sabato 30 luglio 2011

Anche i sazi hanno fame


XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Anche i sazi hanno fame

“Il Signore rende giustizia agli oppressi e dà il pane agli affamati” (Sal 146,7), sono le parole con cui il pio israelita professa la sua fede nella provvidenza. Gli fa eco Maria nel suo canto di lode: “Ha ricolmato di beni gli affamati” (Lc 1,53).
Ma come possono essere vere queste affermazioni se un quarto dell’umanità vive in condizioni di assoluta miseria, se ogni giorno decine di migliaia di bambini muoiono di fame, se milioni di persone rimescolano la spazzatura alla ricerca di cibo? Dio che veste i gigli del campo e alimenta gli uccelli del cielo si è forse dimenticato dei suoi figli? Perché il Padre non ascolta la preghiera di chi ogni giorno lo supplica: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”?
Gli indigenti hanno fame, ma anche i sazi si ritrovano tristi, frustrati e soli; la gratificazione del possesso dura pochi giorni, se non poche ore, poi riaffiora l’ansia e il vuoto interiore obbliga a ripartire alla disperata ricerca di altri beni. L’avere di più, invece di saziare, aumenta la fame e fa entrare in un vortice di morte senza uscita.
Questa spirale può essere interrotta. È possibile trovare il pane che sazia e il banchetto dove abbonda il vino della gioia, ma una sola è la via che vi conduce, non ci sono scorciatoie. I cammini che passano accanto alle boutiques, alle gioiellierie e ai negozi di antiquariato sono immaginati come “Vie della felicità”, ma sono ingannevoli. È illusorio anche il cammino indicato da chi predica il miracolismo, da chi invita a impetrare interventi soprannaturali; il Signore non intende sostituirsi all’uomo.
Un prodigio però egli lo promette ed è la sua parola che lo realizza: dove è accolto il suo vangelo i cuori si disintossicano dall’egoismo e sbocciano solidarietà e condivisione. Quando emergono questi sentimenti, la fame di pane scompare ed è saziata la sete di amore.


Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Dio si serve delle mani dell’uomo per sfamare i suoi figli”.


Prima Lettura (Is 55,1-3)

1 O voi tutti assetati venite all’acqua,
 chi non ha denaro venga ugualmente;
 comprate e mangiate senza denaro
 e, senza spesa, vino e latte.
 2 Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
 il vostro patrimonio per ciò che non sazia?
 Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
 e gusterete cibi succulenti.
 3 Porgete l’orecchio e venite a me,
 ascoltate e voi vivrete.
 Io stabilirò per voi un’alleanza eterna,
 i favori assicurati a Davide.

Siamo a Babilonia, sono già passati più di cinquant’anni da quando Gerusalemme è stata distrutta e da quando è iniziato il triste periodo dell’esilio. Gli israeliti che scoraggiati vivono in terra straniera un giorno odono risuonare la voce di un profeta; annuncia l’imminente caduta dell’impero babilonese, la liberazione, il ritorno in patria.
Nel brano di oggi, questa nuova condizione è paragonata ad un banchetto in cui ci sarà abbondanza di cibi e bevande. Per parteciparvi non sarà necessario spendere denaro, basterà avere fame e sete (v. l).
Il profeta però si rende conto che la maggioranza degli esiliati non ha né fame né sete. Essi si sono ormai stabiliti a Babilonia, bene o male si sono adattati alla situazione, non pensano affatto a costruirsi una nuova vita nella patria d’origine. Preferiscono restare dove sono e, se hanno messo da parte qualche risparmio, lo investono per comprarsi case e campi in Mesopotamia; non se la sentono di correre rischi, di lanciarsi in avventure che possono riservare sorprese. Insomma, a loro “il banchetto” non interessa, rifiutano l’invito.
Il profeta insiste, tenta di farli riflettere: la vostra non è una vera vita e chi impiega i propri soldi per sistemarsi definitivamente in terra straniera, sta “spendendo denaro per ciò che non sazia” (v. 2). Solo chi avrà il coraggio di partire sperimenterà la gioia della nuova realtà sociale preparata dal Signore.
Non venne ascoltato. I gruppi di israeliti che lasciarono Babilonia furono pochi e sparuti, la maggioranza non se la sentì di rischiare un nuovo esodo. Coloro poi che ritornarono... non trovarono alcun banchetto, furono accolti male, dovettero affrontare disagi e difficoltà d’ogni genere, per questo in molti sorse il dubbio di essere stati ingannati.
Ci volle del tempo prima che Israele intuisse il vero significato delle promesse del Signore. Non dovevano essere interpretate materialmente; si sarebbero realizzate, ma non in un futuro immediato. Il banchetto era il simbolo della salvezza offerta da Dio a tutta l’umanità.
La condizione in cui si trovavano i deportati a Babilonia è immagine di tutte le schiavitù in cui si dibatte ogni uomo. La tentazione di spendere denaro per ciò che non sazia, la diffidenza nei confronti di chi invita al banchetto e promette la vera gioia, la paura di intraprendere il cammino verso la terra della libertà sono sempre le stesse e si ripresentano continuamente.
Dio non pone di fronte all’evidenza, non dà prove convincenti, chiede fiducia incondizionata in ciò che promette. Solo chi ha già messo piede nella sala del banchetto del regno dei cieli può testimoniare di aver trovato la tavola imbandita. La sua gioia può divenire contagiosa e convincere anche i più diffidenti ad entrare.


Seconda Lettura (Rm 8,35.37-39)

35 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati.
38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Cosa spinge l’uomo ad abbandonare la fede?
Le circostanze più disparate: gli avvenimenti tristi, ma anche la fortuna e il successo. Quando nella vita tutto va bene, si può essere tentati di fare a meno di Dio perché si ha già tutto ciò che si desidera. Ma sono soprattutto le contrarietà, le fatiche, i disagi, le sventure che generano sconforto e possono allontanare da Dio e da Cristo.
Paolo enumera sette di queste difficoltà: “la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” (v. 35). Sono solo alcune – quelle che Paolo ha sperimentato nella propria carne (cf. 2 Cor 11,24-33) – la lista può essere completata da ognuno con l’aggiunta di quelle da cui si sente minacciato. Provo ad elencare quelle che oggi mettono a repentaglio più di altre l’adesione a Cristo: la paura di perdere occasioni e opportunità di essere felici; lo scoraggiamento, l’abbattimento di fronte alla constatazione delle proprie debolezze e miserie morali; la vergogna che porta a non ammettere serenamente i propri errori; il rimorso che fa sentire miserabili, genera angoscia, porta alla disperazione e fa dubitare di essere ancora amati di Dio.
La tentazione di scegliere una vita opposta ai principi evangelici è sempre incombente, ma Paolo assicura: “Nulla potrà separarci dall’amore di Dio e di Cristo” (vv. 35.39). È stato Dio ad aprire la partita con l’umanità e sarà lui a chiuderla, dopo averla condotta come solo egli sa fare, cioè vincendola.


Vangelo (Mt 14,13-21)

13 Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. 14 Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
 15 Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. 16 Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”. 17 Gli risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”. 18 Ed egli disse: “Portatemeli qua”. 19 E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 20 Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. 21 Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

Se si riduce questo miracolo a un gesto di potenza compiuto da Gesù per dare prova dei suoi poteri divini, ci si deve confrontare con una serie di obiezioni cui è difficile sfuggire. Non è molto verosimile lo spostamento di una folla di tante migliaia di persone; l’ora tarda che prelude l’imminente calare delle tenebre non è la più adatta per procedere a una distribuzione del pane a tanta gente; da dove sono saltate fuori le dodici ceste, le avevano portate con sé vuote? Ma la considerazione più provocatoria è un’altra: che interesse può avere per l’uomo d’oggi il fatto che, duemila anni fa, Gesù abbia sfamato cinquemila uomini, se poi Dio permette che si continui a morire per mancanza di pane?
Cosa sia realmente accaduto quella sera nei pressi del lago di Tiberiade è difficile stabilire e non è questo che importa, gli evangelisti infatti riferiscono l’episodio in ben sei versioni, ciascuna con un suo messaggio specifico. Vediamo di cogliere quello che il brano di oggi ci vuole dare.

Era diffusa al tempo di Gesù la convinzione che il messia avrebbe compiuto segni e prodigi straordinari, che avrebbe radunato il popolo, lo avrebbe introdotto nel deserto ove si sarebbe ripetuto il miracolo della manna.
Presentandoci Gesù che entra nel deserto seguito da un’immensa moltitudine di persone che ha abbandonato le città (v. 13), l’evangelista vuole farci vedere in lui il nuovo Mosè. Israele era uscito dall’Egitto ed era entrato nella terra promessa, ma non aveva ancora raggiunto la libertà, non era ancora entrato in comunione con il suo Dio. Eccolo ora condotto di nuovo nel deserto.
Se si vuole spingere più avanti il parallelismo basta collocare il brano nel suo contesto. Matteo ha appena descritto il banchetto organizzato per il compleanno di Erode, quello in cui è avvenuta l’esecuzione del Battista (Mt 14,3-12), banchetto che rappresenta in modo vivo la società corrotta, oppressiva e sanguinaria che deve essere ripudiata da chi segue Cristo. È nel deserto che vengono poste le basi di una società nuova.
Eccone le caratteristiche: anzitutto ha come guida Gesù e come norma dei rapporti reciproci i suoi stessi sentimenti. Egli sente compassione (v. 14). Il verbo impiegato – splagknizomai – non indica un vago sentimento di commozione, ma un’emozione profonda, viscerale (spagkna in greco sono dette le viscere). Lo abbiamo già trovato questo termine: “Vedendo le folle, Gesù ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36).
Di fronte ai bisogni dell’uomo Gesù non è insensibile, si sente partecipe, è coinvolto fin nel suo intimo, gli si stringe il cuore, ma la sua commozione non lo porta allo scoraggiamento, non sfocia in imprecazioni, in vane parole di rammarico o in uno sterile pianto, diviene stimolo all’azione immediata in favore di chi soffre: “Sceso dalla barca, vide una grande folla… guarì i loro malati” (v. 14).
La com-passione, il patire-insieme ai fratelli sono la forza che porta anche il discepolo a impegnarsi nella costruzione di una società nuova. Solo chi ha assimilato la sensibilità del Maestro è mosso a intervenire, a compiere i suoi stessi gesti di amore. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5) – raccomanda Paolo – “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rm 12,15-16).
Questo impellente bisogno interiore a compiere il bene è il segno inequivocabile della presenza nel discepolo dello Spirito di Cristo.

Non è solo con le malattie – con le manifestazioni della debolezza e fragilità dell’uomo – che Gesù si confronta. Anche l’impellente bisogno di cibo e la mancanza dei beni necessari alla vita vanno affrontati. Quale risposta dà Gesù alla fame che c’è nel mondo?
Se la soluzione fosse quella del miracolo, il brano di oggi non avrebbe molto da dirci perché a nessuno di noi è concesso di compiere simili prodigi. Con il suo gesto Gesù indica invece ciò che ogni discepolo può e deve fare affinché a nessuno manchi il pane. Egli non risolve il problema della fame senza la collaborazione dell’uomo.
La prima, subdola tentazione da cui mette in guardia è quella del disimpegno, quella di voler “congedare le folle” affinché ognuno se la cavi da solo, andando nei villaggi a comperarsi da mangiare (v. 15). È la proposta avanzata dai discepoli che, evidentemente, non hanno capito che l’adesione a Cristo implica un impegno concreto in favore di chi è nel bisogno. Non occorre che vadano – risponde Gesù – siete voi stessi che dovete dare loro da mangiare (v. 16).
Immediatamente viene sollevata la difficoltà che è anche la nostra: ciò che abbiamo non può bastare (v. 17).
Se ognuno conserva egoisticamente per sé ciò che possiede, nel timore che un giorno gli possa mancare il necessario, nel mondo ci sarà sempre fame.
Gesù chiede al discepolo di consegnarli ciò che ha, anche se a lui sembra poco. Cinque pani e due pesci – sette pezzi di alimento – sono il simbolo della totalità. Nulla va trattenuto, la generosità deve essere senza limiti. La condivisione dei beni è la proposta di Cristo ed è l’unica in sintonia con il progetto di Dio che è Padre e che vuole che i suoi figli vivano come fratelli, che non accumulino per se stessi, che non si accaparrino i beni destinati a tutti. Quando ognuno metterà a disposizione degli altri ciò che possiede (non solo il denaro, ma tutto se stesso: il proprio tempo, le proprie attitudini, la propria intelligenza, le proprie capacità…), si assisterà al prodigio: ci sarà cibo per tutti e ne avanzerà. Sulla generosità dell’uomo, infatti, si riversa sempre la benedizione di Dio.

Il pane che Gesù distribuisce non è però solo quello materiale.
Come l’acqua, anche il pane era in Israele simbolo della sapienza di Dio. Sia i profeti che i saggi dell’AT vi alludono spesso: “La Sapienza ha imbandito la tavola – dice l’autore del libro dei Proverbi – a chi è privo di senno essa dice: ‘Venite, mangiate il mio pane” (Pr 9,1-5) e Amos annuncia che Dio manderà la fame e la sete nel paese, “non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11).
Un giorno Gesù ha affermato: “Non di solo pane, vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Il cibo che egli dona e che alimenta la vita dell’uomo è la sua parola, anzi è egli stesso, parola di Dio che deve essere assimilata.
“Gesù prese i pani – dice Matteo – e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai suoi discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla” (v. 19). Queste parole ci sono familiari: sono quelle dell’eucaristia. L’evangelista le riprende per far comprendere ai cristiani delle sue comunità che, dopo aver assimilato il pane del vangelo che è donato loro attraverso la predicazione degli apostoli, devono accostarsi anche al banchetto eucaristico per essere saziati.
Gli uomini sfamati sono cinquemila. È il numero che simboleggia Israele. È a questo popolo che è offerto il pane, è lui il primo invitato al banchetto annunciato dai profeti. Dopo che Israele sarà stato saziato, ne avanzeranno dodici ceste. Dodici indica la nuova comunità, quella costituita, attorno a Gesù, dai dodici apostoli. A questo nuovo popolo non mancherà mai il pane – che è Cristo – ci sarà sempre un resto e ogni volta riprenderà la distribuzione.
Attraverso i suoi discepoli – ai quali ha consegnato il suo pane – è Gesù stesso che continua a sfamare gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.

Padre Fernando Armellino (biblista) 

sabato 23 luglio 2011

Il Regno dei cieli è simile...


Vangelo (Mt 13,44-52)
 
44 Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
 45 Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46 trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
47 Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48 Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49 Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
51 Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. 52 Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.
 
Capita spesso agli archeologi di rinvenire, sotto i pavimenti delle abitazioni, casse o vasi contenenti monete. Sono stati probabilmente collocati là dai proprietari prima di darsi a una precipitosa fuga. Nell’imminenza di una guerra o di un’invasione nemica, tutti cercavano di nascondere in fretta ciò che avevano di prezioso e non potevano portare con sé, sperando di poterlo ricuperare un giorno, non appena fosse passato il pericolo. I veri padroni però molte volte non tornavano e la casa veniva occupata da altri che non avevano alcun sospetto della ricchezza che giaceva sotto i loro piedi.
Al tempo di Gesù si favoleggiava molto su tesori scoperti per caso. Si raccontava di poveri braccianti che, intenti a dissodare con l’aratro un campo non loro, accidentalmente urtavano contro un ostacolo, si chinavano per controllare ed ecco apparire un contenitore traboccante di monili, gemme, gioielli, pietre preziose. La fantasia popolare amava cullarsi con questi sogni di inattesi colpi di fortuna.
 
La prima parabola del vangelo di oggi (v. 44) riprende una di queste storie: per puro caso un uomo scopre, nel campo in cui sta lavorando, un tesoro; lo nasconde di nuovo, poi va, vende tutto ciò che possiede e compera quel campo.
Molti si sono soffermati a disquisire sul comportamento morale di quest’uomo e sulla liceità dell’operazione finanziaria da lui compiuta, ma non è questo il punto. Ha incuriosito i commentatori anche il fatto che il tesoro, dopo il ritrovamento, viene di nuovo nascosto. Apparentemente illogico e superfluo, questo dettaglio è invece prezioso: porta a supporre che il bracciante, attratto dall’inconfondibile sfavillio di un oggetto d’oro che affiorava dal terreno, abbia subito intuito che, sotto le zolle, poteva celarsi una ricchezza immensa e, per non perderne neppure una briciola, abbia deciso di comperare tutto il campo.
Siamo così introdotti nella parabola: il tesoro di cui Gesù parla è il regno dei cieli, la condizione nuova in cui entra chi accoglie la proposta delle beatitudini. Ha un valore incalcolabile e, solo progressivamente, viene scoperto da chi è deciso a puntare su di esso la propria vita.
Il fatto che questo tesoro sia trovato per caso indica la sua gratuità: Dio lo offre agli uomini senza alcun loro merito; non è un premio per le loro opere buone.
C’è però un comportamento da assumere di fronte a questo dono. Chi lo scopre non può avere esitazioni, perplessità, dubbi. Se tentenna, perde tempo prezioso, l’occasione favorevole può sfuggirgli e non ripresentarsi più. La decisione va presa con urgenza, la scelta non è dilazionabile. Non si può mancare all’appuntamento con il Signore.
Poi bisogna puntare tutto. Non si chiede di rinunciare a qualcosa, ma di spostare tutti i propri pensieri, le proprie attenzioni, i propri interessi, i propri sforzi sul nuovo obiettivo.
Il tesoro – come avverrà anche con la perla – non è acquistato per essere rivenduto e tornare in possesso dei beni di prima, ma per tenerlo in sostituzione di quanto, fino a quel momento, aveva dato senso alla vita. La scoperta del regno di Dio comporta un cambiamento radicale. È questo il significato della decisione di “vendere tutti i propri averi per comperare il campo”.
 È quanto è accaduto a Paolo, il giudeo irreprensibile e fanatico, convinto che la Toràhera il tesoro che gli avrebbe dato la salvezza. Un giorno, sulla via di Damasco, ha incontrato Cristo, e tutto quello che per lui poteva costituire un guadagno fu considerato una perdita. “Di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore – dichiara – ho lasciato perdere tutto e tutto considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8).
Un simile cambiamento provoca sorpresa, meraviglia, stupore. Chi non ha scoperto lo stesso tesoro non riesce a capacitarsi, non trova una spiegazione che giustifichi la novità di vita di chi è entrato nel regno di Dio.
Chi ha visto il contadino vendere tutto per comperare il campo deve aver pensato che era impazzito: la terra brulla e sassosa della Palestina non giustificava simili sacrifici. Egli solo era cosciente della sua scelta: stava concludendo l’affare della sua vita.
 Chi conosceva Paolo – il rabbino scrupoloso osservante della legge – e improvvisamente l’ha visto abbandonare le sue sicurezze per puntare tutto su un uomo giustiziato l’ha considerato un folle: “Sei pazzo, Paolo – gli dice il procuratore Festo – la troppa scienza ti ha dato al cervello!” (At 26,24). Invece egli aveva trovato il bene più prezioso, “Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23).
Da un segno, però, tutti – i vicini del contadino e i correligionari di Paolo – avrebbero dovuto capire che stava agendo con lucidità e a ragion veduta: la gioia. Chi ha capito di avere tra le mani un inatteso e insperato tesoro non può che essere colmo di gioia: “Sono pervaso di gioia” (2 Cor 7,4) – assicura l’Apostolo – “ho provato grande gioia nel Signore” (Fil 4,10); “il regno di Dio è gioia” (Rm 14,17).
Insomma, chi osserva il volto raggiante di chi ha scoperto il regno di Dio dovrebbe intuire che ha intravisto, come l’archeologo Carter, “cose meravigliose”.
 
La seconda parabola (vv. 15-16) è detta gemella della precedente e contiene lo stesso messaggio. Si diversifica per alcuni dettagli significativi: il protagonista anzitutto non è un povero bracciante, ma un ricco mercante che gira il mondo con un obiettivo ben preciso: trovare perle.
Nell’antichità le perle erano pregiate quanto lo sono oggi i diamanti. Venivano pescate nel mar Rosso, nel golfo Persico e nell’oceano Indiano e, nell’epoca imperiale, erano considerate la cosa più preziosa, tanto da divenire proverbiali. Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza, era venerata come la dea delle perle; un bambino molto amato era detto “perla”; di un uomo saggio si diceva che aveva una bocca da cui uscivano perle; le dodici porte del cielo – scrive il veggente dell’Apocalisse – “sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla” colossale, meravigliosa (Ap 21,21).
Essendo ritenute di gran pregio, Gesù le ha scelte come immagine del tesoro inestimabile che egli offriva: il regno di Dio.
A differenza del contadino che s’imbatte per caso in un tesoro, il mercante trova la perla dopo un’estenuante ricerca. Le due scoperte sono frutto una della fortuna, l’altra del proprio impegno.
Il comportamento del mercante è l’immagine dell’uomo che cerca appassionatamente ciò che può dare senso alla sua vita e riempire di gioia i suoi giorni
Le due parabole si completano: il regno di Dio, da un lato è dono gratuito di Dio, dall’altro è anche frutto dell’impegno dell’uomo.
 
La terza parabola (vv. 47-50) riprende il tema introdotto domenica scorsa dalla parabola del grano e della zizzania. L’immagine è presa dalla pesca sul lago di Tiberiade dove erano impiegate grandi reti a strascico che catturavano pesci buoni, ma anche pesci non commestibili o impuri (Lv 11,10-11). Sulla spiaggia i pescatori procedevano alla separazione. Così – dice Gesù – avviene nel regno dei cieli.
Secondo la concezione degli antichi il mare era il regno delle forze diaboliche, nemiche della vita. Ai discepoli è affidata la missione di “pescare uomini”, sottraendoli al potere del male. Passioni incontenibili, egoismi, cupidigie li avviluppano come onde impetuose che, come un vortice, li trascinano verso l’abisso. Il regno dei cieli è una rete che li tira fuori, li fa respirare, li porta verso la luce, verso la salvezza.
In questa rete non vengono accolti soltanto i buoni e i bravi, ma tutti, senza distinzione. Il regno di Dio non si presenta oggi allo stato puro; nella comunità cristiana va serenamente ammessa, accanto al bene, la presenza del male e del peccato. Nessuno, anche se impuro, deve sentirsi escluso o essere emarginato. Questo è il tempo della misericordia e della pazienza di Dio che “non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3,9).
Certo, giungerà il momento della separazione e Matteo, com’è solito fare, ne parla servendosi del linguaggio drammatico dei predicatori del suo tempo; impiega le immagini con cui nella Bibbia è descritta la distruzione dei nemici del popolo d’Israele (Ez 30; 38-39): i giusti entreranno nella pace e i malvagi saranno puniti in una prigione infuocata.
 
 
Nella letteratura rabbinica si parla spesso di questo giudizio di Dio, non per minacciare la punizione eterna ai peccatori, ma per mettere in risalto l’importanza del tempo presente e l’urgenza delle decisioni da prendere oggi: ogni attimo sprecato è definitivamente perso e gli errori commessi in questo mondo avranno conseguenze eterne. L’eventualità di dissipare, di sperperare la propria esistenza puntandola su “tesori” sbagliati è tutt’altro che remota. Tuttavia, alla fine, la separazione non sarà tra buoni e cattivi, ma tra bene e male: solo il bene entrerà in cielo, tutte le negatività verranno annientate prima… dal fuoco dell’amore di Dio.
Il discorso di Gesù si conclude con la domanda: “Avete capito?” e con il richiamo all’opera dello scriba (vv. 51-52). La domanda è rivolta ai discepoli, a coloro che hanno trovato il tesoro e la perla preziosa. Il regno dei cieli che ora possiedono è stato preparato attraverso l’AT (le cose vecchie) e realizzato in Cristo (le cose nuove). I cristiani sono invitati a rendersi conto, a prendere coscienza, attraverso lo studio delle sacre Scritture, dell’immenso dono che hanno ricevuto da Dio.
 
Padre Fernando Armellini biblista

 

venerdì 15 luglio 2011

L’impazienza dell’uomo e la calma di Dio


XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 L’opera creatrice è iniziata con la separazione della luce dalle tenebre (Gn 1,4); il firmamento fu posto per separare le acque che sono sopra il cielo da quelle che si trovano sulla terra (Gn 1,6-7); Dio disse: “Vi siano lampade nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte” (Gn 1,14). Al termine di queste separazioni, l’autore sacro commenta: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31).
Da quel giorno, l’uomo – forse per l’inconscia paura che gli opposti potessero di nuovo fondersi e riportare il caos, il disordine che rendeva impossibile la vita – è istintivamente indotto ad erigere steccati e a stabilire una separazione fra i buoni e i malvagi, fra il puro e l’impuro, fra i santi e gli empi, fra gli amici di Dio e i suoi nemici. Alcuni testi della Bibbia, interpretati superficialmente, sembrano approvare simili discriminazioni: “Sarete santi per me, poiché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei” (Lv 20,26; 20,26).
Nel mondo uscito buono dalle mani di Dio, la presenza del male rimane un enigma, un elemento di disturbo che l’uomo non sopporta e, impaziente come i servi della parabola, si chiede: “Da dove viene la zizzania?”. In lui subentra allora la frenesia di risolvere immediatamente le tensioni che prova e finisce per ricorrere a rimedi peggiori del male: diventa spietato e intollerante con se stesso e con gli altri, castiga in modo crudele, scatena guerre sante e si lascia prendere dall’ira che “mai porta a compimento la giustizia di Dio” (Gc 1,20).
In tal modo commette due errori: non accetta serenamente la realtà del mondo in cui il bene e il male sono destinati a convivere e confonde la stagione della crescita con quella della mietitura.


Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“La presenza del male nel mondo non mette in pericolo la riuscita del regno di Dio”.


Prima Lettura (Sap 12,13.16-19)

13 Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
 perché tu debba difenderti
 dall’accusa di giudice ingiusto.
 16 La tua forza infatti è principio di giustizia;
 il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti.
 17 Mostri la forza se non si crede nella tua onnipotenza
 e reprimi l’insolenza in coloro che la conoscono.
 18 Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza;
 ci governi con molta indulgenza,
 perché il potere lo eserciti quando vuoi.
19 Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
 che il giusto deve amare gli uomini;
 inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza
 perché tu concedi dopo i peccati
 la possibilità di pentirsi.

Il libro della Sapienza è stato l’ultimo dell’AT ad essere scritto. Il suo autore – un giudeo di Alessandria d’Egitto – era probabilmente ancora vivo quando Gesù è nato.
Da secoli la maggioranza degli israeliti viveva dispersa per il mondo. In ogni città dell’impero romano costituivano una comunità a parte: avevano le loro sinagoghe, i loro rabbini, i loro tribunali, le loro feste, le loro tradizioni. Non contraevano matrimonio con i pagani e prendevano tutte le precauzioni per non lasciarsi corrompere dai costumi degli altri, per non lasciarsi influenzare dalla loro morale e dalle loro pratiche religiose.
Alcuni di questi israeliti della cosiddetta diaspora avevano trovato un’ottima sistemazione all’estero, esercitavano professioni redditizie, ma i più vivevano in ristrettezze ed erano anche oggetto di discriminazioni. Costoro si chiedevano: come mai noi, pur essendo fedeli alla legge di Dio, siamo oppressi e umiliati, mentre gli idolatri prosperano? Perché Dio tollera che subiamo insolenze e ingiustizie? I nostri padri ci hanno raccontato che, in passato, il Signore compiva segni e prodigi in favore del suo popolo, come mai ora non interviene più, è forse diminuita la sua forza?
Nel brano di oggi l’autore risponde a queste domande. La forza del Signore – assicura – è sempre la stessa, infinita, ma egli non la usa per punire, la impiega solo per il bene dell’uomo. Questa è la sua giustizia: usare indulgenza nei confronti di tutti. Il suo dominio è universale, si estende su giusti ed empi: non può voler bene solo ad alcuni (v. 16).
Gli uomini impiegano la loro forza per incutere timore e rispetto, per soggiogare i più deboli e costringerli a rimanere sottomessi. Dio invece, pur essendo il padrone della forza, non la usa per imporre la sua sovranità; non ricorre ai castighi, alle ritorsioni, alle vendette, ma, con tutti, anche con i malvagi, si mostra mite e indulgente (vv. 17-18).
Commoventi le due ragioni che, nell’ultimo versetto (v. 19), spiegano il sorprendente comportamento di Dio: egli è paziente, anzitutto, perché vuole insegnare al suo popolo che il giusto deve amare gli uomini. Ci sono, sì, azioni ignobili, opere infami, ma nessun uomo è spregevole, tutti meritano amore. La seconda ragione: Dio non interviene con ritorsioni e castighi perché non vuole la morte del malvagio, ma “che desista dalla sua condotta e viva” (Ez 18,23); per questo gli offre sempre la possibilità di pentirsi (v. l9). Chi si attende un suo intervento punitivo sta semplicemente proiettando in Dio i propri istinti vendicativi.


Seconda Lettura (Rm 8,26-27)

26 Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27 e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.

Come si fa a pregare? Se bastasse ripetere formule sarebbe semplice. Ma Gesù ha detto che la preghiera dei suoi discepoli non è di questo tipo: “Quando pregate non sprecate le parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7)
Nella lettura di oggi Paolo riconosce candidamente: noi non sappiamo pregare, non abbiamo idea di che cosa si debba chiedere a Dio e le nostre invocazioni sono spesso solo tentativi di farlo aderire ai nostri progetti.
Lo Spirito viene in soccorso della nostra debolezza e ci suggerisce le parole che dobbiamo rivolgere al Padre (v. 26). Pregarlo è aprire la mente e il cuore alla sua luce e disporsi ad accogliere la sua volontà, in ogni istante della vita. Chi ci offre la luce di Dio e ci dona la forza di seguirla è lo Spirito, “colui che scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio” (1 Cor 2,10) e ci fa partecipi dei suoi misteri. I pensieri del Signore sono però incomprensibili per la sapienza di questo mondo (1 Cor 2,3-7), per questo Paolo li definisce “gemiti ineffabili”.
La preghiera che viene dallo Spirito è sempre esaudita, perché è conforme ai desideri di Dio: non cerca di piegare la sua volontà alla nostra, ma ottiene la nostra conversione alla sua (v. 27).


Vangelo (Mt 13,24-43)

24 Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. 27 Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? 28 Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? 29 No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30 Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”.

31 Un’altra parabola espose loro: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. 32 Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”.
33 Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”.

34 Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, 35 perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.

36 Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37 Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38 Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, 39 e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40 Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41 Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42 e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43 Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

Con altre tre parabole Gesù svela progressivamente il mistero del regno dei cieli. La prima – quella del grano e della zizzania (vv. 24-30) – riceve, come è accaduto a quella del seminatore della scorsa domenica, una spiegazione (vv. 36-43); si tratta di un’omelia di un predicatore del tempo di Matteo, che ha attualizzato il racconto e lo ha applicato ai bisogni delle sue comunità. Poi vengono raccontate altre due parabole – quelle del granello di senapa e del lievito (vv. 31-33) – introdotte per porre in risalto la forza irresistibile del bene. I vv. 34-35 riprendono ciò che è stato detto nei vv. 10-17 e chiariscono la ragione per cui Gesù parla in parabole. Esaminiamo le parti principali del brano.

Da dove viene la zizzania? (vv. 24-30).
Già l’esistenza del male – cui l’uomo non ha mai saputo dare una risposta soddisfacente – costituisce un angosciante problema. Oltre a questo, i cristiani delle comunità di Matteo ne dovevano affrontare un secondo, non meno serio: erano passati cinquant’anni dalla morte e risurrezione di Gesù e, guardandosi attorno, verificavano che nel mondo era presente, sì, tanto bene, ma continuava ancora a crescere, rigoglioso, anche il male. Come mai il regno dei cieli, inaugurato da Gesù, non aveva avuto un successo totale e immediato?
L’interrogativo era imbarazzante. Qualcuno lo formulava in termini ironici e provocatori: “Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3,4).
L’enigma dell’esistenza del male esige una spiegazione e l’evangelista la dà, con una parabola di Gesù.
Il primo personaggio che viene messo in scena è il padrone. Rappresenta Dio. È lui che semina o è lui, in ogni caso, il responsabile della qualità del seme, che viene definito “buono” (v. 24). Questo aggettivo non è banale, richiama in modo esplicito il ritornello che, per dieci volte, è ripetuto nel primo capitolo della Genesi: “E Dio vide che era buono”. Tutto era buono ciò che Dio aveva fatto: non nel senso che non accadevano cataclismi e catastrofi naturali, che non esistevano dolore, malattia e morte, ma tutto era buono perché perfettamente adatto a realizzare il progetto del Signore.
Il creato è buono, come è buono il seme della parola annunciata da Gesù.
Il secondo personaggio è il nemico: rappresenta la logica di questo mondo, la mentalità antievangelica. Giunge di notte e, mentre tutti dormono, semina la zizzania, una graminacea molto simile al grano: cresce fino all’altezza di 60 centimetri e produce una spiga contenente chicchi nerastri; le sue radici si intrecciano con quelle del frumento e sono impossibili da sradicare senza strappare anche quello.
 È quando le menti sono intorpidite dal sonno, è nei momenti in cui la vigilanza si allenta, è nei tempi in cui ci si abbandona alle dissipazioni e alle frivolezze che il nemico trova il modo di introdursi nel campo per seminare il male. Basta una disattenzione e si finisce per adeguarsi alla morale corrente, si assimilano i princìpi di questo mondo. Non è facile, in un primo momento, rendersi conto dell’accaduto, il male infatti si maschera spesso da “angelo di luce” (2 Cor 11,14). È in seguito, quando si osservano i risultati, che ci si rende conto del germe di morte che è penetrato nella mente e nel cuore. Ecco la ragione per cui Paolo raccomanda: “ È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino” (Rm 13,11-12).
Il terzo personaggio – che ci è simpatico, perché ci rappresenta – sono i servi. La loro reazione – un misto di stupore e di smarrimento di fronte alla constatazione della presenza del loglio – è quella che noi sperimentiamo quando ci avvediamo dell’esistenza del male nel mondo, nella comunità cristiana, in ogni uomo. Il dialogo concitato con il padrone è commovente: mostra il loro interesse per il campo, il loro impegno per la produzione. Non sembrano estranei, ma membri della famiglia.
 È a questo punto che si inserisce il messaggio centrale della parabola: la loro passione per la causa del bene li coinvolge al punto da indurli a proporre un’azione sconsiderata. Sono colti dall’impazienza, dall’ansia di sbarazzarsi subito della zizzania; non hanno esitazioni, vogliono intervenire in modo energico e immediato.
Il padrone non perde il controllo, mantiene la calma. Non si meraviglia dell’accaduto, non si scompone, non condivide la loro inquietudine. Nella sua risposta (che occupa più di un terzo del racconto) è presentata la prospettiva di Dio: in questo mondo, il bene e il male non possono essere separati, sono destinati a crescere insieme e così fino alla fine.
Come mai non si possono accelerare i tempi? Se Dio è onnipotente perché non elimina subito ogni traccia di male?
Perché non è onnipotente, come forse noi lo immaginiamo. La Bibbia non gli attribuisce mai questo titolo; lo chiama potente (Lc 1,49) o pantokrátor (Ap 1,8) che non significa “colui che può fare ciò che vuole”, ma “colui al quale nulla sfugge di mano”. L’uomo è libero e Dio ha voluto iniziare con lui “una storia d’amore” dalla quale potrebbe anche uscire sconfitto. Il suo progetto contempla la presenza del male, che va accettata serenamente, come una componente della vita. Credere che egli è pantokrátor vuol dire alimentare la convinzione che egli condurrà abilmente questa “storia d’amore” con ogni uomo e che l’ultima parola, quella decisiva, vincente, sarà comunque la sua.
La presenza della zizzania sia in noi che negli altri infastidisce enormemente. Ci costa ammettere che “non c’è sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non pecchi” (Qo 7,20). Vorremmo cullarci nell’illusione di essere perfetti, desidereremmo avere una conferma dell’immagine elevata che ci siamo fatti di noi stessi. Il male non va giustificato, certo, ma Gesù esorta a considerarlo con gli occhi sereni e pazienti di Dio.

La sorprendente crescita del regno dei cieli (vv. 31-35).
Alla parabola del grano e della zizzania ne seguono altre due, brevi, che sono dette “gemelle” perché contengono il medesimo messaggio: la sproporzione fra il piccolo inizio e l’inatteso, stupefacente risultato finale. Un granello di senapa, quasi invisibile, dà origine ad un arbusto capace di raggiungere i quattro metri di altezza; pochi grammi di lievito fanno fermentare cinquanta chili di farina. Il contrasto è enorme!
Non è l’invito a godere del prestigio presente e a pregustare i trionfi futuri della chiesa che, iniziata con un gruppo poco qualificato di pescatori e di persone impure e peccatrici, è divenuta una struttura rispettata, temuta, apprezzata, capace di farsi notare e di imporsi. Non è neppure un annuncio della progressiva e inarrestabile cristianizzazione di tutto il mondo.
Come la parabola precedente che esortava alla pazienza e alla fiducia, queste due sono un invito all’ottimismo derivante dalla certezza che nello Spirito e nella parola di Cristo – benché insignificanti agli occhi del mondo – è presente la forza irresistibile di Dio.
L’evangelista conclude le tre parabole con una riflessione sull’obiettivo che, con esse, Gesù ha voluto raggiungere: svelare il progetto che, fin dal momento della creazione, Dio ha sul mondo (vv. 34-35).

L’accettazione serena del male non significa disimpegno (vv. 36-43).
La scena cambia. Gesù non è più sulla barca, ma in casa e non si rivolge alla folla, ma al gruppo ristretto dei discepoli. È il modo con cui l’evangelista introduce l’applicazione della parabola.
Leggendo questi versetti non si può non notare che la situazione cui si fa riferimento è completamente mutata: i personaggi non sono più gli stessi; la parabola diviene allegoria; il seme non è la logica del regno e la zizzania l’opposto, ma sembrano essere gli individui buoni e cattivi; il campo non è il mondo, ma il regno del figlio dell’uomo; il messaggio, soprattutto, non è lo stesso: prima il padrone invitava ad accettare serenamente l’esistenza del male accanto al bene e rimproverava l’intolleranza dei servi, ora anch’egli sembra lasciarsi prendere dalla frenesia di “mettere mano al fuoco” (v. 42).
Si tratta – come abbiamo rilevato – di una catechesi rivolta alle comunità di Matteo alla fine del I secolo. Probabilmente, dopo i primi decenni di grande fervore, i cristiani si erano un po’ rilassati e non prendevano più sul serio gli impegni del loro battesimo. Che fare? L’evangelista ha sentito il bisogno di scuoterli, di richiamarli alla serietà della vita e lo ha fatto servendosi del linguaggio dei predicatori del suo tempo. Era un giudeo, parlava a giudei e, per farsi capire, non poteva che ricorrere alle immagini comprensibili alla sua gente: il fuoco, le fornaci ardenti, il pianto, lo stridore di denti, la mietitura, gli angeli, i diavoli... Si tratta di metafore impressionanti, impiegate comunemente dai rabbini e che non possono essere ripetute oggi senza aggiungervi opportuni chiarimenti.
Non è corretto ricavare da esse conclusioni riguardo alla fine del mondo e al giudizio di Dio, perché Matteo non stava dando informazioni: non intendeva descrivere ciò che accadrà in futuro ai peccatori, ma stava rivolgendo un pressante, accorato richiamo ai suoi cristiani.
Una cosa è certa: chi fa il male rovina la propria vita. Quanto al futuro, più che assolutizzare le allegorie (in cui chiaramente la fervida fantasia orientale ha preso il sopravvento) è meglio soffermarsi su ciò che la Scrittura dice in modo esplicito e cioè che Dio è padre, “vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tm 2,4) e “non ha inviato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
E il fuoco? Dio conosce un unico fuoco: il suo Spirito, sceso sui discepoli nella Pentecoste (At 2, 3), consegnato dal Risorto nel giorno di Pasqua come forza distruttrice del peccato (Gv 20,22-23). È il fuoco cui alludeva Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). È la fiamma inarrestabile che brucerà – questa è la bella notizia! – ogni traccia di zizzania nel cuore di ogni uomo, lasciandovi solo il buon grano, l’unico che sarà ammesso nel mondo futuro.
Al momento della mietitura verranno raccolti e gettati nella fornace ardente “tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità”. Non è una minaccia di castigo, ma un lieto annuncio: il fuoco di Dio, il suo Spirito un giorno riuscirà a far scomparire ogni forma di male. Nel regno dei cieli, giunto al suo compimento, non ci sarà più alcuno che commetterà iniquità.
Padre Fernando Armellini biblista

sabato 9 luglio 2011

Tra cielo e terra





XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Fra cielo e terra… “la parola”

Vangelo (Mt 13,1-23)
1 Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. 2 Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia.
 3 Egli parlò loro di molte cose in parabole. E disse: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4 E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. 5 Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. 6 Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. 7 Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. 8 Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. 9 Chi ha orecchi intenda”.
10 Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché parli loro in parabole?”.
 11 Egli rispose: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12 Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 13 Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. 14 E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: “Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. 15 Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani.
16 Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. 17 In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono!
18 Voi dunque intendete la parabola del seminatore: 19 tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20 Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, 21 ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. 22 Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. 23 Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta”.
I teologi e i predicatori espongono sapientemente verità molto profonde, ma a volte usano un linguaggio complicato, ostico, involuto. Danno quasi l’impressione di non preoccuparsi che la gente capisca, che si mostri interessata, si appassioni o si stia annoiando. Gesù aveva un approccio pedagogico diverso: anche quando affrontava temi impegnativi, impiegava sempre un linguaggio semplice, ricorreva a paragoni e a immagini, raccontava storie ambientate nella vita dei pastori, dei pescatori, dei commercianti, degli esattori d’imposte e, soprattutto, dei contadini in mezzo ai quali era nato e cresciuto.
La parabola – dicevano i rabbini – è come lo stoppino di una candela: costa pochi spiccioli, eppure, per quanto fioca sia la sua luce, può far scoprire un tesoro.
Oggi Gesù introduce il tema teologico più difficile, l’enigma al quale le menti più acute e gli spiriti più nobili dell’umanità hanno tentato invano di dare una risposta: “Perché il male?”, “Perché il regno di Dio incontra tante difficoltà per affermarsi?”. Lo affronta con il suo solito metodo: la parabola.
Il brano è chiaramente diviso in tre parti. La prima (vv. l-9) è costituita dalla parabola;la seconda (vv. 10-17) contiene alcuni detti di Gesù di non facile interpretazione, infatti sembrano insinuare che egli non voglia che i suoi ascoltatori si convertano; la terza(vv. 18-23) è un’applicazione della parabola alla vita della comunità.
Prima di commentare ciascuna delle tre parti, facciamo una premessa. I biblisti sono concordi nel riconoscere che la spiegazione della parabola, benché sia posta sulla bocca di Gesù e rifletta perfettamente il suo pensiero, non sia stata pronunciata direttamente da lui. Da chi allora?
I primi cristiani, quando facevano catechesi nelle loro comunità, non erano preoccupati di trasmettere alla lettera ciò che Gesù aveva detto; si sforzavano, piuttosto, di rendere comprensibile ed efficace il suo messaggio, applicandolo alle situazioni concrete della loro vita. Erano convinti che gli evangelizzatori non dovevano comportarsi da semplici ripetitori; per essere fedeli alla parola del Maestro, dovevano attualizzare il suo messaggio. Chi infatti ripete in modo esatto le parole di una persona non sempre riferisce in modo autentico il suo pensiero.
I primi cristiani, dunque, alcune volte hanno modificato un po’ l’una o l’altra parabola, oppure hanno aggiunto una spiegazione per adattarla alla situazione delle loro comunità.
 È ciò che è accaduto con la parabola che ci viene proposta oggi. Gesù l’ha raccontata per dare un insegnamento ai suoi ascoltatori e i primi cristiani l’hanno riletta e applicata ai problemi concreti della loro vita, problemi che non erano propriamente gli stessi di quelli dei discepoli che avevano ascoltato Gesù. Così è nata la catechesi “attualizzata” che si trova nei vv. 18-23.
Iniziamo chiarendo il senso e il messaggio che aveva la parabola sulla bocca di Gesù, poi, dopo aver interpretato i difficili versetti centrali, spiegheremo la lettura che di essa hanno fatto le comunità di Matteo.
Uno strano modo di seminare (vv. 1-9).
Nella parabola c’è un particolare che subito richiama l’attenzione: lo spreco della semente che viene sparsa in grande quantità in un terreno sterile. Stupisce il comportamento dell’agricoltore che pare agire in modo poco accorto. Tre quarti esatti del racconto sono dedicati al grano che va a finire sulla strada, in luoghi sassosi o tra le spine ed è divorato dagli uccelli, rimane bruciato o viene soffocato.
 L’insistenza sullo spreco, sull’insuccesso, sulle prospettive deludenti è un elemento importante: riflette la realtà del mondo in cui il male appare molto più forte, più efficiente del bene. Si noti il suo progressivo, incalzante strapotere: il seme non spunta, quello che spunta non cresce, quello che cresce è soffocato.
Da chi dipende? Perché questo accade? Se Dio è buono perché il suo regno non si sviluppa incontrastato? Questi sono gli interrogativi cui Gesù voleva dare una risposta.
Per comprendere la parabola occorre tenere presente che in quel tempo la semina non era fatta dopo che il campo era stato preparato, ma prima. Il contadino, non cominciava ad arare, zappare, sradicare i rovi, togliere i sassi, ma, prima seminava e dopo passava con l’aratro. Si capisce allora come parte del seme potesse cadere fra le pietre, in mezzo alle erbacce, fra le spine o sopra quei piccoli sentieri che si formano nei campi quando vengono attraversati durante il lavoro della mietitura oppure nel periodo in cui i campi rimangono incolti.
Chi osserva l’agricoltore della parabola è portato a pensare che stia lavorando invano, che sprechi il seme e le energie. È difficile credere che, in un campo ridotto in quello stato, possa germogliare qualcosa. Invece, dopo la semina, ecco passare l’aratro: i sentieri scompaiono, le spine e l’erba vengono tolte, le pietre spostate e il campo che sembrava improduttivo, dopo poco tempo, si copre prima di steli di grano, poi di bionde spighe. Un autentico miracolo!
Gesù racconta questa parabola in un momento difficile della sua vita: a Nazaret è stato scacciato, a Cafarnao lo hanno preso per pazzo, i farisei lo vogliono uccidere, i discepoli lo abbandonano. Sembra proprio che tutta la sua predicazione sia caduta invano; le condizioni sono troppo sfavorevoli, la sua parola pare destinata a morire (cf. Mt 11-12).
Con questa parabola voleva lanciare un messaggio ai discepoli scoraggiati che lo interrogavano sull’utilità del lavoro apostolico che stava svolgendo: malgrado tutte le contraddizioni e gli ostacoli, la sua parola avrebbe dato frutti abbondanti perché ha in sé una forza di vita irresistibile.
Contrariamente a tutte le attese, la venuta del messia non è stata clamorosa, non ha avuto grande risonanza. Il suo passaggio in questo mondo è sembrato tra i più insignificanti: non ha cambiato nulla nella vita sociale e politica del suo popolo. Più famoso di lui è stato il Battista. Gesù è scomparso nella terra come un piccolo seme, debole, quasi invisibile, eppure, dopo poco tempo, questo seme ha iniziato a germogliare. Il vangelo ha fatto lievitare l’umanità e noi, oggi, possiamo verificare che il messaggio della parabola del seminatore si sta realizzando.
Tutti noi qualche volta ci siamo chiesti se vale la pena annunciare la parola di Dio in un mondo e in una società corrotti come quelli in cui viviamo, se ha ancora senso oggi parlare di beatitudini evangeliche e fare catechesi a persone che non ascoltano, che hanno il cuore indurito, pensano solo al denaro, ai divertimenti, a ciò che è caduco, fugace, effimero. Gli evangelizzatori, i catechisti non staranno forse seminando invano?
Quando sorgono questi pensieri è il momento di professare la propria fede nella forza divina contenuta nella parola del vangelo.
 Perché Gesù parla in parabole? (vv. 10-17).
A metà della sua vita pubblica Gesù fa un bilancio e constata che ben poche persone hanno accettato il suo messaggio. C’è da meravigliarsi di questo fatto? No, risponde. Anche i profeti dell’AT non venivano ascoltati. Al tempo di Isaia, per esempio, la gente si tappava le orecchie per non ascoltare la parola di Dio e induriva il cuore per non convertirsi (vv. 14-15).
Ecco la ragione per cui egli ricorre alle parabole: fa un nuovo tentativo per sbloccare la situazione. Pensa che, con questo linguaggio semplice e concreto, sarà più facile far breccia nei cuori dei suoi ascoltatori. La parabola obbliga a riflettere, a cercare il significato recondito, fa pensare, fa cadere in se stessi e può quindi ottenere la conversione.
Questi versetti sono un invito ad aprire al più presto gli occhi, le orecchie e il cuore altrimenti le parabole rimangono racconti enigmatici e non producono alcun frutto.
I quattro tipi di terreno (vv. 18-23).
L’applicazione della similitudine alla vita delle comunità ha lo scopo di aiutare i discepoli a identificare le difficoltà che la parola di Dio incontra in ognuno. La scarsità dei risultati non dipende né dal seme né dal seminatore, ma dal tipo di terreno.
C’è anzitutto un cuore duro, reso tale – come accade col suolo di una strada – dalle molte persone che l’hanno calpestato. Rappresenta il cuore impenetrabile alla parola di Cristo perché ha assimilato il modo di ragionare di questo mondo, si è adattato alla morale corrente, ha fatto propri i valori proposti dagli uomini. Questo è il maligno, il demone devastante che si insinua nei pensieri e nei sentimenti, colmandoli di meschinità, di frivolezze, di proposte di vita insensata, di ragionamenti dissennati.
Poi c’è un cuore incostante che si entusiasma facilmente, ma, dopo pochi giorni, torna quello di prima. È come un sasso coperto da un leggero strato di terra: se vi si pianta un seme, questi germoglia, ma immediatamente secca.
C’è anche un cuore inquieto che si agita per i problemi di questo mondo, che rincorre il successo e la ricchezza, che alimenta sogni meschini. Queste preoccupazioni sono come spine: soffocano il seme della parola.
Infine c’è un cuore buono nel quale il vangelo produce frutti abbondanti.
Non si tratta di quattro categorie di persone, ma di quattro disposizioni interiori che si ritrovano, in proporzioni diverse, in ogni uomo. Inutile che l’evangelizzatore, per lanciare il prezioso seme della parola, attenda di trovare il terreno ideale, quello perfettamente fecondo. Terra buona, spine, sassi e suolo arido saranno sempre insieme. Per qualcuno questo sarà un motivo di scoraggiamento, ma per i veri apostoli, per i catechisti autentici diverrà uno stimolo a una semina più abbondante. Molti sforzi saranno vani, ma un giorno, puntualmente, la spiga farà la sua comparsa, in ogni uomo.
 Padre Fernando Armellini (biblista)

sabato 2 luglio 2011

Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.


Vangelo (Mt 11,25-30)
 
25 In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.
 
All’inizio della sua vita pubblica, lungo il lago di Galilea, Gesù ha suscitato parecchi entusiasmi e ha avuto un notevole successo; presto però sono cominciati i conflitti, le incomprensioni e le ostilità. Molti discepoli, sconcertati dalle sue proposte, si sono scoraggiati e lo hanno abbandonato (Gv 6,66). Persino i suoi familiari si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti (Gv 7,5). Con lui è rimasto soltanto un gruppo sparuto di discepoli appartenenti alle classi più povere e disprezzate della società giudaica (Gv 6,67-69).
Il nostro brano costituisce l’epilogo di un capitolo carico di tensioni e polemiche. Si è aperto con la crisi di fede del Battista che ha inviato alcuni discepoli a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3); è continuato con il pesante giudizio di Gesù sulla sua generazione (Mt 11,16-19) e con le minacce: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida” (Mt 11,21-24).
A metà della vita pubblica il bilancio non poteva che essere considerato deludente. Di fronte a un simile fallimento noi avremmo lasciato cadere le braccia, Gesù invece si rallegra e benedice il Padre per quanto è accaduto.
L’esclamazione solenne con cui inizia il vangelo di oggi è una delle poche preghiere di Gesù riportate dai vangeli: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (v. 25).
I sapienti e gli intelligenti sono spesso citati insieme nella Bibbia e, molte volte, in senso peggiorativo. Sono coloro che si professano ricercatori devoti della sapienza, che pensano addirittura di averne il monopolio, mentre in realtà si arrovellano in stoltezze e si dilettano con vane disquisizioni. Contro di loro il profeta Isaia aveva sentenziato: “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (Is 5,20-21). Gesù non li dichiara esclusi dalla salvezza, si limita a constatare un fatto: i poveri, gli umili, le persone emarginate hanno accolto per primi la sua parola di liberazione. È normale – dice – che questo accada perché sono i piccoli che, più d’ogni altro, sentono il bisogno delle tenerezze di Dio, hanno fame e sete della giustizia, piangono, vivono nel lutto e attendono che il Signore intervenga per sollevare il loro capo e colmarli di gioia. Sono beati perché per loro è giunto il regno di Dio. Poi aggiunge: questo fatto rientra nel progetto del Padre: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (v. 26).
 È profondamente radicata la convinzione che Dio sia amico solo dei buoni e dei giusti, che prediliga chi si comporta bene e sopporti a fatica chi pecca. Questo è il Dio creato dai “saggi” e dagli “intelligenti”, è il prodotto della logica e dei criteri umani. Il Padre di Gesù invece va a riprendersi coloro che noi gettiamo nella spazzatura, predilige chi è disprezzato, chi non è considerato da nessuno, i peccatori pubblici (Mt 11,19) e le prostitute (Mt 21,31) perché sono i più bisognosi del suo amore. I ricchi, i sazi, chi è orgoglioso del proprio sapere non sentono il bisogno di questo Padre, si tengono stretto il loro Dio. Giungeranno anch’essi alla salvezza, certo, ma solo quando si saranno fatti “piccoli”. Il guaio per loro è quello di arrivare in ritardo, di perdere tempo prezioso.
 
Nella seconda parte del brano (v. 27) viene introdotta un’importante affermazione di Gesù: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.
Il verbo conoscere nella Bibbia non significa aver incontrato o contattato alcune volte una persona, vuol dire “avere avuto di lei un’esperienza profonda”. Viene impiegato, per esempio, per indicare il rapporto intimo che intercorre fra marito e moglie (cf. Lc 1,34).
Una conoscenza piena del Padre è possibile solo al Figlio. Tuttavia, egli può comunicare questa sua esperienza a chi vuole. Chi avrà la disposizione giusta per accogliere la sua rivelazione? I piccoli, naturalmente.
Gli scribi, i rabbini, coloro che sono istruiti fin nei minimi dettagli della legge sono convinti di possedere la piena conoscenza di Dio, ritengono di saper discernere ciò che è bene, si presentano come guide dei ciechi, come luce di coloro che sono nelle tenebre, come educatori degli ignoranti, come maestri dei semplici (Rm 2,18-20); costoro, finché non rinunceranno al loro atteggiamento di “saggi” e “intelligenti”, si precluderanno la vera e gratificante esperienza dell’amore di Dio.
 
L’ultima parte del brano (vv. 28-30) si riferisce all’oppressione che i “piccoli”, il popolo semplice della terra, i poveri subiscono da parte dei “saggi e intelligenti”. Questi (gli scribi e i farisei) hanno strutturato una religione complicatissima, fatta di regole minuziose, di prescrizioni impossibili da osservare, hanno caricato sulle spalle della gente ignorante “pesi insopportabili che essi non toccano nemmeno con un dito” (Lc 11,46).
La legge di Dio è sì un giogo e il saggio Siracide raccomandava al figlio: “Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena; piega la tua spalla e portala… alla fine troverai in lei il riposo” (Sir 6,24-28), ma la religione predicata dai maestri d’Israele l’ha trasformata in un giogo opprimente. Per causa sua i poveri non si sentono solo disgraziati in questo mondo, ma anche rigettati da Dio ed esclusi dal mondo futuro. Sanno di non essere capaci di osservare le disposizioni dettate dai rabbini e per questo si sono convinti di essere impuri. “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”, dichiarava il sommo sacerdote Caifa (Gv 7,49).
A questi poveri, smarriti e disorientati, Gesù rivolge l’invito a liberarsi dalla paura e dalla religione angosciante che è stata inculcata in loro. Accogliete – raccomanda – la mia legge, quella nuova che si riassume in un unico comandamento: l’amore al fratello. Non propone una morale più facile e permissiva, ma un’etica che punta diritta all’essenziale e non fa sprecare energie nell’osservanza di prescrizioni “che hanno una parvenza di sapienza”, ma che in realtà non hanno alcun valore (Col 2,23).
Il suo giogo è dolce. Anzitutto perché è il suo: non nel senso che è stato lui ad imporlo, ma perché è lui ad averlo portato per primo. È alla volontà del Padre che Gesù si è sempre inchinato; l’ha liberamente abbracciata, mentre non si è mai lasciato imporre precetti umani (Mc 7). Il suo giogo è dolce perché solo chi accoglie la sapienza delle beatitudini può sperimentare la gioia e la pace.
Infine l’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore!” (v. 29). Forse questa affermazione ci lascia un po’ perplessi perché sembra un’autocelebrazione, meritata, certo, ma poco opportuna.
Queste parole sono tutt’altro che una vanteria!
“Imparate da me” significa semplicemente: non seguite i maestri che la fanno da padroni sulle vostre coscienze, che predicano un Dio che non sta dalla parte dei poveri, dei peccatori, degli ultimi e insegnano una religione che toglie la gioia con le sue pignolerie e assurdità.
Gesù si presenta come mite ed umile di cuore. Sono i termini che troviamo nelle beatitudini e che non indicano i timidi, i mansueti, i tranquilli, ma coloro che sono poveri e oppressi, coloro che, pur subendo ingiustizie, non ricorrono alla violenza.
A tutti questi poveri della terra Gesù dice: io sto dalla vostra parte, sono uno di voi, anch’io sono povero e rifiutato!
Il brano del vangelo di oggi è motivo di riflessione sia personale che comunitaria. Qual è il Dio in cui crediamo: è quello dei “sapienti” o quello rivelatoci da Gesù? Per chi è segno di speranza la nostra comunità: per chi è convinto di meritare i primi posti o per chi si sente indegno di varcare la soglia della chiesa?
 
Padre Fernando Armellini (biblista)