mercoledì 28 maggio 2008




Come tutti gli innamorati

anche Dio ragiona col cuore



“Amare” è uno dei verbi che ricorrono con maggior frequenza nella Bibbia: 248 volte nell’Antico Testamento.

Sorprende quindi il fatto che, nei testi biblici più antichi, questo sentimento non venga attribuito a Dio.

Israele era convinto che il suo Signore – colui che snudava il proprio braccio contro i nemici del suo popolo – fosse capace solo di passioni forti: l’indignazione, il dolore e il pentimento; era convinto che egli stipulasse alleanze con i suoi sudditi, che favorisse i suoi fedeli concedendo loro ogni bene, ma non conoscesse gli slanci – e ancor meno le pene – dell’amore.

Nel racconto della creazione, l’autore sacro annota per sette volte che, al termine di ogni sua opera, Dio contemplò ciò che aveva fatto e “vide che era cosa buona”, ma non viene rilevato alcun suo sentimento, non ci viene detto che egli provò commozione e gioia di fronte alle meraviglie dell’universo.

Prima del diluvio, tutta la terra “era corrotta e piena di violenza”, solo Noè era giusto ed integro tra i suoi contemporanei; per questo “trovò grazia agli occhi del Signore” (Gen 6,12). A questo punto ci saremmo aspettati un accenno all’amore Dio per quest’uomo. Invece niente.

Anche nella storia di Abramo – il destinatario delle più grandi promesse, colui che in seguito sarà chiamato l’“amico di Dio” (Dn 3,25) – cercheremmo invano l’annotazione “Dio lo amava”.

Quando, in Egitto, gli israeliti gemono per la dura schiavitù e alzano lamenti, il loro grido giunge fino a Dio che li ascolta, che si ricorda della sua alleanza con Abramo e Giacobbe e “se ne dà pensiero”, ma nel testo sacro non c’è alcun riferimento al suo amore (Es 2,23-25).

La paura di Dio

La conseguenza di questa concezione di Dio incapace di tenerezze e di affetti è, nell’uomo, la paura.

I pagani ritenevano i loro dèi capricciosi, imprevedibili e ricorrevano al culto per placarli; cercavano di renderseli favorevoli con offerte di sacrifici e con una vita conforme ai loro precetti.

All’inizio della sua storia, Israele non concepiva il rapporto con il suo Dio in modo sostanzialmente diverso.

Al Sinai, mentre il Signore pronunciava il Decalogo, “tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: “Parlaci tu e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!” (Es 20,19).

Il Dio innamorato

Israele ha scoperto gradualmente il cuore del suo Dio.

All’inizio – come tutti gli altri popoli dell’antichità – ha ritenuto che egli pretendesse solo obbedienza, sottomissione e rispetto e che nei suoi confronti si dovesse coltivare un timore riverenziale, non l’amore.

C’è una ragione per cui Israele era allergico ad attribuire al suo Dio la passione d’amore: nel verbo “amare” coglieva la presenza di sfumature, di richiami erotici che erano inconcepibili nel Signore, nel Santo adorato dai patriarchi.

Fu Osea che introdusse in Dio l’immagine dell’affetto coniugale.

Questo dovette apparire a molti addirittura scandaloso. Ma non si poteva rinunciare all’immagine più sublime dell’amore per esprimere gli affetti, le emozioni, le tenerezze di Dio nei confronti dell’uomo.

Dopo Osea, tutti i profeti hanno impiegato abbondantemente l’immagine di Dio sposo e nessuna espressione di questo amore, nemmeno la più audace, fu da loro trascurata (cf. Ez 23).

Al cuore nessuno comanda, neanche Dio

L’esperienza insegna che ci vuole cautela nel lasciarsi coinvolgere in storie d’amore: quando è scattata la passione, non è facile controllare le emozioni, è quasi impossibile smettere di amare e di voler bene a qualcuno anche se ci fa soffrire, anche se non prova i nostri stessi sentimenti.

È un’esperienza simile alla “malattia”. “Io sono malata d’amore” – ripete infatti la sposa del Cantico (Ct 2,5; 5,8).

Dalla persona amata non si riesce più a distogliere il cuore (Tb 6,19). Giacobbe serve per sette anni il suocero per avere Rachele “e gli sembrarono pochi giorni tanto grande era il suo amore per lei” (Gen 29,20).

È una pulsione meravigliosa, provvidenziale, anche se non è sempre facile da gestire.

Dio l’ha posta nei nostri cuori per rendere saldo l’amore dello sposo e della sposa, fedeli “nella buona e nella cattiva sorte”, nei momenti lieti e tristi, nella gioia della perfetta sintonia e nell’esperienza amara del tradimento.

Dio ci ha creati a sua immagine: infinitamente più di noi egli è fedele alle sue promesse d’amore.

Una delle intuizioni più sorprendenti della mistica ebraica è quella dell’autolimitazione di Dio nel momento in cui, nella creazione, ha fatto spazio all’uomo. È come se egli si fosse contratto per lasciar sorgere il mondo. Creando l’uomo e dandogli la libertà, ha rinunciato alla sua onnipotenza: non potrà mai forzare il cuore dell’uomo, dovrà conquistarlo, come fanno gli innamorati.

Ci chiediamo: “Non avrà corso un grosso rischio Dio quando ha scelto di entrare in questo gioco d’amore?”.

All’inizio della Bibbia si accenna – con un immagine molto ardita che non va certo presa alla lettera – a un suo ripensamento: “Quando vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male, si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gen 6,5-6).

Il profeta Isaia è pure molto audace nel descrivere il dramma del cuore di Dio, ferito dai tradimenti di Israele, l’amata: “Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, mai si allontanerà da te il mio affetto” (Is 54,7-10).

I filosofi certo non concordano con queste affermazioni paradossali, ma tutta la Bibbia ne è una conferma: Dio ha scelto di non essere felice da solo, vuole esserlo con l’uomo.

Dio era in cerca d’amore.

A chi ha legato il suo cuore?

Quali sono i gusti di Dio?

Di chi si innamora perdutamente?

È il tema delle letture che quest’anno ci vengono proposte nella festa del S. Cuore.

Egli ha dichiarato il suo amore al più insignificante dei popoli, Israele, con queste parole: “Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4).

Tutti pensavano che egli andasse a braccetto con i buoni e si tenesse a distanza dalle persone impure. Il salmista era convinto di essere in perfetta sintonia con i sentimenti di Dio quando – come il fariseo nel tempio – dichiarava con orgoglio: “I miei occhi sono rivolti ai fedeli del paese perché restino a me vicino. Non mette piede in casa mia chi agisce con inganno, chi dice menzogne non osa presentarsi al mio cospetto. Voglio estirpare dalla città di Dio tutti i malfattori” (Sal 101,6-9).

La maggioranza dei rabbini insegnava: “Il Signore gioisce per la risurrezione dei giusti e per la rovina degli empi”.

Ma alcuni, pochi, attenti al messaggio delle Scritture sante, avevano cominciato a intuire verso chi si orientavano i sentimenti del cuore di Dio. Avevano notato che nel Salmo 22 si dice che “Dio non disprezza né prova ribrezzo per l’afflizione di un disgraziato” e stupiti commentavano: “A Dio non sono gradite le vittime sciancate, deformi, deboli, ferite; ma, quando è l'uomo ad avere questi difetti, non solo non diviene spregevole ai suoi occhi, ma ne attira lo sguardo amorevole e pietoso”.

È nella linea dei profeti e di questi rabbini che Gesù – il Dio venuto a porre la sua tenda in mezzo a noi – assume un comportamento che rivela il cuore di Dio: suoi amici sono i pubblicani e i peccatori (Mt 11,19), i primi a riconoscerlo sono le persone da tutti ritenute impure, i pastori (Lc 2,8-20) e l’ultimo a stargli vicino sarà un bandito (Lc 23,39-43).

“Tesoro mio” – è il complimento più comune fra gli innamorati. Tesori di Dio sono i piccoli, coloro che sanno di non meritare il suo amore.

Sono loro la perla preziosa per cui vale la pena perlustrare ogni angolo del mondo per trovarla, il gioiello che riempie di gioia incontenibile il cuore di Dio quando riesce a trovarlo (Mt 13,44-46).

Solo se abbiamo compreso i gusti di Dio che “ha scelto i poveri” (Gc 2,5) e volge il suo sguardo sull’umile (Is 66,2), siamo nella disposizione giusta per cogliere il messaggio delle letture di questa festa.

Quando una comunità assimila i gusti di Dio

In modo subdolo, quasi impercettibile, come l’insinuarsi di un serpente fra le fessure di una roccia, si infiltra anche nel cuore dei cristiani la mentalità di questo mondo che valuta le persone in base al successo che ottengono, alle doti che hanno, alla ricchezza che accumulano.

I geni, gli atleti, le personalità eminenti, chiunque dimostri di possedere attitudini particolari è ricercato e ammirato; i deboli, i poveri, gli incapaci, i portatori di handicap (anche spirituali) appaiono a molti – anche se difficilmente lo si ammette – quasi un bagaglio ingombrante.

La comunità che si gloria dei suoi “eroi” e prova un’inconfessata ripulsa per i peccatori che considera zavorra, rami secchi, un “disonore” per tutta la famiglia, mostra di aver assimilato i criteri di questo mondo, non quelli di Dio che si innamora degli ultimi, di coloro che non contano.


Prima lettura (Dt 7,6-11)

Mosè parlò al popolo dicendo:

6 Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra.

7 Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, 8 ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto.

9 Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni, con coloro che l’amano e osservano i suoi comandamenti; 10 ma ripaga nella loro persona coloro che lo odiano, facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia, ma nella sua stessa persona lo ripaga.

11 Osserverai dunque i comandi, le leggi e le norme che oggi ti dò, mettendole in pratica.

È indimenticabile per una donna l’emozione che prova quando il giovane che è destinato a divenire il suo sposo, aprendogli il proprio cuore, per la prima volta le sussurra: “Ti amo”.

Nemmeno Israele ha mai scordato il giorno in cui il suo Dio le ha fatto la prima dichiarazione d’amore. L’autore sacro ce l’ha conservata nella commovente pagina del Deuteronomio che ci viene proposta nella prima lettura della festa del S. Cuore di quest’anno: “Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio” (v. 1).

È la formula con cui il Signore ha giurato amore eterno a Israele – l’amata – promettendole incrollabile fedeltà: “Il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (v. 1).

Israele, la favorita.

Perché? – si chiedono tutte le altre nazioni.

Com’è riuscita ad attirare su di sé le attenzioni e l’affetto del Signore?

Come ha potuto conquistare il suo cuore?

Cosa c’è di così affascinante in lei?

L’esperienza ci suggerisce la risposta: il cuore dell’innamorato è imprevedibile, segue logiche tutte sue, ha delle ragioni che la mente non capisce.

Al cuore non si comanda e, difatti, neanche Dio è riuscito a comandare al proprio cuore.

Logica voleva che – data la sua posizione elevata – egli scegliesse di allearsi con un popolo famoso, potente, degno di lui. Invece si è innamorato di Israele, non perché fosse il “più numeroso di tutti gli altri popoli”, ma perché era il più piccolo, il più insignificante di tutti (vv. 7-8).

Dio non è attratto dai ricchi perché non necessita di nulla, possiede già tutto e nessuno lo può arricchire. Il suo cuore si volge irresistibilmente al povero perché solo al povero egli può consegnare se stesso e donargli ogni bene.

Israele ha questa missione da svolgere nel mondo: ricordare sempre e a tutti quali sono le preferenze del Signore. È l’immagine di tutti coloro che sempre richiameranno le attenzioni del cuore di Dio: gli emarginati, i miserabili, i peccatori, coloro che, agli occhi del mondo, non contano nulla.

Lo aveva compreso molto bene Paolo che ai corinzi scriveva: “Dio ha scelto quelli che per il mondo sono stolti per coprire di vergogna i sapienti; Dio ha scelto quelli che per il mondo sono deboli, per coprire di vergogna i forti; Dio ha scelto quelli che per il mondo sono ignobili e disprezzati e sono ritenuti delle nullità, per mostrare che, per lui, non contano nulla coloro che da tutti sono ritenuti gente di valore” (1 Cor 1,27-28).

In Gesù il cuore di Dio si è reso visibile e ha mostrato le sue preferenze per gli ultimi: è nato in una grotta di pastori, è cresciuto fra i poveri della terra, ha scelto la compagnia dei pubblicani e dei peccatori ed è tornato in cielo portando con sé un criminale che rappresenta l’umanità intera finalmente conquistata dal suo amore.

Nella seconda parte della lettura (vv. 9-11) Dio rivela a Israele – la sposa che si è scelto – ciò che si attende da lei: una risposta senza compromessi né riserve al suo immenso amore. Se lo rifiutasse decreterebbe la propria rovina, dichiarerebbe di preferire la propria miseria alla condizione di regina.

La drammaticità di questa scelta è presentata nel nostro brano – come in molte altre pagine della Bibbia – con l’immagine del castigo, della ritorsione da parte di Dio, l’innamorato non corrisposto (v. 10).

Si tratta di un linguaggio letterario che non va preso alla lettera. È un modo severo di richiamare l’attenzione sulla responsabilità che si assume chi rifiuta la proposta del Signore.

Secondo i criteri degli uomini, la risposta spontanea all’ingratitudine è il castigo. Ma Dio non si comporta in questo modo perché egli non può non amare, come ha assicurato per bocca del profeta Osea: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò mai sfogo all’ardore della mia ira, perchè sono Dio e non uomo”. (Os 11,8-9).


Salmo responsoriale (Sal 103)

1 Benedici il Signore, anima mia,

quanto è in me benedica il suo santo nome.

2 Benedici il Signore, anima mia,

non dimenticare tanti suoi benefici.

3 Egli perdona tutte le tue colpe,

guarisce tutte le tue malattie;

4 salva dalla fossa la tua vita,

ti corona di grazia e di misericordia;

5 egli sazia di beni i tuoi giorni

e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.

6 Il Signore agisce con giustizia

e con diritto verso tutti gli oppressi.

7 Ha rivelato a Mosè le sue vie,

ai figli d’Israele le sue opere.

8 Buono e pietoso è il Signore,

lento all’ira e grande nell’amore.

9 Egli non continua a contestare

e non conserva per sempre il suo sdegno.

10 Non ci tratta secondo i nostri peccati,

non ci ripaga secondo le nostre colpe.

11 Come il cielo è alto sulla terra,

così è grande la sua misericordia su quanti lo

12 come dista l’oriente dall’occidente,

così allontana da noi le nostre colpe.

13 Come un padre ha pietà dei suoi figli,

così il Signore ha pietà di quanti lo temono.

14 Perché egli sa di che siamo plasmati,

ricorda che noi siamo polvere.

15 Come l’erba sono i giorni dell’uomo,

come il fiore del campo, così egli fiorisce.

16 Lo investe il vento e più non esiste

e il suo posto non lo riconosce.

17 Ma la grazia del Signore è da sempre,

dura in eterno per quanti lo temono;

la sua giustizia per i figli dei figli,

18 per quanti custodiscono la sua alleanza

e ricordano di osservare i suoi precetti.

19 Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono

e il suo regno abbraccia l’universo.

20 Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,

potenti esecutori dei suoi comandi,

pronti alla voce della sua parola.

21 Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere,

suoi ministri, che fate il suo volere.

22 Benedite il Signore, voi tutte opere sue,

in ogni luogo del suo dominio.

Benedici il Signore, anima mia.

L’antefatto

Un uomo già avanti negli anni, solo con se stesso, tenta di fare il bilancio della propria vita e si rende conto di averla giocata nel modo sbagliato. Più riflette e più è colto dall’angoscia: il cumulo di peccati che ha commesso assume le sembianze di un’onda nera e spaventosa che lo travolge e gli toglie il respiro. Si sente un fallito. Lo terrorizza, soprattutto, il tremendo giudizio di Dio che lo attende.

Sull’orlo della disperazione un giorno decide di andare al tempio e di confidarsi con un sacerdote. Questi lo ascolta, capisce il suo dramma e gli annuncia il perdono del Signore.

Ascoltando le parole dolci ed ispirate dell’uomo di Dio, il pellegrino sente rifiorire la speranza, esulta, intuisce che il Signore è buono e misericordioso.

Tuttavia gli rimangono nel cuore ancora tanti dubbi e tanti interrogativi, è condizionato dall’immagine del Dio severo, irato, terribile che ha assimilato nella catechesi.

Il sacerdote lo lascia sfogare, poi, pazientemente, gli apre la mente ed il cuore alla scoperta dell’autentico volto di Dio.

Il Salmo 103 offre un “itinerario tipo” per chi, partendo dall’esperienza fallimentare del peccato, cerca, alla luce di Dio, di dare comunque un senso alla propria vita.

Primo: “Non dimenticare” (vv. 1-2)

Il Salmo si apre con un invito che il pellegrino rivolge a se stesso, alle fibre più intime del suo essere: “Benedici il Signore!”. Ha appena ascoltato le parole del sacerdote che gli ha annunciato il perdono di Dio e il primo sentimento che vuole manifestare è la gratitudine verso il Signore che, attraverso il suo portavoce in terra, gli ha ridato fiducia e speranza.

Passato il pericolo, capita a tutti gli uomini di scordare i benefici ricevuti. Anche chi è risorto dal peccato, chi è stato tirato fuori dall’abisso della colpa, un po’ alla volta, passato un certo tempo, può essere tentato di inorgoglirsi del bene che sta compiendo, può invaghirsi della propria immagine e, come ultima conseguenza, assumere un atteggiamento di orgogliosa autosufficienza, arrivando persino a giudicare e a disprezzare chi non si è ancora liberato dalle proprie miserie e dai propri peccati.

Il salmista è cosciente di questo pericolo; per questo raccomanda alla propria anima: “Non dimenticare!”.

Dio non solo perdona: incorona (vv. 3-14)

Non appena il sacerdote ha pronunciato le parole dell’“assoluzione”, il penitente sente una profonda gioia, ma l’annuncio del perdono di Dio non lo libera immediatamente da tutte le inquietudini.

Nella seconda parte del Salmo è contenuta la risposta del sacerdote agli interrogativi interiori del pellegrino.

Le sue parole sono serene, pacate e lasciano trasparire la gioia di chi ha scoperto il vero volto di Dio.

Quest’uomo che vive nel tempio in costante contatto con il Signore e con la sua parola ha raggiunto un profondo equilibrio interiore ed è capace di aiutare chi si rivolge a lui e di comunicargli la pace.

Dio mi avrà davvero perdonato oppure, presto o tardi, in qualche modo me la farà pagare? Riuscirò a liberarmi da certe cattive abitudini che ormai sono divenute una mia seconda natura? Ricadrò nella fossa? Chi mi difenderà dal pericolo di precipitare di nuovo nell’abisso della colpa? Queste sono le prime domande a cui il sacerdote risponde.

Anticamente si pensava che le infermità fossero il segno della punizione di Dio. Oggi noi sappiamo che egli non castiga l’uomo per il peccato, è il peccato che castiga l’uomo e questi “castighi” si chiamano: lontananza dal Signore e dal suo progetto, infelicità, angoscia, ripiegamento su di sé, incapacità di amare, rottura dei rapporti interpersonali e, perché no?, anche malattie fisiche e traumi psichici.

Il perdono di Dio non si riduce a un colpo di spugna, consiste piuttosto in un suo intervento misericordioso per recuperare l’uomo dal peccato e da tutte le tragiche conseguenze che abbiamo appena elencato.

Il Signore - dice il sacerdote al pellegrino - guarisce tutte le malattie che hai contratto e ti salva dalla fossa in cui sei precipitato; ti fa recuperare dai disastri che hai combinato (vv. 3-4a).

Quanto poi ai pericoli di ricaduta, ricorda: egli “ti corona di grazia e di misericordia”. Non si tratta di un diadema che viene posto sul capo, ma di un cerchio protettivo, di una difesa con cui Dio protegge il suo fedele. Egli pone al suo fianco due guardie del corpo fidate: la sua bontà e la sua compassione (v. 4b).

Chi mi renderà ciò che ho perduto? (vv. 5-7)

Certe esperienze fanno invecchiare precocemente: ci sono ragazzi di vent’anni che si sentono già vecchi. Sarà impossibile far loro recuperare il sorriso e la giovialità? Chi ha sbagliato proprio tutto e si ritrova già vecchio non potrà più ricostruire la propria vita? È questa la domanda che si pone il pellegrino.

Il sacerdote gli risponde: è sempre possibile recuperare. Questo è il miracolo che il Signore compie per te: si serve anche del tuo peccato per portarti in alto e ricolmarti di ogni bene. Poi chiarisce questo messaggio di speranza con un paragone.

Si riteneva che, all’inizio di ogni primavera, l’aquila cambiasse il piumaggio divenuto ormai scolorito e spezzasse il proprio becco troppo vecchio e ricurvo contro le rocce, così, ogni anno, recuperava la propria giovinezza.

Il perdono di Dio riesce a far tornare giovane persino l’uomo incupito, curvo sotto il peso del proprio peccato (v. 5).

Il sacerdote continua l’elenco dei benefici di Dio:

“Egli agisce con giustizia”. Significa forse che punisce i colpevoli? No. Questa è la giustizia degli uomini, la sua è completamente diversa. Egli non mantiene la bilancia in perfetto equilibrio, la fa pendere arbitrariamente dalla parte di chi ha sbagliato.

Aiuta il peccatore a recuperare in positivo gli errori che ha commesso (v. 6).

Per mezzo di Mosè egli ha donato al suo popolo la legge: una segnaletica preziosa che indica il cammino della vita. Basta che Israele volga lo sguardo al passato e consideri le imprese compiute dal Signore: scoprirà come la sua “giustizia” consista sempre e solo in interventi di salvezza (v. 7).

Ho paura dell’ira di Dio... (vv. 8-10)

A questo punto il pellegrino solleva le obiezioni più gravi.

La prima: la Bibbia parla spesso dell’ira di Dio e dei suoi castighi. Anche noi cristiani troviamo nel Vangelo brani che parlano di retribuzione eterna. Come vanno interpretati?

Rispondendo a questo interrogativo il sacerdote del tempio sembra non soltanto voler aiutare il peccatore che si è confidato con lui, ma correggere anche tutte le nostre immagini distorte di Dio.

Da buon biblista inizia con un’affermazione che riprende la famosa rivelazione di Dio a Mosè:

“Il Signore è Dio misericordioso e benigno, magnanimo e ricco di grazia e fedeltà” (Es 34,6).

La sua ira (un’immagine arcaica presa dal nostro mondo e da intendersi solo come un’imperfettissima analogia) è comunque sempre “lenta”, mentre il suo amore è immenso (v. 8).

Il secondo enigma: Dio punirà con un castigo eterno chi ha sbagliato?

No! - è la risposta inequivocabile -.

“Egli non continua a contestare, non conserva per sempre il suo sdegno” (v. 9).

Ma Gesù - chiediamo noi a questo punto - non dice che i peccatori “andranno al supplizio eterno” (Mt 25,46)?

Certo che lo dice, ma non sta facendo la cronaca di ciò che accadrà alla fine del mondo, sta pronunciando il giudizio di Dio sulle scelte che l’uomo fa oggi.

È per lo meno azzardato ricavare dogmi da un’immagine terrificante (comune del resto nel linguaggio immaginoso dell’antico Oriente) che vuole soltanto mettere in guardia l’uomo dal gravissimo pericolo di sciupare la propria esistenza.

Il terzo enigma: Dio ci ripaga secondo i nostri peccati?

Altra risposta decisa del sacerdote: no! Dio è giusto non perché retribuisce l’uomo secondo ciò che merita, ma perché lo ama e lo rende amabile in modo assolutamente gratuito.

“Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe” (v. 10).

Dio sa ciò che noi siamo (vv. 11-16)

Il pellegrino resta sconcertato di fronte all’annuncio della misericordia incondizionata di Dio.

Stupito guarda il sacerdote che, sempre tenero e comprensivo, lo prende sottobraccio e gli spiega: noi non possiamo capire i pensieri del Signore, non abbiamo una misura per valutare la sua bontà.

Quanto il cielo dista dalla terra, così è immensa la sua tenerezza; quanto l’oriente dista dall’occidente, così egli allontana da noi il nostro peccato. Egli è un padre sempre pronto a capire le debolezze del figlio.

Egli sa, ricorda che noi non siamo spirito, ma polvere, fango impastato dalle sue mani (Gen 2,7); siamo caduchi come erba, fragili come fiori: un giorno soffia il vento bruciante del deserto, appassiscono e cadono (Sal 90,5-6).

Con che cosa lo ripagheremo? (vv. 17-19)

Fino a questo punto il Salmo è stato tutto un inno all’amore gratuito di Dio. Gratuito perché l’uomo può presentargli solo le proprie miserie ed i propri peccati.

Improvvisamente però ecco che nei vv. 17-19 fa di nuovo capolino la teologia “tradizionale”:

Dio ama solo i giusti, i buoni, coloro che lo temono, che custodiscono la sua alleanza, che osservano i suoi precetti. Ma allora siamo da capo! Una giustizia di questo tipo non ci sorprende, è “a misura d’uomo”. I suoi pensieri sono i nostri pensieri, il suo cuore è come il nostro cuore. Non è vero che “le sue vie sovrastano le nostre vie quanto il cielo sovrasta la terra” (Is 55,9).

Facciamo attenzione: il perdono di Dio non si riduce alla pulizia di una macchia, è una nuova creazione, fa nascere un uomo nuovo. Anche all’adulto che ha sbagliato tutto nella vita viene sempre offerta la possibilità di ripartire da una perenne giovinezza.

In questi versetti il sacerdote del tempio non presenta al pellegrino le condizioni cui dovrà attenersi se vorrà attirare su di sé l’amore di Dio.

Descrive piuttosto il capolavoro che l’amore misericordioso di Dio ha operato in lui: lo ha reso capace di essere fedele all’alleanza e di osservare i comandamenti. Per questo può stare sicuro che “la grazia del Signore durerà per sempre su di lui”.

Questa verità verrà formulata in modo ancora più chiaro nel NT: “Chiunque è nato da Dio non commette più peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio” (1 Gv 3,9).


Il canto finale (vv. 20-22)

Questo Dio che ama in modo gratuito ed incondizionato ci sorprende, è diverso da come noi lo immaginiamo, ma è l’unico in cui si possa credere.

Il pellegrino che ha fatto questa scoperta meravigliosa esplode in un inno di gioia. Vorrebbe cantare e far udire la sua voce fino agli estremi confini dell’universo, ma si sente piccolo, debole ed incapace di esprimere la riconoscenza che gli trabocca dal cuore.

Allora invoca l’aiuto degli angeli e di tutte le creature che si muovono nel firmamento: le stelle, gli astri, i pianeti, le galassie che percorrono i cammini che il Signore ha tracciato per loro.

Ha capito le spiegazioni che il sacerdote gli ha dato, è felice e, prima di allontanarsi dal tempio, rivolge a se stesso l’invito alla lode ed al ringraziamento che aveva pronunciato all’inizio: “Benedici il Signore, anima mia!”.

Quando pregare con questo Salmo

Questo Salmo è una delle più belle autopresentazioni di Dio. È lui stesso che parla di sé spiazzando tutte le nostre ingenue proiezioni su di lui.

Ma anche l’uomo viene decisamente rivalutato da questa rivelazione. Tutto di lui, anche il suo peccato, viene recuperato in positivo dalla misericordia di Dio.

Ci sono momenti in cui “pregare questo Salmo” diventa un’autentica terapia, una medicina per la vita.

Anzitutto quando si ha ancora in mente un’immagine terrificante di Dio, quando lo si immagina come il giustiziere che attende ogni uomo per la resa dei conti finale.

A chi volesse guarire da questa pericolosa malattia spirituale suggerisco di prendere, come “farmaco”, questo Salmo: una dose ogni sera, prima di coricarsi, per un mese. Ripetere la cura se i sintomi non regrediscono e, in caso di recidiva, contattare un sacerdote sul tipo di quello che l’autore ha incontrato nel tempio.

Questo Salmo ha un’efficacia garantita anche per guarire coloro che vivono crisi di scoraggiamento a causa dei loro sbagli e fallimenti.


Seconda lettura (1 Gv 4,7-16)

7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. 8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

9 In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.

10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

11 Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.

12 Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.

13 Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. 14 E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. 15 Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. 16 Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.

Più degli altri evangelisti, Giovanni è penetrato nei segreti del cuore di Gesù e ha scoperto l’immensità dell’amore di Dio. Colto da incontenibile gioia ha esclamato: “Guardate quale amore ci ha donato il Padre: ci ha messo in condizione di essere chiamati figli di Dio. E lo siamo realmente!” (1 Gv 3,1).

Nel brano di oggi riprende e sviluppa il tema della figliolanza divina che lo ha colmato di stupore.

Esordisce con un’esortazione: “Diletti, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è generato da Dio” (v. 1).

Gesù aveva fatto la stessa richiesta ai discepoli e presentandola come un comandamento, come il segno distintivo del discepolo: “Vi dono un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).

Giovanni non parla di comandamento. Ai cristiani delle sue comunità rivela le meraviglie del cuore di Dio che ha contemplato in Gesù. Ha scoperto che “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre”, per questo i cristiani devono camminare “nella luce, come egli è luce” (1 Gv 1,5-6). Poi il suo sguardo mistico è andato oltre e ha colto il cuore della vita divina: Dio è amore.

È da questa sorgente infinita che emana e si diffonde fra gli uomini l’amore.

Non si ama per una imposizione, ma per esigenza interiore, per l’impulso che proviene dal cuore nuovo, dal cuore di figli di Colui che “è amore”.

L’amore per il cristiano è un dato di fatto, è la manifestazione necessaria della realtà nuova presente nel suo intimo: il seme divino posto in lui.

Figli di Dio sono tutti coloro dalla cui vita traspare l’amore. “I costruttori di pace saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9); coloro che amano i nemici e pregano per i loro persecutori sono “figli del Padre che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5,44).

Si tratta di una somiglianza dalla quale anche il più grande santo rimarrà infinitamente distante, ma verso la quale si deve continuamente tendere, infatti Paolo esorta: “Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi” (Ef 5,1). Solo in Gesù, l’unigenito di Dio, si è manifestato in pienezza l’amore del cuore del Padre.

Nella seconda parte del brano (vv. 9-10) viene spiegato in che consiste l’amore.

Dio ha manifestato il suo amore donandoci ciò che aveva di più prezioso, il suo Unigenito. Lo ha inviato nel mondo come “vittima di espiazione dei nostri peccati”.

Ci ha amati, non perché eravamo buoni, ma ci ha resi buoni mandando suo figlio per coinvolgerci nel suo amore: “Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi” (Rm 5,6).

Nell’ultima parte della lettura (vv. 11-16) Giovanni spiega cosa accade nella vita dell’uomo quando è presente lo Spirito che anima il cuore del Padre che sta nei cieli.

La figliolanza divina non è una ricompensa riservata a chi si comporta bene, è un dono gratuito. È però facile verificare dove e da chi questo seme divino è stato accolto: ovunque si scorga una scintilla d’amore lì si sta rivelando la presenza della vita divina, lì sta agendo lo Spirito del Padre celeste.


Vangelo (Mt 11,25-30)

25 In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.

27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.

Il cuore di Dio non finirà mai di stupire, riserverà sempre sorprese anche se non tutti saranno in grado di coglierle. Nel vangelo di oggi Gesù suggerisce le disposizioni interiori necessarie per poter capire i gesti d’amore del Padre ed esserne coinvolti.

All’inizio della sua vita pubblica, lungo il lago di Galilea, Gesù ha suscitato parecchi entusiasmi e ha avuto un notevole successo. Colme di stupore per i prodigi da lui operati, le folle si chiedevano: “Chi è costui?” (Mc 3,41), “Da dove gli viene questo potere e che sapienza è mai questa che gli è stata donata?” (Mc 6,2).

Presto però sono iniziate le incomprensioni: la gente ha cominciato a far fatica a comprendere e ad accogliere il nuovo messaggio da lui annunciato; i farisei, custodi inflessibili della legge, lo hanno quasi subito avversato perché sovvertiva le sacre tradizioni del loro popolo. Anche molti discepoli, sconcertati dalle sue proposte, si sono fatti da parte e si sono allontanati da lui (Gv 6,66). Persino i suoi familiari si sono mostrati piuttosto freddi e diffidenti: “Neppure i suoi fratelli credevano in lui” – riferisce Giovanni (Gv 7,5).

Con Gesù è rimasto soltanto un gruppo sparuto di discepoli appartenenti alle classi più povere e disprezzate della società giudaica.

Il Maestro non si è scomposto e ai Dodici – confusi e disorientati dal suo discorso sul pane di vita – ha rivolto una domanda provocatoria: “Volete andarvene anche voi”. A nome di tutti Pietro non ha potuto che rispondere: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,67-69).

Non c’è da meravigliarsi di questo smarrimento generale: non è facile per nessuno capire il cuore di Dio che si è rivelato in Cristo.

Il nostro brano va collocato in questo momento difficile della predicazione di Gesù.

Il capitolo 11 del vangelo di Matteo dal quale è tratto, inizia introducendo la crisi di fede del Battista che invia alcuni discepoli a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3), poi continua con il pesante giudizio di Gesù sulla sua generazione (Mt 11,16-19) e con le minacce: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida” (Mt 11,21-24).

A metà della vita pubblica il bilancio non poteva che essere considerato deludente.

Di fronte a un simile fallimento noi avremmo lasciato cadere le braccia, Gesù invece si rallegra per quanto è accaduto ed esclama: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (v. 25).

I sapienti e gli intelligenti sono spesso citati insieme nella Bibbia e, molte volte, in senso peggiorativo. Sono coloro che si professano ricercatori devoti della sapienza, che pensano addirittura di averne il monopolio, mentre in realtà si arrovellano in stoltezze e si dilettano in vane disquisizioni. Contro di loro il profeta Isaia aveva sentenziato: “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (Is 5,20-21).

Gesù non li dichiara esclusi dalla salvezza, si limita a constatare un fatto: i poveri, gli umili, le persone emarginate hanno accolto per primi la sua parola liberante.

È normale – dice – che questo accada perché sono i piccoli che, più d’ogni altro, sentono il bisogno delle tenerezze di Dio, hanno fame e sete della giustizia, piangono, vivono nel lutto e attendono che il Signore intervenga per sollevare il loro capo e colmarli di gioia.

Sono beati perché per loro è giunto il regno di Dio.

Poi aggiunge: questo fatto rientra nel progetto del Padre: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (v. 26).

È profondamente radicata la convinzione che Dio sia amico solo dei buoni e dei giusti, che prediliga chi si comporta bene e sopporti a fatica chi pecca.

Questo è il Dio creato dai “saggi” e dagli “intelligenti”, è il risultato dei ragionamenti umani.

Il Padre di Gesù invece va a riprendersi coloro che noi gettiamo nella spazzatura, predilige chi è disprezzato, chi non è considerato da nessuno, i peccatori pubblici (Mt 11,19) e le prostitute (Mt 21,31) perché sono i più bisognosi del suo amore.

I ricchi, i sazi, coloro che sono orgogliosi del proprio sapere non sentono il bisogno di questo Padre, si tengono stretto il loro Dio. Giungeranno anch’essi alla salvezza, certo, ma solo quando si saranno fatti “piccoli”. Il pericolo che corrono è quello di arrivare in ritardo, di perdere tempo prezioso.

Nella seconda parte del brano (v. 27) viene introdotta un’importante affermazione di Gesù: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.

Il verbo conoscere nella Bibbia non significa aver incontrato o contattato alcune volte una persona, vuol dire “avere avuto di lei un’esperienza molto coinvolgente”. Viene impiegato, per esempio, per indicare il rapporto intimo che intercorre fra marito e moglie (cf. Lc 1,34).

Una conoscenza piena del Padre è possibile solo al Figlio. Tuttavia, egli può comunicare questa sua esperienza a chi vuole.

Chi avrà la disposizione giusta per accogliere la sua rivelazione?

I piccoli, naturalmente.

Gli scribi, i rabbini, coloro che sono istruiti fin nei minimi dettagli della legge sono convinti di possedere già la piena conoscenza di Dio. Ritengono di saper discernere ciò che è bene e si presentano come guide dei ciechi, come luce di coloro che sono nelle tenebre, come educatori degli ignoranti, come maestri dei semplici (Rm 2,18-20). Costoro, finché non rinunceranno alla loro presunzione di essere “saggi” e “intelligenti”, si precluderanno la più gratificante delle esperienze: la lieta scoperta dell’amore immenso e incondizionato del cuore di Dio.

L’ultima parte del brano (vv. 28-30) si riferisce all’oppressione che i “piccoli”, il popolo semplice, i poveri subiscono ad opera dei “saggi e intelligenti”.

Questi (gli scribi e i farisei) hanno organizzato una pratica religiosa complicatissima, fatta di regole minuziose e di prescrizioni impossibili da osservare; hanno caricato sulle spalle della gente ignorante “pesi insopportabili che essi non toccano nemmeno con un dito” (Lc 11,46).

La legge di Dio è sì un giogo e il saggio Siracide raccomandava al figlio: “Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena; piega la tua spalla e portala… alla fine troverai in lei il riposo” (Sir 6,24-28). L’insegnamento dai maestri d’Israele l’ha però trasformata in un giogo opprimente. La loro predicazione ha indotto gli emarginati a ritenersi non solo disgraziati in questo mondo, ma anche rigettati da Dio ed esclusi dal regno futuro.

Incapaci di osservare le disposizioni dettate dai rabbini, i poveri si sono convinti di essere persone immonde da cui il Signore si tiene lontano. “Questa gente che non conosce la legge è maledetta” – dichiarerà stizzito il sommo sacerdote Caifa (Gv 7,49).

A questi poveri, smarriti e disorientati, Gesù rivolge l’invito a liberarsi dalla paura di Dio e dalla religione angosciante che sono state loro inculcate.

Accogliete – raccomanda – la mia legge, quella nuova che si riassume in un unico comandamento: l’amore, perché nel cuore di Dio c’è solo amore.

Non propone una morale più facile e permissiva, ma un’etica che punta diritta all’essenziale e non fa sprecare energie nell’osservanza di prescrizioni “che hanno una parvenza di sapienza”, ma che davanti a Dio non hanno alcun valore (Col 2,23).

Il suo giogo è dolce. Anzitutto perché è il suo: non nel senso che è stato lui ad imporlo, ma perché è stato lui ad averlo portato per primo. È alla volontà del Padre che Gesù si è sempre inchinato; l’ha liberamente abbracciata, mentre non si è mai lasciato imporre precetti umani (Mc 7). Il suo giogo è dolce perché solo chi accoglie la sapienza delle beatitudini sperimenta la vera gioia.

Infine l’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore!” (v. 29).

Questa affermazione forse ci sorprende: sembra un’autocelebrazione, meritata, certo, ma poco opportuna.

È tutt’altro che una vanteria!

“Imparate da me” significa semplicemente: non seguite i maestri che la fanno da padroni sulle vostre coscienze, che predicano un Dio che non sta dalla parte dei poveri, dei peccatori, degli ultimi e prescrivono una pratica religiosa che toglie la gioia con le sue pignolerie e assurdità.

Gesù si presenta come mite ed umile di cuore.

Sono i termini che troviamo nelle beatitudini e che non indicano i timidi, i mansueti, i tranquilli, ma coloro che sono poveri e oppressi e che, pur subendo ingiustizie, non reagiscono ricorrendo alla violenza.

Gesù ha vissuto conflitti drammatici, ma li ha affrontati con le disposizioni di cuore che caratterizzano i “miti”. Non ha rinunciato a confrontarsi con le forze del male, non è fuggito lontano dal mondo e dai problemi degli uomini.

Egli ha un cuore mite perché si è fatto piccolo, ha scelto l’ultimo posto, si è messo a servizio dell’uomo e ha assunto l’atteggiamento dello schiavo.

Questo è il “giogo” che egli propone anche ai suoi discepoli.

Ai poveri della terra egli dichiara: io sto dalla vostra parte, sono uno di voi, sono anch’io un povero e rifiutato!

Questo brano evangelico invita a fare una verifica sia personale che comunitaria e a porsi degli interrogativi. Qual è il Dio in cui crediamo: è quello dei “sapienti” o quello rivelatoci da Gesù? Per chi è segno di speranza la nostra comunità: per chi è convinto di meritare i primi posti o per chi si sente indegno di varcare la soglia della chiesa? Testimonia la tenerezza del cuore di Dio o la rigidità del cuore dei legulei.

Inviatomi da P.Lino Pedron

curato da padre Fernando Armellini biblista