettacolo grandioso, ineffabile che rapiva l’anima, e la trasfondeva tutta di pace, di godimento e d’amore.
I tre apostoli – come nota san Luca –, prima aggravati dal sonno, si svegliarono certamente allo splendore di quella luce divina, videro due personaggi che discorrevano con Gesù e, per divina ispirazione, riconobbero in essi Mosè ed Elia.
Furono presi da timore e subito dopo da una gioia interiore così grande che non sapevano esprimerla.
Psicologicamente, nelle grandi gioie che danno all’anima un senso di riposo e di raccoglimento, la fantasia si accende e fa progetti per conservare o accrescere il benessere che si prova. Gli apostoli si voltarono intorno, videro giù le oscure valli e d’ogni parte le tenebre, ebbero orrore del mondo nel quale vivevano e pensarono subito di voler rimanere sempre in quella felicità.
Si scambiarono certamente delle parole, perché nelle grandi sorprese, ognuno crede che chi gli sta vicino non se ne renda abbastanza conto, e ci tiene a manifestare le proprie impressioni, e a tener desta l’altrui attenzione.
Scambievolmente si additavano lo splendore di quella gloria, e scambievolmente si dicevano di non volere ad ogni costo staccarsene; perciò san Pietro, parlando a nome di tutti, si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, è buona cosa per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia.
Egli non sapeva quello che diceva – dice san Luca –, e difatti le sue parole erano povere e inceppate, come lo sono sempre in una grande emozione di gioia, e innanzi ad una grande maestà. San Pietro avrebbe voluto dire tante cose e non sapeva quello che dovesse dire; voleva esprimere tanti progetti di felicità stabile, e non seppe proporre che l’erezione di tre tende. È profondamente psicologico, poiché, nelle grandi emozioni, i progetti della fantasia, quando si esprimono, sfumano e di tutta una ridda d’immagini che sembrano grandiose, non rimane che l’espressione di un semplice desiderio rozzamente manifestato. I progetti della fantasia sfumano come un sogno che si dilegua e la parola diventa anche più povera, non sapendosi adeguare a ciò che è già di per sé inafferrabile.

«Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo»
Mosè ed Elia conversavano con Gesù e – come dice san Luca –, parlavano della sua dipartita dal mondo tra i dolori amarissimi della Passione. Essi rappresentavano la Legge e i Profeti, e parlavano del compimento di ciò che avevano predetto e figurato. Non è detto nel Vangelo se gli apostoli ascoltarono questi discorsi; è possibile, e in questo caso può credersi che san Pietro abbia proposto di rimanere stabilmente su quel monte non solo per conservare quella felicità, ma anche per sfuggire alle insidie di morte che si preparavano a Gesù Cristo. Egli non sapeva quel che dicesse, non potendo penetrare nel disegno del Signore. Avrebbe voluto dirigere gli eventi e prevenire quelli futuri, senza capire che doveva farsi guidare dalla parola del Redentore. Dio stesso, perciò, si degnò rispondere alle ansietà degli apostoli; una nube luminosa avvolse Gesù, Mosè ed Elia, e dalla nube, che era segno della presenza di Dio, si sentì la voce placida, solenne e grandiosa del Padre che disse: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo. Non si trattava dunque di fare progetti, ma di seguire il Figlio divino e ascoltarlo. Quelle parole furono piene di tanta maestà che i tre apostoli caddero bocconi per terra e furono presi da un gran timore. La sublime visione era terminata, e Gesù li scosse e li esortò a non temere. Essi alzarono gli occhi e videro solo Gesù, ritornato come prima, nelle sue umili apparenze.
Albeggiava e cominciarono a scendere dal monte; sorse anche il sole, ma quella luce dovette sembrare loro un’ombra di fronte a quella che avevano vista. Ferveva in loro il desiderio di raccontare l’accaduto e può supporsi che facessero uno speciale progetto di confondere gli scribi e farisei.
La loro fede, infatti, si era accresciuta, ed essi, nel loro cuore, l’avevano ora ben salda; si stupivano come gli scribi dicessero che prima del Messia doveva venire Elia, e ne domandarono spiegazione. Gli scribi, per dimostrare alle turbe che Gesù Cristo non era il Cristo, affermavano recisamente che doveva essere preceduto da Elia, secondo le profezie. Gli apostoli, certi ormai della verità, domandarono come gli scribi avessero potuto fare quella affermazione. Gesù Cristo, leggendo nei loro cuori l’ansia di parlare dell’avvenimento grandioso della trasfigurazione, lo vietò loro fino a dopo la sua risurrezione. La divulgazione di un fatto così importante, per il malanimo degli scribi e farisei, sarebbe servita solo ad aumentarne l’ostilità e li avrebbe resi maggiormente rei.
Ad essi, come a gran parte del popolo, ignorante e prevenuto, sarebbe apparsa una fiaba, e si sarebbe così svalutato un dono di Dio. La parte del popolo che ci avrebbe creduto, si sarebbe abbandonata a dimostrazioni politiche, rendendo vano, in tante anime, il disegno di Dio, e concentrandole in una falsa aspirazione temporale. Gesù, dunque, volle che non se ne parlasse se non quando la gloria inoppugnabile della risurrezione l’avesse reso non solo credibile ma salutare per le anime.
Rispondendo poi alla domanda degli apostoli riguardante Elia, Gesù Cristo distinse due venute del profeta: una alla fine del mondo per restaurare tutto e vincere l’anticristo, e una mistica e simbolica in un grande santo che avrebbe preparato a Lui la strada nello spirito di Elia. Questa seconda venuta s’era già realizzata in san Giovanni Battista, austero e forte come Elia, e martire come lui. Il popolo non lo riconobbe, e gli scribi e farisei lo ostacolarono in tutti i modi, come ostacolavano Lui stesso, tendendogli insidie e desiderandone la morte. Se non avevano riconosciuto il Battista, e non avevano ascoltato la sua voce, pur avendo essa tanto prestigio, come avrebbero potuto credere alla gloria della trasfigurazione?
In quel momento non c’era da pensare che alla Passione e Morte, unica via scelta dalla Provvidenza per la redenzione degli uomini. 

sabato 5 marzo 2011

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli,



Vangelo (Mt 7,21-27)

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 23Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.

Siamo alla fine del discorso della montagna. Gesù ha presentato lanuova Toràh che è il compimento dell’antica. Se si ripensa alla radicalità delle sue proposte morali (le beatitudini, la condanna del ripudio, dell’accumulo e dell’idolatria del denaro, la richiesta di porgere l’altra guancia, di amare il nemico, di essere perfetti come il Padre che sta nei cieli) non sorprende che i suoi ascoltatori siano rimasti non solo stupiti (Mt 7,28), ma sicuramente anche sconcertati e smarriti.
La loro reazione non è diversa da quella dei cristiani per i quali Matteo scrive il suo vangelo e da quella dei discepoli di oggi. Per tutti il pericolo è di rimanere degli ascoltatori, degli ammiratori del Maestro, senza avere il coraggio di porre in pratica quanto egli ha insegnato. Ecco la ragione per cui Gesù conclude il suo discorso con un severo ammonimento: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (v. 21).
A chi si rivolge?
Ai discepoli, è evidente. Sono loro che gli tributano il titolo di “Signore”. Nel vangelo di Matteo, gli estranei lo chiamano solo “maestro” (Mt 8,19; 12,38). È dunque all’interno della comunità cristiana che si può infiltrare la convinzione che basti un’adesione formale a Cristo, che siano sufficienti la pratica religiosa impeccabile, l’adempimento di riti e le dovozioni per entrare nel regno dei cieli.
Anche Giacomo nella sua lettera è preoccupato per questo rischio e lo denuncia in modo risoluto: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (Gc 1,22-25).
Gesù non sta denunciando le piccole o grandi incoerenze, le debolezze e le fragilità che hanno accompagnato per tutta la vita anche i più grandi santi, ma la falsa sicurezza di chi si sente a posto con Dio perché professa la propria fede in Cristo-Signore.
Nei versetti seguenti (vv. 22-23) viene fatta una descrizione accurata di queste persone che si illudono di essere discepole: non solo invocano Gesù, chiamandolo “Signore!”, ma parlano in suo nome, compiono azioni straordinarie, scacciano demoni, fanno prodigi.
Per molti i miracoli costituiscano la conferma inoppugnabile della santità di una persona e della veridicità di ciò che insegna. È una convinzione diffusa che nasce dal bisogno di fondare la propria fede su prove inoppugnabili ed è pericolosa perché mina alla radice la fede che è sì ragionevole, ma non può essere dimostrata razionalmente. Già l’AT invitava alla cautela, raccomandava di non fidarsi dei segni e dei prodigi perché anche i falsi profeti li possono compiere (Dt 13,2-6). Lo afferma anche Gesù: “Sorgeranno falsi profeti che faranno grandi portenti e miracoli” (Mt 24,24); ne era convinto il veggente dell’Apocalisse che riconosceva alla bestia la capacità di operare “grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo” (Ap 13,13); persino l’anticristo – assicura l’autore della seconda Lettera ai tessalonicesi – si presenterà “con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri” (2 Ts 2,9). È quanto basta – credo – per diffidare di chi interpreta i miracoli come prove.
Nel brano di oggi Gesù indica l’unico criterio che permette di individuare chi appartiene al regno dei cieli e chi rimane fuori: non i miracoli, ma la pratica della volontà di Dio.

Nella seconda parte del brano (vv. 24-27) Gesù sviluppa questa tematica con una parabola: due uomini, uno saggio e l’altro stolto, decidono di edificare la loro casa; il primo la costruisce sulla roccia, il secondo sulla sabbia.
Sant’Agostino ha identificato le intemperie che si abbattono sui due edifici con le prove, le tentazioni che fanno vacillare chi è debole e fragile. Le piogge – ha detto – sono le superstizioni, i fiumi le brame carnali, i venti le chiacchiere vane.
Il verbo al futuro (nel testo originale c’è: “Sarà simile a un uomo…”) orienta verso una interpretazione diversa. Non si tratta delle vicissitudini e delle difficoltà della vita, ma della sentenza di approvazione o di condanna che Dio pronuncerà un giorno sulla vita di ogni uomo, dichiarandone la riuscita o il fallimento. Nella Bibbia le immagini delle piogge e dei venti sono impiegate per descrivere il giudizio di Dio.
L’abbattersi delle acque del diluvio ha mostrato quale fine attende gli empi (Gn 6-7); il profeta Ezechiele ha presentato la sentenza di Dio contro il suo popolo come una “pioggia torrenziale”, una “grandine grossa”, un “uragano” che demolisce l’opera di chi ha costruito pareti con fango (Ez 13,10-16). Paolo ha un’immagine un po’ diversa, parla del fuoco che metterà alla prova la qualità dell’opera di ognuno: reggeranno le costruzioni in oro, argento, pietre preziose, mentre quelle in legno, fieno e paglia andranno in fumo (1 Cor 3,12-17).
Il giudizio degli uomini è tenero e superficiale, soffia come un vento leggero, accarezza lievemente gli edifici fragili dando l’illusione che siano stabili e resistenti. Gli uomini – lo sappiamo – si lasciano incantare dalle apparenze; spesso apprezzano ciò che non ha valore, ammirano personaggi inconsistenti, applaudono anche chi merita di essere riprovato.
I riflettori del palcoscenico di questo mondo però si spengono presto, i giorni passati con i fotoreporter sempre alle costole, con gli ammiratori che invocano autografi, con gli assalti delle folle svaniscono e cosa rimane di una vita giocata sulle vanità e sull’effimero?
Il giudizio di Dio sarà come una bufera violenta che lascerà in piedi solo le costruzioni solide, quelle fondate – dice Gesù – sulla sua parola, sui valori da lui proposti, sulle sue beatitudini.
Il richiamo della parabola è rivolto soprattutto a quei discepoli che, pur avendo ascoltato la parola di Cristo, impostano la loro vita su principi totalmente differenti, illudendosi di essere cristiani perché partecipano a liturgie spettacolo, a dibattiti salottieri, a pratiche devozionali bigotte. Gesù chiede a ognuno una seria verifica della solidità delle fondamenta su cui sta costruendo la vita.

Fernando Armellini (biblista)