sabato 29 gennaio 2011

Beati i poveri in spirito



Mt 5,1-12a- 
 
Beati i poveri in spirito.
1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
3«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
5Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per
causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
 
In questo brano Matteo ha un’intenzione precisa: presentare Gesù come il nuovo Mosè, e il discorso di Gesù sulla montagna
come il compimento della legge del Sinai. Il suo messaggio si concentra sulla parola "beati". La beatitudine
dell’uomo povero e sofferente ha il suo fondamento in Gesù: in lui Dio ci ha già dato tutto.
Questo discorso traduce l’esperienza di Cristo, che può e deve diventare l’esperienza del cristiano. Non suggerisce le
condizioni per essere frati o suore, ma semplicemente per essere cristiani.
Gesù aveva detto al tentatore: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di
Dio" (Mt 4,4). Ora Gesù apre solennemente la bocca per dare la vita di Dio agli uomini per mezzo della sua parola.
"Beati i poveri in spirito". La povertà indica prima di tutto un atteggiamento spirituale nei confronti di Dio. I poveri in spirito
attendono ogni aiuto da Dio. L’atteggiamento richiesto dalla prima beatitudine è come quello del bambino: "Gesù chiamò
a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i
bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel
regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me’"(Mt 18,2-5). La beatitudine dei
poveri in spirito afferma in modo inequivocabile il primato della grazia, non quello delle opere.
23
Il povero in spirito è distaccato non solo dai beni materiali, che sono i meno importanti, ma anche e soprattutto dai beni
superiori dell’intelligenza e della volontà, dalle proprie idee, dal proprio modo di sentire. Libero da se stesso, dalle sue
vedute e aspirazioni umane, egli è pronto ad accogliere i beni del regno dei cieli. Questa disposizione interiore è indispensabile
per chiunque voglia mettersi al seguito di Gesù. La salvezza è una realtà troppo grande per essere compresa
dalla sola intelligenza umana. Chi pretende di ragionare troppo, e quindi a sproposito, rimane fuori da essa. Per questo,
chi non è povero non può entrare nel regno dei cieli. Questa beatitudine è la caratteristica della persona di Gesù che noi
dobbiamo imitare: "Imparate da me che sono povero e umile di cuore" (Mt 11,29).
Poveri in spirito non si nasce, ma si diventa, combattendo contro le istintive aspirazioni dei sensi, le pretese
dell’intelligenza e le incomprensioni degli altri. Il vero povero non è colui che Dio ha umiliato, ma colui che si è abbassato
con l’amore di un figlio. La vita del povero è caratterizzata dall’obbedienza, dalla sottomissione, dalla remissività,
dall’abbandono, dal silenzio. La povertà evangelica presenta l’ideale religioso e spirituale nella sua duplice relazione.
Verso Dio si esprime come umile e fedele sottomissione, verso il prossimo come pacifica e cordiale accoglienza.
"Beati gli afflitti". Gesù non è stato mandato solo per annunciare il vangelo ai poveri, ma anche a consolare gli afflitti (cfr
Is 61,2). Essi non sono tali semplicemente per le disgrazie umane e le tribolazioni che affliggono tutti, ma soprattutto a
causa delle oppressioni e delle ingiustizie subite per l’attuazione del piano di Dio. Sono afflitti perché il bene è deriso,
perché la comunità cristiana è perseguitata e oppressa, perché Dio non è conosciuto e amato.
"Beati i miti". Nell’Antico Testamento Mosè "era molto più mite di ogni uomo che è sulla terra" (Nm 12,3) e nel Nuovo
Testamento Gesù si presenta "mite e umile di cuore" (Mt 11,29; cfr. Mt 21,5). Il mite è colui che realizza in sé
l’esortazione del salmo 37,7-11: "Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti per chi ha successo, per
l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti: faresti del male, poiché i malvagi saranno sterminati,
ma chi spera nel Signore possederà la terra. Ancora un poco e l’empio scompare, cerchi il suo posto e più non lo
trovi. I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande pace". Si tratta del possesso pieno e felice della salvezza
promessa a quelli che seguono Gesù "mite e umile di cuore" (Mt 11,29).
"Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia". La giustizia è l’attuazione completa e generosa della volontà di Dio
rivelata nel vangelo di Gesù. La fame e la sete indicano il desiderio di cercare e di attuare in se stessi questo progetto di
Dio attraverso l’esercizio dell’amore (cfr. Mt 25,37). Gli affamati e gli assetati della giustizia sono coloro che hanno fatto
del compimento della volontà di Dio la massima aspirazione della propria vita, a tal punto che per loro la ricerca del piano
di Dio diventa vitale come il mangiare e il bere. La ricompensa per quelli che hanno desiderato intensamente la giustizia
di Dio è la sazietà, che significa la comunione piena e definitiva con Dio e con i fratelli.
"Beati i misericordiosi". La prima ed essenziale esigenza del regno di Dio è la misericordia attiva che ha la sua fonte e il
suo modello nell’agire di Dio: "Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6,36). L’amore misericordioso
e benevolo di Dio si manifesta principalmente in due modi: perdona i peccati e soccorre e protegge i bisognosi.
Perciò il giusto davanti a Dio lo imita nel suo agire verso il prossimo perdonando i torti ricevuti e impegnandosi a soccorrere
generosamente gli indigenti. Questa è la condizione per trovare misericordia presso Dio. Matteo presenta Gesù come
l’incarnazione della bontà compassionevole di Dio nel modo di agire e nelle scelte che ha compiuto a favore dei peccatori
e dei bisognosi (cfr. Mt 9,13; 12,7; 23,23; ecc.).
"Beati i puri di cuore". Il cuore come simbolo di interiorità spirituale e morale designa la dimensione profonda e personale
della relazione religiosa con Dio e con il prossimo in contrapposizione alla superficialità e all’esteriorità delle forme. I
puri di cuore sono coloro che sanno accettare l’insegnamento di Gesù, la persona stessa di Gesù. Questa beatitudine richiede
la piena adesione al vangelo. La visione di Dio promessa ai puri di cuore è la salvezza definitiva del paradiso dove
vedranno Dio "a faccia a faccia" (1Cor 13,12).
"Beati gli operatori di pace". Gli operatori di pace sono i continuatori dell’opera di Gesù, gli annunciatori del messaggio
della salvezza. La pace è assenza di ogni inimicizia, è presenza di grazia e di santità. Solo chi vive nella pace di Dio può
diventare strumento di pace umana. Gli apportatori della pace sono gli annunciatori del vangelo, tutti coloro che lavorano
per la venuta del regno di Dio sulla terra. Essi meritano l’appellativo di figli di Dio perché sono animati dagli stessi desideri
di salvezza e impegnati nella sua stessa opera. Solo la concordia e la riconciliazione con i fratelli rendono il culto accetto
a Dio ed efficace la preghiera della comunità (cfr. Mt 5,23-24; 18,19-20). L’impegno di fare opera di pace tra le persone è
un modo concreto di attuare l’amore del prossimo. A questi operatori di pace è promessa la realizzazione del rapporto di
piena comunione con Dio: essere riconosciuti come suoi figli.
"Beati i perseguitati". Il messaggio della salvezza è imperniato sulla croce: chi lo annuncia e chi lo riceve dev’essere disposto
a lasciarsi oltraggiare, calunniare, spogliare, crocifiggere. La sofferenza dell’innocente è un mistero di cui l’uomo
dell’Antico Testamento non ha saputo intravedere la soluzione (cfr. Sap 3,4). La beatificazione del dolore che il Nuovo
Testamento ribadisce in numerose occasioni è un paradosso che non trova la sua giustificazione nella logica umana, ma
solo nell’esempio e nell’insegnamento di Gesù. La persecuzione è l’eredità che Gesù lascia ai suoi discepoli, il segno che
autentica la loro chiamata, ma anche la via per conseguire la felicità e la gloria. Il testo tocca il messaggio centrale del
cristianesimo: la passione, morte e risurrezione di Cristo. La beatitudine e il possesso del regno dei cieli è la Pasqua di
risurrezione del cristiano, ma per potervi giungere egli deve prima, necessariamente, passare attraverso la sofferenza e
la morte. L’originalità di questa beatitudine è costituita dalle motivazioni che devono qualificare lo stile della perseveranza
cristiana: l’assimilazione interiore al destino di Cristo rifiutato e perseguitato (cfr. Mt 10,24-25) e l’adesione integra e pratica
alla volontà di Dio, concretizzata nel progetto di vita cristiana. La persecuzione dovrebbe provocare l’amarezza e
l’abbattimento, invece produce la gioia per aver sopportato le sofferenze richieste dalla propria fedeltà alla verità e a Cristo.
I fedeli sono invitati a gioire in mezzo alle persecuzioni perché in essi si compie il mistero di morte e di risurrezione
che Gesù ha realizzato per primo nella sua vita. Essi sono proclamati beati, felici, fortunati già ora in vista della piena e
definitiva felicità che è loro promessa da Dio.
Le beatitudini evangeliche hanno il loro modello e la garanzia della loro realizzazione in Gesù, il "povero e umile di cuore",
rifiutato e perseguitato dagli uomini, ma riabilitato e glorificato da Dio (cfr. At 5,31; Fil 2,9-11; ecc.).

Fernando Armellini (biblista)

sabato 22 gennaio 2011

Convertitevi!!!

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Vangelo (Mt 4,12-23)
 12 Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea 13 e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
15 Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; 16 il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata.
17 Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”.
18 Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori.
 19 E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. 20 Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. 21 Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò.22 Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono.
23 Gesù andava attorno per tutta la Galilea , insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Sono tre le parti che costituiscono il brano evangelico odierno. Anzitutto, con una citazione del profeta Isaia, viene introdotta l’attività di Gesù in Galilea (vv. 12-17); poi c’è il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (vv. 18-22); infine, in una frase, è riassunta l’attività di Gesù (v. 23).
Dopo la conclusione della missione del Battista, da Nazaret Gesù si trasferisce a Cafarnao che diviene il centro della sua attività per quasi tre anni.
Cafarnao era un villaggio di pescatori e agricoltori che si estendeva per circa trecento metri lungo la riva occidentale del lago di Genesaret. Non era rinomato come la città di Tiberiade – dove risiedeva il tetrarca Erode Antipa – o come la ricca e prospera Magdala, famosa per le sue fiorenti industrie del pesce salato e della tintoria; tuttavia godeva di un certo prestigio: si trovava lungo la “Via del mare” – la celebre strada imperiale che dall’Egitto e passando per Damasco conduceva in Mesopotamia – e segnava il confine fra la Galilea e il Golan che apparteneva a Filippo (un altro figlio di Erode il grande). Era un luogo di frontiera, con una dogana dove veniva riscosso il dazio su tutte le mercanzie.
Matteo non si limita ad annotare il cambiamento di residenza di Gesù, accompagna l’informazione con il richiamo a un testo della Scrittura. Per comprenderne il significato va tenuto presente che la Galilea era abitata da israeliti considerati da tutti come dei semi-pagani, perché nati dall’incrocio di vari popoli. I giudei di Gerusalemme li disprezzavano perché li ritenevano poco istruiti, ignoranti della legge, corrotti nei costumi e poco osservanti delle disposizioni rabbiniche. Erano guardati con diffidenza anche a causa delle loro tendenze sovversive in campo politico (furono dei galilei a dare inizio al movimento zelota, responsabile delle sanguinose rivolte contro l’impero romano).
In questa regione situata ai margini della terra santa, in questa “Galilea dei pagani” (v. 15), Gesù inizia la sua missione e, con questa sua scelta, indica chi sono i primi destinatari della sua luce: non i giudei puri, ma gli esclusi, i lontani.
Ammirato di fronte alla fede del centurione – il capo del distaccamento di soldati romani che risiedevano a Cafarnao – un giorno esclamerà: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8,10-11). Anche ai sommi sacerdoti e agli anziani farà notare il sorprendente capovolgimento: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31).
Il cambiamento di residenza – fatto in sé abbastanza banale – è stato letto da Matteo nel suo significato teologico, come l’adempimento della profezia di Isaia: “Il popolo immerso nelle tenebre vide una grande luce; su quelli che abitavano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (v. 16). Con l’inizio dell’attività pubblica di Gesù, fra i monti della Galilea è brillata l’aurora del nuovo giorno, è sorta la luce di cui parlava il profeta.
L’ultimo versetto di questa prima parte presenta il proclama di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (v. 17).
Convertirsi non equivale a “diventare un po’ migliori, pregare meglio, fare qualche opera buona in più”, ma “cambiare radicalmente modo di pensare e di agire”. Chi ha coltivato progetti di morte deve aprirsi a scelte di vita, chi si è mosso nelle tenebre deve volgersi verso la luce. Solo se si è disposti a operare questo cambiamento si può entrare nel regno dei cieli (non in paradiso, ma nella condizione nuova di chi ha scelto di giocarsi la vita sulla parola di Cristo).

Nella seconda parte del brano è raccontata la vocazione dei primi quattro discepoli.
Non è il resoconto della chiamata dei primi apostoli (i quattro evangelisti narrano il fatto in modo assai diverso l’uno dall’altro), ma è un brano di catechesi che vuole far comprendere cosa comporta per il discepolo dire sì a Cristo che invita a seguirlo. È un esempio, un’illustrazione di cosa significhi convertirsi.
Va notata anzitutto l’insistenza sui verbi di movimento. Gesù non si ferma un istante: “Camminava lungo il mare… Andando oltre… Percorreva tutta la Galilea ” (vv. 18.21.23).
Chi è chiamato deve rendersi conto che non gli sarà concesso alcun riposo, che non ci sarà alcuna sosta lungo il cammino. Gesù vuole essere seguito giorno e notte e per tutta la vita, non ci sono momenti in cui si è dispensati dagli impegni assunti.
La risposta poi dev’essere pronta e generosa come quella di Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo che “subito, lasciate le reti, la barca e il padre lo seguirono” (vv. 20.22).
L’abbandono del proprio padre non va frainteso. Non significa che chi diviene cristiano (o sceglie la vita religiosa e consacrata) si deve disinteressare dei propri genitori. Nel popolo giudaico il padre era il simbolo del legame con gli antenati, dell’attaccamento alla tradizione. È questa dipendenza dal passato che deve essere rotta, quando costituisce un impedimento ad accogliere la novità del vangelo. La storia, le tradizioni, la cultura di ogni popolo devono essere rispettate e valorizzate. Tuttavia, sappiamo che non tutti gli usi, i costumi, gli stili di vita tramandati sono conciliabili con il messaggio di Cristo.
La richiesta di Gesù fa riferimento alla scelta drammatica che i primi cristiani erano chiamati a fare: se sceglievano di divenire discepoli venivano rifiutati dalla famiglia, misconosciuti dai genitori, espulsi dalle sinagoghe ed esclusi dal loro popolo.
Anche oggi per qualcuno potrebbe ripresentarsi l’ineludibile alternativa fra l’amore per “il padre” e la scelta di Cristo. Basti pensare a cosa comporta per un musulmano, per un giudeo, per un pagano, per un buddista l’adesione al cristianesimo.
Per tutti comunque, lasciare il padre implica l’abbandono di tutto ciò che è incompatibile con il vangelo.
All’invito a seguirlo, Gesù aggiunge l’incarico: “Vi farò pescatori di uomini” (v. l9).
L’immagine è presa dall’attività svolta dai primi apostoli. Non stavano pescando con l’amo, ma con la rete e la loro opera consisteva nel tirar fuori dal mare (così è chiamato – in modo improprio – il lago di Galilea) i pesci.
Ora, nel simbolismo biblico, il mare era la dimora del demonio, delle malattie e di tutto ciò che si oppone alla vita. Era profondo, oscuro, pericoloso, misterioso, terribile. Nel mare vivevano i mostri e in esso, anche i più abili marinai non si sentivano sicuri.
Pescare uomini significa tirarli fuori dalla condizione di morte in cui si trovano, vuol dire sottrarli alle forze del male che, come acque impetuose, li dominano, li travolgono e li sommergono.
Il discepolo di Cristo non teme le onde e coraggiosamente le affronta, anche quando sono impetuose. Non dispera di salvare un fratello, anche se questi si trova in situazioni umanamente disperate: è schiavo della droga, dell’alcool, delle passioni sfrenate, del suo carattere irascibile, aggressivo, intrattabile... Non c’è alcuna situazione che non possa essere ricuperata dal discepolo di Cristo.
La terza parte (v. 23) riassume con tre verbi ciò che Gesù compie in favore degli uomini:insegna, quindi è luce per ogni uomo; predica la buona Novella, cioè annuncia a tutti una parola di speranza, assicura che l’amore di Dio è più forte del male dell’uomo e cura i malati. Non si limita a proclamare la salvezza, ma la realizza con gesti concreti, mostrando ai discepoli cosa sono chiamati a fare: devono creare, attraverso l’annuncio del vangelo, uomini nuovi, una società nuova, un mondo nuovo.
Fernando Armellini (biblista) 

sabato 15 gennaio 2011

Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!




Vangelo (Gv 1,29-34)
 29 Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! 30 Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. 31 Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele”.
32 Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui.
33 Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo.
34 E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio”.

I tre vangeli sinottici iniziano il racconto della vita pubblica di Gesù ricordando il suo battesimo. Giovanni ignora questo episodio, tuttavia dedica un ampio spazio al Battista. Lo inquadra, fin dai primi versetti, in una prospettiva originale: più che come precursore, lo presenta come “l’uomo mandato da Dio a rendere testimonianza alla luce” (Gv 1,6-8). La sua vita e la sua predicazione suscitano interrogativi, attese e speranze nel popolo, circola addirittura la voce che sia lui il messia. Una delegazione di sacerdoti e leviti va al di là del Giordano per interrogarlo, per avere delucidazioni sulla sua identità e sulla sua opera. Egli risponde: “Io non sono il Cristo… Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (Gv 1,19-28).
È in questo contesto che si inserisce il nostro brano.

Entra in scena il protagonista – Gesù – da poco evocato dal Battista nel dibattito che ha avuto con gli inviati dei giudei. Al vederlo venire verso di lui esclama: “Eccol’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (v. 29).
È un’affermazione che – come vedremo – è densa di significati e di evocazioni bibliche.
Il Battista mostra di avere intuito l’identità, da tutti ancora ignorata, di Gesù. Com’è giunto a scoprirla e perché lo definisce con un’immagine tanto singolare? Mai nell’AT una persona è stata chiamata “agnello di Dio”. L’espressione segna il punto di arrivo del suo lungo e certamente faticoso cammino spirituale; è partito, infatti, dall’ignoranza più completa: “Io non lo conoscevo” – ripete per due volte (vv. 31.33).
Chiunque voglia giungere “alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil 3,8) deve cominciare a prendere coscienza della propria ignoranza.

È strana – dicevamo – l’immagine dell’agnello di Dio. Il Battista ne aveva a disposizione altre: pastore, re, giudice severo. Quest’ultima l’ha anche impiegata: “Viene uno più forte di me… Ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile” (Lc 3,16-17). Ma – nella sua mente – nessuna riassumeva la sua scoperta dell’identità di Gesù meglio di quella dell’agnello di Dio.
Educato probabilmente fra i monaci esseni di Qumran, aveva assimilato la spiritualità del suo popolo, ne conosceva la storia e aveva dimestichezza con le Scritture. Pio israelita, sapeva che i suoi ascoltatori, sentendolo accennare all’agnello, avrebbero immediatamente intuito l’allusione all’agnello pasquale il cui sangue, posto sugli stipiti delle case, in Egitto aveva risparmiato i loro padri dall’eccidio dell’angelo sterminatore. Il Battista ha intravisto il destino di Gesù: un giorno sarebbe stato immolato, come agnello, e il suo sangue avrebbe tolto alle forze del male la capacità di nuocere; il suo sacrificio avrebbe liberato l’uomo dal peccato e dalla morte. Notando che Gesù è stato condannato a mezzogiorno della vigilia di pasqua (Gv 19,14), l’evangelista Giovanni ha certamente voluto richiamare questo stesso simbolismo. Era infatti quella l’ora in cui, nel tempio, i sacerdoti cominciavano a immolare gli agnelli.
C’è una seconda allusione nelle parole del Battista.
Chi ha presente le profezie contenute nel libro di Isaia – e ogni israelita le conosceva molto bene – non può non percepire il richiamo alla fine ignominiosa del Servo del Signore del quale abbiamo sentito parlare anche nella prima lettura di oggi. Ecco come il profeta descrive il suo incamminarsi verso la morte: “Era come agnellocondotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori… è stato annoverato fra gli empi, mentre invece portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,7.12).
In questo testo, l’immagine dell’agnello è collegata alla distruzione del peccato.
Gesù – intendeva dire il Battista – si farà carico di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutte le iniquità degli uomini e, con la sua mitezza, con il dono della sua vita, le annienterà. Non eliminerà il male concedendo una specie di amnistia, un condono, una sanatoria; lo vincerà introducendo nel mondo un dinamismo nuovo, una forza irresistibile – il suo Spirito – che porterà gli uomini al bene e alla vita.
Il Battista ha in mente un terzo richiamo biblico: l’agnello è associato anche al sacrificio di Abramo.
Isacco, mentre cammina a fianco del padre verso il monte di Moria, chiede: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l’agnello” (Gn 22,7-8).
“Eccolo l’agnello di Dio!” – risponde ora il Battista – è Gesù, donato da Dio al mondo perché sia sacrificato in sostituzione dell’uomo peccatore meritevole di castigo.
Anche i dettagli del racconto della Genesi (Gn 22,1-18) sono ben noti e il Battista intende applicarli a Gesù. Come Isacco, egli è il figlio unicoil benamato, colui cheporta la legna dirigendosi al luogo del sacrificio. A lui si adattano anche i particolari aggiunti dai rabbini. Isacco – dicevano questi – si era offerto spontaneamente; invece di fuggire, si era consegnato al padre per essere legato sull’altare. Anche Gesù ha donato liberamente la sua vita per amore.
A questo punto viene da chiedersi se davvero il Battista avesse presenti tutti questi richiami biblici quando, per due volte, rivolto a Gesù, ha dichiarato: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,29.36).
Lui forse no, ma certamente li aveva presenti l’evangelista Giovanni che intendeva offrire una catechesi ai cristiani delle sue comunità e a noi.

Nella seconda parte del brano (vv. 32-34) viene presentata la testimonianza del Battista: egli riconosce come “Figlio di Dio” colui sul quale ha visto scendere e rimanere lo Spirito. Il riferimento è alla scena del battesimo narrata dai sinottici (Mc 1,9-11). Giovanni introduce però un particolare significativo: lo Spirito non solo è visto discendere su Gesù, ma rimanere in lui.
Nell’AT si parla spesso dello spirito di Dio che prende possesso degli uomini conferendo loro forza, determinazione, coraggio, tanto da renderli irresistibili. Si parla di una sua discesa sui profeti che vengono abilitati a parlare in nome di Dio; ma la caratteristica di questo spirito è la sua provvisorietà: permane in queste persone privilegiate fino a quando hanno portato a termine la loro missione, poi le lascia ed esse ritornano normali, svanisce ogni loro abilità, intelligenza, sapienza, forza superiore. In Gesù invece lo Spirito rimane in modo duraturo, stabile. La stabilità nella Bibbia è attribuita soltanto a Dio: solo lui è “il vivente che rimane in eterno” (Dn 6,27); solo la sua parola “rimane in eterno” ( 1 Pt 1,25).
Attraverso Gesù lo Spirito è entrato nel mondo. Nessuna forza avversa lo potrà mai scacciare o vincere e da lui sarà effuso su ogni uomo. È il battesimo “in Spirito Santo” annunciato dal Battista (v. 33). Uniti intimamente a Cristo, come tralci a una vite rigogliosa e piena di linfa, i credenti porteranno frutti abbondanti (Gv 15,5), dimoreranno in Dio e Dio in loro (1 Gv 4,16), riceveranno la stabilità nel bene che è propria di Dio, perché, mentre “il mondo passa con la sua concupiscenza, chi fa la volontà di Dio rimane saldo in eterno” (1 Gv 2,17).
È questo il messaggio di speranza e di gioia che, attraverso il Battista, Giovanni, fin dalla prima pagina del suo vangelo, vuole annunciare ai discepoli. Nonostante l’evidente strapotere del male nel mondo, ciò che attende l’umanità è la comunione di vita “col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. Queste cose – dice Giovanni – le scrivo “perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,3-4).
Fernando Armellini (biblista)