sabato 26 febbraio 2011

Nessuno può servire a due padroni


Vangelo (Mt 6,24-34)

24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona.
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”.

Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza. Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.
Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto. Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.
Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni. Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.
Non tutti accettano questo Padre. A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro. Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v. 24).
Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù. È significativo: deriva dalla radice ’aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile. Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.
Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti. Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere. Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi. “L'attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori” (1 Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).
La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ è l’accumulo. Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte. “Lasciare in eredità” è un palliativo.
Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro. Non chiede di “non rubare”, di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto completamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli. Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: “Non avrai altro dio all’infuori di me” (Es 20,3).
Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non è possibile servire Dio e mamônâ.
Noi vorremmo tenerceli buoni tutt’e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro. Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti. Il Padre che sta nei cieli ripete: “Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa”. Il denaro ordina invece: “Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono”.

Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare. L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato ad idolatrarli fino a dimenticare l’eredità “che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli” (1 Pt 1,4).
Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 19-21). A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).
Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti. Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi ad elargire qualche elemosina?
È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.
Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro” (vv. 26-29). Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.
Non è così. Gesù non suggerisce il disimpegno, l’ozio, il disinteresse o la rassegnazione, propone un rapporto nuovo con i beni: non l’accaparramento, ma la condivisione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio.
Il richiamo è all’esperienza dell’esodo: Israele era un popolo in cammino, non poteva accumulare, piantava tende provvisorie, non costruiva magazzini solidi e inamovibili; la manna non poteva essere raccolta in quantità maggiore a quella necessaria per un giorno, altrimenti marciva e si riempiva di vermi (Es 16,17-20); la terra non era proprietà di nessuno, ciascuno possedeva solo, per un momento, quella piccola superficie che calpestava, poi, quando muoveva in avanti il suo piede, quella terra non gli apparteneva più, diveniva proprietà di chi lo seguiva. In questo modo Dio aveva educato il suo popolo al distacco dai beni che, pur necessari alla vita, sono corruttibili e passeggeri, ma seducono, incantano e fanno distogliere lo sguardo dalla meta.
I rabbini notavano che gli israeliti avevano seguito Mosè nel deserto senza mai chiedergli: “Come potremo attraversare il deserto, senza portare con noi provvigioni per il viaggio”.
Gesù non condanna la programmazione, la previdenza, ma la preoccupazione per il domani, l’ansia che fa perdere la gioia di vivere e porta inevitabilmente ad accumulare e a trasformare in idoli disumanizzanti i beni di questo mondo.
Non affannatevi, non inquietatevi: sono verbi che nel brano di oggi vengono ripetuti per ben sei volte. Sono un’eco delle sagge riflessioni del Siracide: “Molti ne uccide la preoccupazione e non c’è utilità nell’affanno. La preoccupazione per il sostentamento fa perdere il sonno, lo allontana più di una malattia” (Sir 30,23-31,2).
L’affanno è comune tanto al povero quanto al ricco; il denaro non solo non elimina le inquietudini e le preoccupazioni, ma le acutizza e le esaspera. Conosciamo le notti insonni dei padri di famiglia disoccupati, senza soldi, con moglie e figli da mantenere; tuttavia sappiamo che le ansie non servono a nulla, non aiutano a risolvere i problemi del cibo e del vestito, sono un inutile dispendio di energie.
Gesù suggerisce il suo rimedio a questa malattia: sollevare lo sguardo verso l’alto, verso il Padre che sta nei cieli. Questo non significa rimanere con le mani in mano, ma affrontare la realtà con cuore nuovo. Alle parole di Gesù fa eco l’autore della Lettera agli ebrei: “La vostra condotta sia senza avarizia, accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai” (Eb 13,5).
Anche di fronte alle difficoltà più gravi, Gesù invita a mantenere la pace interiore perché la vita dell’uomo è nelle mani di Dio che non abbandona i suoi figli, li accompagna in ogni istante, benedice i loro sforzi ed il loro impegno.

Fernando Armellini (biblista)
 

sabato 19 febbraio 2011

Occhio per occhio e dente per dente



Vangelo (Mt 5,38-48)

38 Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; 39 ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; 40 e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41 E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. 42 Dá a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù di quattro testi dellaTiràh d’Israele. Oggi viene presentata quella di altri due.
La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: “Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette volte” (Gn 4,23-24).
È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,23-25).
Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto. È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. “Occhio per occhio, dente per dente” equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
I rabbini del suo tempo insegnavano: “Sii ucciso, ma non uccidere”, ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti!
Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
Ora ecco la sorpresa, Gesù non la accetta e dice ai suoi discepoli: “Voi non dovete resistere al malvagio!”; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
Il primo riguarda la violenza fisica: “Se uno ti percuote sulla guancia destra...” (v. 41).
Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: “Tu porgi anche l’altra guancia”.
“Buoni sì, ma non stupidi!” – si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piuttosto che reagire facendo del male al fratello.
L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.
Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v.40).
In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràhstabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).
Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: “Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso”. Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: “Se qualcuno ti costringe a fare un miglio, tu fanne due”. Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convertire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.
Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
Gesù dice al discepolo: “Dà a chi ti domanda e non volgere le spalle a chi ti chiede” (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.

Nell’ ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento “Ama il tuo prossimo, ma odia il tuo nemico” (vv. 43-48). Nell’AT il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici. Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: “Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile” (Sal 139,12-22). Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: “Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio”.
Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Pr 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: “Ama il prossimo come te stesso” (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”.
È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: “Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici” (Diogene). “Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono” (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.
Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per “chi ci perseguita”, per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cielo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei “figli di Dio” è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
La conclusione addita la meta irraggiungibile: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v. 48).
La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo – compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.

Fernando Armellini (biblista)

sabato 12 febbraio 2011

Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti



Vangelo (Mt 5, 17-37)

17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!
27 Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; 28 ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
29 Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. 30 E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.
31 Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; 32 ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; 34 ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; 35 né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. 36 Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.

“Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato” (Bar 4,4). Così Baruc esprimeva l’orgoglio del suo popolo e la sua riconoscenza al Signore che aveva indicato a Israele “la via della sapienza” (Bar 3,27), nella Toràh, nel “libro dei decreti di Dio” (Bar 4,1).
Essendo opera di Dio, la Toràh non può essere né smentita né contraddetta. “La Scrittura non può essere annullata” – ha dichiarato Gesù (Gv 10,35) – perché Dio non può avere ripensamenti o rinnegare quanto ha detto in passato o apportarvi correzioni. Il cammino da lui tracciato dall’AT ha validità perenne.
Nella prima frase del vangelo di oggi Gesù ribadisce questa verità: “Non pensate che io sia venuto per demolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per demolire, ma per portare a compimento” (v. 17).
Se sente il bisogno di chiarire la sua posizione, significa che qualcuno ha avuto l’impressione che egli, con il suo comportamento e con le sue parole, stesse demolendo le convinzioni, le attese e le speranze di Israele, basate sui testi sacri.
Gesù era rispettoso delle leggi e delle istituzioni del suo popolo, ma le interpretava in modo originale; il suo punto di riferimento non era la lettera del precetto, ma il bene dell’uomo. Per amore all’uomo non esitava a violare anche il sabato e questa sua libertà suscitava stupore, perplessità e anche irritazione nelle autorità religiose. Tuttavia, più che la sua mancata osservanza delle prescrizioni dei rabbini, ciò che creava sconcerto era il suo messaggio, la nuova Toràh che aveva proclamato sul monte, una Toràh che sconvolgeva i principi e i valori su cui era fondata l’istituzione religiosa e civile d’Israele.
Mosè aveva promesso: “Tutti i popoli della terra ti temeranno; il Signore ti concederà abbondanza di beni; ti metterà in testa e non in coda e sarai sempre in alto e mai in basso” (Dt 28,10-13). Come poteva Gesù dichiarare di essere in sintonia con l’AT se proclamava beati i poveri, i perseguitati, gli oppressi e se annunciava, per i suoi seguaci, difficoltà, sofferenze e persecuzioni? Il suo messaggio era in aperto contrasto con le Scritture.
Leggendo i profeti, Israele si era convinto che il messia avrebbe instaurato un regno eterno, glorioso; avrebbe dato “agli afflitti di Sion una corona di gloria invece della cenere”, mentre per i nemici avrebbe promulgato “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61,2-3). Nei momenti più drammatici della sua storia, Israele ritrovava in queste promesse la ragione per continuare a credere e a sperare in un futuro migliore. Come mai Gesù deludeva queste attese?
Ecco come chiarisce la sua posizione e le sue scelte: le promesse fatte da Dio – spiega – si compiranno tutte, non ne cadrà nemmeno una. Prima che il mondo sia finito, quanto è stato scritto si realizzerà, ma in modo inatteso e la sorpresa sarà tanto grande che persino le persone pie, devote, sincere, come il Battista, correranno il rischio di veder vacillare la loro fede e di rimanere scandalizzate (Mt 11,6).
In questa luce vanno intesi i detti di Gesù che concludono la prima parte del vangelo di oggi, riguardanti l’osservanza dei precetti anche minimi e la giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei (vv. 19-20). I precetti cui fa riferimento non sono quelli dell’antica legge, ma le beatitudini. Sono queste beatitudini la nuova proposta, la nuova giustizia che porta a compimento, conduce alla perfezione quella antica, quella che gli scribi e i farisei – bisogna riconoscerlo – praticavano in modo esemplare.
Come nella pratica dell’antica legge c’era chi si accontentava della fedeltà ai precetti più importanti e trascurava gli altri, così nell’adesione alla proposta delle beatitudini c’è chi si attiene al minimo (ammirarle, approvarle, appoggiare chi ha il coraggio di praticarle) e c’è chi è coerente fino in fondo e fa scelte coraggiose e decise. Agli occhi di Dio – dichiara Gesù, con un certo umorismo – i primi appariranno come “i minimi”, gli altri invece saranno giudicati grandi, saranno considerati “rabbini” nel regno dei Cieli, saranno cioè persone da additare come modelli agli altri discepoli.

Nella seconda parte del vangelo (vv. 20-37) vengono presentati quattro esempi del balzo in avanti, richiesto a tutti coloro che vogliono entrare nel regno dei Cieli. Si tratta di quattro disposizioni che si ritrovano nell’AT e che non vengono smentite, ma spiegate in modo originale. Gesù ne evidenzia tutte le implicazioni: parte dalla Toràh di Mosè – che era il punto di arrivo, il vertice raggiunto dalla “giustizia” degli scribi e dei farisei – e va oltre, propone la meta ultima di questa Legge.
Gli esempi che porta sono sei, ma il vangelo di oggi ne riprende soltanto quattro, gli altri due ci verranno proposti domenica prossima. Sono introdotti tutti con la stessa formula stereotipa: “Avete udito che Dio ha detto agli antichi... Ora io vi dico...”.

Non uccidere! (vv. 21-26).
È il primo caso che viene preso in considerazione. È una disposizione chiara, che non ammette eccezioni e che condanna qualunque forma di omicidio (Gn 9,5-6). L’uomo non ha potere sulla vita di un suo simile, quand’anche fosse un criminale (Gn 4,15). La vita umana è sacra e intangibile dal momento in cui sboccia fino a quando, naturalmente, si conclude. Questo era già chiaro nella Toràh antica, ma, per entrare nel regno dei Cieli, è necessario capire che il non uccidere comporta molto di più. Ci sono altri modi – subdoli, sofisticati, occulti, camuffati – di uccidere.
Se ci fossero raggi X capaci di rilevare il cimitero celato nel nostro cuore ci spaventeremmo. Tra i morti troveremmo coloro ai quali abbiamo giurato di non rivolgere più la parola, coloro ai quali abbiamo negato il perdono, coloro ai quali continuiamo a rinfacciare l’errore commesso, coloro cui abbiamo tolto il buon nome con maldicenze o calunnie, coloro che abbiamo privato dell’amore e della gioia di vivere…
Gesù insegna che il comandamento che ordina di non uccidere ha tante implicazioni che vanno ben oltre l’aggressione fisica. Chi usa parole offensive, chi si adira, chi alimenta sentimenti di odio ha già ucciso suo fratello (v. 22).
L’omicidio parte sempre dal cuore. Non si può odiare un uomo e continuare a sentirsi in pace con se stessi. Non si riesce ad uccidere se prima non ci si è convinti di avere a che fare con chi non è uomo, non merita di vivere e quindi è bene che venga eliminato. Quest’opera denigratoria è portata avanti mediante le parole, ripetendo a se stessi, come uno spietato ritornello: “È uno stupido”, “è un pazzo”, “è un senza Dio”. Così si giunge, senza rimorsi, a pronunciare la sentenza: merita “il rogo”.
È questo cuore crudele e ingiusto – insegna Gesù – che va disarmato. All’opera di demonizzazione dell’uomo, egli contrappone il suo giudizio: è un fratello. Per tre volte ripete questa parola (vv. 22-24), come un antidoto per guarire il cuore dal veleno dell’odio, mantenuto vivo e incrementato dalle parole cattive. Poi affronta alla radice i conflitti: introduce il tema della riconciliazione.
Ne richiama anzitutto il dovere e l’importanza (vv. 23-24).
Lo spunto è preso da una pratica religiosa di Israele. Prima di entrare nel tempio ad offrire sacrifici, era necessario sottoporsi a meticolose purificazioni. Gesù dichiara che non è il corpo che ha bisogno di essere puro, ma il cuore: la riconciliazione con il fratello sostituisce tutti i riti purificatori.
Insegnavano i rabbini che la più importante delle preghiere giudaiche – lo Shemà Israel – una volta iniziata, non poteva più essere interrotta, per nessuna ragione, nemmeno se un serpente si fosse attorciliato attorno alla gamba dell’orante. Gesù afferma che, per riconciliarsi con il fratello, si deve addirittura piantare a metà non solo lo Shemà Israel, ma perfino l’offerta del sacrificio nel tempio.
Difficile trovare nella cultura ebraica un’immagine più efficace per sottolineare l’importanza della riconciliazione. Chi la rifiuta, chi non la ricerca ad ogni costo si autoesclude dal “regno dei Cieli”.
Avevano assimilato bene questa lezione i primi cristiani. L’autore della Lettera agli efesini raccomandava: “Non tramonti il sole sulla vostra ira” (Ef 4,26) e qualche anno prima, nella giovane comunità di Antiochia di Siria, era stata emanata questa disposizione: “Nel giorno del Signore, chi è in discordia con il suo prossimo non si unisca a voi prima di essersi riconciliato, affinché il vostro sacrificio non sia contaminato” (Didakè 14,1-2). Due secoli dopo, un vescovo delle stesse regioni esortava i suoi fratelli nell’episcopato con queste parole: “Pronunciate le vostre sentenze il lunedì affinché, avendo tempo sino al sabato, possiate risolvere il dissenso (fra i membri delle vostre comunità) e per la domenica rappacificare quanti sono tra loro in discordia” (Didascalia 2,59,2).
Dopo aver richiamato il dovere della riconciliazione, Gesù ne sottolinea l’urgenza (vv. 25-26). Non può essere dilazionata.
Un cristiano non dovrebbe mai aver bisogno di ricorrere ai tribunali per ottenere giustizia, dovrebbe sempre riuscire a mettersi d’accordo prima con il suo fratello. Comunque, nel caso preferisca intentare processi piuttosto che sopportare l’ingiustizia, tenga presente che se si presenta davanti a Dio in disaccordo con il fratello, non verrà da lui riconosciuto come figlio. Le immagini severe della prigione, delle guardie, dell’obbligo di pagare fino all’ultimo spicciolo non vanno materializzate. Sono tipiche della cultura semitica e del linguaggio rabbinico; sono introdotte solo per richiamare, in modo energico, la necessità inderogabile della riconciliazione. Per ottenerla il discepolo deve essere disposto a qualunque rinuncia.

Dopo aver parlato del comandamento di non uccidere, Gesù passa al problema dell’adulterio (vv. 27-30).
La lettera della Toràh sembrava vietare solo le azioni cattive. Gesù, com’è solito fare, va invece al cuore e coglie le esigenze più profonde di questo comandamento. Ci sono amicizie, sentimenti, relazioni che sono già adulteri.
Siamo in un campo in cui, con molta facilità, si viene travolti dagli istinti e dalle passioni che possono provocare guai seri a sé, alla propria famiglia e a quella degli altri. Gesù insiste: di fronte a certe situazioni, è necessario avere il coraggio di procedere a tagli, anche se dolorosi, prima che i cattivi desideri si trasformino in adulteri di fatto.
Due sono i membri del corpo che bisogna essere disposti ad amputare: l’occhio destro e la mano destra. In questo contesto sono il simbolo di ciò che risveglia la libidine (sguardi) e dei contatti pericolosi (mano). È necessario essere pronti a rinunciare a tutto ciò che l’opinione comune ritiene magari esperienze arricchenti, conquiste gratificanti, occasioni da non perdere (la parte destra era ritenuta la più nobile, la preferita; Sal 137,5), pur di non rovinarsi la vita. Non si tratta di mutilazioni materiali, ma del faticoso autocontrollo di cui parla anche Paolo: “Tratto duramente il mio corpo e lo tengo soggiogato perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (1 Cor 9,27).
La Geenna è la valle che delimita a sud-ovest la città di Gerusalemme; era l’immondezzaio della città, il luogo maledetto dove erano stati sacrificati e bruciati al dio Moloc i bambini; si riteneva che lì ci fosse la porta che introduceva nel mondo dei demoni.
Chi non sa imporsi le necessarie rinunce nel campo della sessualità corre il rischio di gettare tutto il proprio corpo (la propria persona) nella Geenna (nella spazzatura). Questo non è un castigo di Dio, ma la conseguenza del peccato.

Il terzo caso riguarda il divorzio (vv. 31-32).
Dio ha voluto il matrimonio monogamico e indissolubile. La Bibbia lo afferma con chiarezza, fin dalle prime pagine: “I due formano una carne sola” (Gn 2,24). Per la durezza del cuore dell’uomo si è introdotto però, anche in Israele, il divorzio.
Andando contro la consuetudine, le tradizioni e le interpretazioni dei rabbini, Gesù riporta il matrimonio alla purezza delle origini ed esclude la possibilità di separare ciò che Dio ha stabilito che rimanga unito. La clausola “eccetto in caso di concubinato”, che sembra lasciare aperta una possibilità al divorzio, in realtà riguarda le unioni illegittime e irregolari.
Né l’infedeltà, né le incomprensioni, né alcun’altra difficoltà di coppia possono legittimare un nuovo matrimonio. Qualunque unione di questo tipo è definita da Gesùadulterio, non una macchia che può essere lavata da una buona confessione, ma una scelta di morte.
Il discepolo deve fare attenzione perché la mentalità corrente, il permissivismo, la banalizzazione della sessualità, la dissolutezza dei costumi possono facilmente far dimenticare le parole del Maestro, far vacillare anche le convinzioni più solide e persuadere che è normale, umanizzante, apprezzabile ciò che invece è solo un palliativo, un ripiego, un espediente dettato dalla “sapienza di questo mondo”.
Non è leale, non rende un buon servizio a chi è in difficoltà chi occulta le esigenze della morale cristiana, chi si mostra compiacente e propone convivenze che finiscono per essere inevitabilmente accompagnate da dolorosi conflitti interiori. Va sempre tenuto presente che fanno parte della morale evangelica la rinuncia, il sacrificio, la croce e anche l’eroismo della forzata verginità di chi è sposato: “Vi sono eunuchi che hanno scelto di rimanere tali per il regno dei Cieli” (Mt 19,12).
Le parole chiare di Gesù però non conferiscono a nessun discepolo la licenza di giudicare, di condannare, di umiliare, di emarginare coloro che hanno fallito nella loro vita coniugale. Si tratta, in genere, di persone che sono passate attraverso grandi sofferenze e che hanno vissuto situazioni drammatiche. Per loro si rivela a volte impossibile realizzare il progetto cristiano di matrimonio. La comunità è chiamata a manifestare nei loro confronti la tenerezza e la comprensione del Maestro che non ha spento il lucignolo fumigante né spezzato la canna incrinata (Is 42,3).

Il quarto caso è quello del giuramento (vv. 33-37).
Durante l'esilio a Babilonia gli israeliti avevano assimilato, fra le altre cattive abitudini, anche quella di giurare a sproposito. Arrivavano al punto di non fare più un’affermazione senza accompagnarla con qualche imprecazione. Per evitare di pronunciare il nome di Dio ricorrevano a formule meno impegnative: giuravano per il cielo, per il tempio, per la terra, per i loro genitori, per la loro testa. Un saggio del II sec. a.C. raccomandava: “Abitua la tua bocca a non giurare, abituati a non nominare il nome del Santo” (Sir 23,9).
Gesù prende posizione contro quest’abitudine sconsiderata e lo fa con la sua solita radicalità: “Non giurate affatto... Sia invece il vostro parlare sì quando è sì, no quando è no; il resto viene dal maligno” (vv. 33-37).
Non era tanto la profanazione del nome del Signore che lo preoccupava. Ci sono altri elementi che rendono inaccettabile un giuramento. Anzitutto esso presuppone una concezione pagana di Dio che è immaginato come un vendicatore, pronto a scagliare i suoi fulmini contro bugiardi e spergiuri; poi è il sintomo di una società in cui regnano la diffidenza, la sfiducia, la slealtà, il sospetto reciproci.
Nella comunità dei discepoli di Gesù il giuramento è inconcepibile perché essa è costituita da persone dal “cuore puro” (Mt 5,8), guidate dallo spirito di verità (Gv 14,17; 16,13), che bandiscono dalla loro vita ogni menzogna – come raccomanda Paolo – “Deposta la menzogna, parlate ognuno al vostro prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri” (Ef 4,25; 1 Pt 2,1).

Fernando Armellini (biblista)