giovedì 29 aprile 2010

Fratelli amatevi gli uni gli altri


Omelia del giorno 2 Maggio 2010

V Domenica di Pasqua (Anno C)

Fratelli amatevi gli uni gli altri

Credo sia bello ricordare a tutti i miei cari lettori, che con me seguono Gesù, guidati dalla Sua Parola, che il mese di Maggio si veste della dolcezza della devozione a Maria SS.ma, la Mamma che Gesù ci ha dato. Tutti ne sentiamo il fascino. Basta essere a Lourdes o Fatima in un pellegrinaggio, per commuoversi nel vedere come ci si affidi a Lei, tutti, a cominciare dai nostri fratelli infermi.

È davvero una grande commozione, non solo, ma è come se ci aprisse il cuore al desiderio del Cielo.

E tanti di noi portano con sé il S. Rosario, come compagnia della vita, contemplando la vita di Gesù e di Maria ogni giorno.

Nella grande processione della sera, con le lampade accese, al canto 'andrò a vederla un dì' nasce davvero il desiderio di uscire dalla tristezza della nostra ferialità, per andare con Lei nella gioia senza fine del Cielo. Nostalgia di Mamma.

Non lasciamola cadere nel vuoto questa nostalgia, ma conserviamola.

Così come è rassicurante scoprire che lì ci sentiamo 'una cosa sola' e ci si ama tanto, uniti dallo stesso amore a Dio e a Maria SS.ma. Ed è l'atteggiamento a cui ci esorta il Vangelo di oggi:

"Quando Giuda fu uscito dal cenacolo Gesù disse:

`Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in Lui.

Se Dio è stato glorificato in Lui, anche Dio Lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Fratelli, ancora un poco sono con voi. VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO, CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI, COME IO VI HO AMATO, COSÌ AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI. DA QUESTO SAPRANNO CHE SIETE MIEI DISCEPOLI, SE AVRETE AMORE GLI UNI PER GLI ALTRI". (Gv. 13, 31-35)

È il grande testamento che Gesù ha consegnato alla Chiesa; il comandamento che distingue il cristiano dal mondo dominato dalla superbia, che porta non solo a isolarci in noi stessi, a essere indifferenti verso chi ci sta vicino, come non esistesse, ma anche a fargli del male, per prevalere su di lui. E in questi modi non solo è come se si cancellasse la presenza del fratello, ma si rischia di cancellare l'amore di Dio.

La sentiamo tutti questa tristezza di vivere in una famiglia, in una società, come non vivessimo... quando per natura siamo portati a riconoscerci e fare dono del nostro amore sempre. È la grande tristezza del nostro tempo, così come vivere, sapendo di trovare in tutti amici pronti ad offrire, è dare alla vita quella gioia che è 'pane della vita'.

La scorsa domenica, se ricordate, Gesù, parlando soprattutto di noi sacerdoti, ma potremmo dire la stessa cosa di una mamma, di un papà, dei nonni, e di chi ha responsabilità. Portava l'esempio del buon pastore, che vigila con amore sul gregge, al punto che se una 'pecorella' si perde, non esita a mettersi alla ricerca, finchè la ritrova. E ritrovatala se la mette sulle spalle e invita a fare festa.

Così dovrebbe essere per tutti noi, qualunque sia il ruolo che copriamo, nei confronti di ogni nostro fratello. Ciò che fa strada nel cuore di tutti è l'amore che si dona. Come è stato per noi l'amore di mamma, papà, dei nostri sacerdoti, insegnanti, tutti.

C'era un tempo, di povertà, in cui regnava solidarietà, amicizia, aiuto vicendevole, ma molto di questi valori, sembra spazzato via dall'egoismo del benessere che, per fare posto nel cure a cose senza vita, non fa più posto all'amore. Peccato, perché ne soffriamo tutti.

Rimane lì, come regola fondamentale, il richiamo urgente di Gesù:

'AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI, COME 10 HO AMATO VOI".

Così Paolo VI rivolgeva un giorno le sue esortazioni, parlando in un 'oratorio':

"Grande voi lo sapete è la vostra missione - parlando ai sacerdoti. Voi avete la custodia del campo pastorale, più bello, più delicata, i giovani. Voi esercitate la funzione più assidua, più umana, più feconda del sacro ministero, quella pedagogica. Voi siete in contatto più continuo e più diretto con anime di cui potete avere tutta la filiale confidenza, la completa fiducia. Voi potete indovinare nell'istintiva sensibilità delle anime giovanili i problemi vivi e nuovi del nostro nuovo mondo moderno. Voi potete dare alla professione cristiana, nel cuore delle crescenti generazioni, un'espressione nuova, forte, autentica. Voi avete in mano l'avvenire delle famiglie, della parrocchia, della società. Potete fare del vostro ministero una palestra di esperienze spirituali, una rete di amicizie, un sacrificio giocondo. Voi siete Gesù fanciullo, Gesù adolescente, Gesù operaio, Gesù maestro, Gesù modello in mezzo alla nostra gente e alla gioventù.

Questo lo sapete. E sapete quanto la Chiesa attende da voi, energia mai stanca, letizia pura, lavoro indefesso, paziente, senza gloria e pieno di meriti.

Coraggio, quindi, mettete riflessione, mettete impegno, impegno, impegno."

Una delle mie preoccupazioni pastorali, sia come parroco nel Belice, sia come vescovo, era quella di amare con tutte le forze, non badando alle difficoltà, chi il Signore mi consegnava da amare.

Tanto che un giorno, ai fedeli che si chiedevano la ragione di quanto facevo, durante una Messa festiva, sentii il bisogno di esplicitarla: 'Tutto quello che faccio ha una sola ragione, quella di amarvi con tutte le forze, perché so che per noi sacerdoti, e potrei dire per tutti, per ciascuno di voi, il sale della gioia è l'amore'. Era come se avessi dato sfogo al cuore e mi venne da piangere, tanto che, non riuscendo a frenarmi, mi riaccompagnarono nella mia baracca.

Lo stesso mi fu chiesto da vescovo. Vedendomi impegnato con tutte le forze su tutti i fronti, compresa la guerra alla malavita, tanti si chiedevano la ragione: 'E' solo perché so che il cuore della gente si lascia condurre dall'amore e per noi pastori amare con tutte le forze, in nome e con la grazia di Dio, come fece Gesù, è la sola strada da percorrere'.

E non c'è opera più grande nelle famiglie, nelle parrocchie, nella società, che l'amore dato.

Così come nella Chiesa è il compito primario nella costruzione della comunità, come è descritto negli Atti degli Apostoli:

"Molti ascoltavano con assiduità l'insegnamento degli Apostoli, vivevano insieme fraternamente, partecipavano alla mensa del Signore e pregavano insieme. Dio faceva molti miracoli e prodigi per mezzo degli Apostoli. Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Lodavano Dio ed erano ben visti da tutta la gente. Di giorno in giorno il Signore faceva crescere il numero di quelli che giungevano alla salvezza". (At. 2, 42-46)

Paolo VI, reduce da un Congresso eucaristico, tenuto a Bombey, così proclamava l'urgenza del vivere come fratelli in comunità:

"Il progresso civile viene scoprendo come esigenza, come conquista, ciò che Cristo, fattosi uomo come noi e nostro Maestro, già .,ci aveva insegnato dalle pagine, ma non pienamente comprese, non ancora universalmente applicate, del Suo Vangelo: 'Voi siete tutti fratelli', cioè uguali, solidali, cioè obbligati a riconoscere che in ciascuno di voi è riflessa l'immagine dello stesso Padre celeste... Oggi la fratellanza si impone, l'amicizia è il principio di ogni moderna convivenza umana.

Invece dí vedere nel nostro simile l'estraneo, il rivale, l'antipatico, l'avversario, il nemico, dobbiamo abituarci a vedere l'uomo, che vuoi dire un essere pari al nostro, degno di rispetto, stima, assistenza, amore, come a noi stessi.

Ritorna a risuonare nel nostro spirito la stupenda parola di un santo dottore africano: 'che i confini dell'amico sì allarghino'. Bisogna che cadano le barriere dell'egoismo e che l'affermazione di legittimi interessi personali non sia mai offesa per gli altri".

Si dovrebbe a questo punto pregare e sognare che avvenga oggi quanto Giovanni l'apostolo scrive nell'Apocalisse: "Ecco la dimora di Dio tra gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo, ed egli sarà Dio-con-loro' e tergerà ogni lacrima dai loro occhi". (Apocalisse 21, 1-5) Ogni volta scrivo le riflessioni sul Vangelo, che poi arrivano a voi, ciò che mi anima e mi accompagna è il grande amore che vuole solo trasmettere Amore, quello di Dio, in modo che non vi sentiate soli. E i tanti 'grazie', che poi mi arrivano dalle vostre e-mail, sono un racconto di amicizia. Grazie a voi!

E con don Tonino Bello, prego che non siate mai vittime della solitudine, invocando la Madonna così: "Mettiti accanto a noi e ascoltaci, mentre confidiamo le nostre ansie quotidiane, che assillano la nostra vita moderna:

la paura di non farcela, la solitudine interiore, l'instabilità degli affetti,

l'educazione difficile dei figli, l'incomunicabilità persino con i più cari.

Ritorna, Maria, in mezzo a noi, e offri l'edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane, che ti hanno resa grande agli occhi di Dio."

Antonio Riboldi – Vescovo

domenica 25 aprile 2010

Siamo pecorelle di Gesù, e dobbiamo andare dietro a Lui con grande docilità.

Siamo pecorelle di Gesù, e dobbiamo andare dietro a Lui con grande docilità.



Domenica 25 aprile 2010 IV Domenica di Pasqua An
no
C


† Dal Vangelo secondo San Giovanni Gv 10,27-30


In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
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Gesù proclama la sua divinità alla festa della dedicazione, e i Giudei irrompono contro di Lui per lapidarlo

La festa della Dedicazione del tempio era stata istituita da Giuda Maccabeo, in memoria della purificazione del tempio fatta dopo le profanazioni del luogo santo consumate da Antioco Epifane. Essa cominciava il 25 del nono mese, detto Casleu, novembre-dicembre, e durava otto giorni. Si chiamava anche festa dei lumi, per le illuminazioni che si solevano fare in quella circostanza.

Gesù camminava sotto il portico di Salomone. Questo portico, risparmiato dai Caldei nella distruzione di Gerusalemme, sorgeva al lato orientale dell’atrio dei pagani, e Gesù vi passeggiava pregando, con lo sguardo al Padre, in un atteggiamento pensoso e raccolto che dovette impressionare i Giudei, divisi com’erano da una doppia tendenza, e incerti sul modo come dovevano riguardare Gesù. Si affollarono perciò intorno a Lui e gli domandarono: Fino a quando terrai sospesa l’anima nostra? Se tu sei il Cristo diccelo apertamente.

Probabilmente non gli fecero questa domanda insidiosamente per avere occasione di condannarlo, perché non gli chiesero se fosse il Figlio di Dio, ma se fosse il Cristo. Essi, però, non si accorgevano di non avere l’anima disposta a sentire la verità, anzi molti di loro avrebbero inconsciamente desiderato che Egli avesse risposto come il Battista: Non sono io il Cristo. C’è, a volte, nelle domande che si fanno, una strana psicologia; s’interroga con la risposta già formulata, si chiede più per sentir confermato quello che si pensa che per essere veramente consigliati; si è certi che non ci si può rispondere diversamente. Gesù Cristo, che conosceva bene il cuore dei suoi interlocutori, rispose: Ve lo dico e voi non credete; ve lo dico con le parole e ve lo dico anche con le opere, poiché le opere che compio nel nome del Padre mio, queste rendono testimonianza di me. Già sapete, dunque, quale risposta io posso dare alla vostra domanda, ma voi non la intendete perché non siete delle mie pecorelle.

Le mie pecorelle ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi vengono dietro; io do loro la vita eterna, esse non periranno in eterno, e nessuno me le strapperà di mano. Gesù Cristo non voleva dire che essi erano impossibilitati a credere quasi per un destino ineluttabile ma che non essendo sue pecorelle cioè, non seguendolo con amore e col desiderio d’essere guidati, illuminati e pascolati da Lui, non intendevano le sue parole e non davano peso o significato ai suoi miracoli. Egli li aveva chiamati, li voleva come sue pecorelle, ardeva dal desiderio di averli, ma essi si rifiutavano di seguirlo, e quindi rendevano impossibile in loro la penetrazione e la luce della verità. Se l’avessero seguito come sue pecorelle, avrebbero capito le sue parole, e inteso il significato dei suoi miracoli, sarebbero stati in comunione con Lui e avrebbero avuto la bella speranza della salvezza eterna.

Gli scribi e farisei cercavano, in realtà, non di sapere la verità, ma di strappargli le anime, mettendole in imbarazzo, e presumendo di disingannarle, poi, con le stesse sue parole; perciò Gesù, in un impeto d’amore, quasi serrandosi al Cuore le sue pecorelle fedeli, disse: Nessuno me le strapperà di mano. Quando esse vengono a me, io le nutro e le sostento con la grazia che il Padre mio mi ha data, e questa incomparabile ricchezza sorpassa ogni cosa, è superiore a qualunque insidia e a qualunque forza umana o diabolica. Nessuno potrà rapire le anime dalle mani del Padre mio e dalle mie mani, poiché io e il Padre siamo una sola cosa.

Dicendo questo, il Redentore rispose anche alla domanda che gli era stata fatta; Egli non solo era il Cristo che veniva a salvare le anime, ma era il Figlio di Dio, una cosa col Padre, consustanziale a Lui, e veramente distinto da Lui: Io e il Padre, siamo una sola cosa.

Quanto è difficile vivere nel mondo e conversare con le creature!...

Siamo pecorelle di Gesù, e dobbiamo andare dietro a Lui con grande docilità. È un titolo di sommo onore e un’immensa grazia. Che c’importa del mondo? Non ci accorgiamo che la vita sfugge e che il mondo non è nostra eredità? Ci siamo per morirvi, e possiamo dire che esso è la nostra bara che si forma quasi a strati a strati con gli anni della nostra vita. Ogni giorno vi aggiunge una particella, e l’ultimo giorno della vita la trova completa. Ora, chi si attaccherebbe alla sua bara?

Andiamo dietro a Gesù, buon Pastore, vita e risurrezione nostra; ogni giorno passato con Lui ci prepara alla vita eterna e alla risurrezione, ogni comunione con Lui è un contatto d’immortalità, ogni conversazione con Lui è un’inondazione di luce e di grazia per noi, poiché Egli solo è la Via, la Verità e la Vita. Vivendo con Gesù e di Gesù saremo certi di vivere un giorno nell’eterna gioia, poiché nessuno potrà strapparci da Lui.

Solo Gesù c’intende e si fa intendere da noi...

È tanto difficile vivere nel mondo e conversare con le creature; è tanto arduo intendersi e farsi intendere; occorre una continua vigilanza e molta prudenza per non generare, anche con le persone più care, incidenti spiacevoli, e si vive quasi palpitando di angosciosa incertezza.

Gli angoli del mondo che crediamo illuminati dalla scienza e dall’arte, ahimè, da lontano affascinano, ma da vicino sono pieni di nebbia, e soffocanti per la polvere della materia che vi si leva. Solo i pascoli di Gesù sono tranquilli e luminosi, solo Egli c’intende e si fa intendere, solo il suo amore ci appaga e ci sazia. Andiamo dunque da Lui, e riposiamoci sotto la sua guida nel suo campo ubertoso, la Chiesa, per godere la tranquillità e la pace amandolo, la felicità e la gloria raggiungendolo nell’eternità.

Nel mondo cerchiamo invano la compagnia; siamo soli, dobbiamo essere soli, e possiamo dire che il bilancio di ciascuna giornata passata a contatto con le creature, siano anche le più buone e care, è questo solo: Gesù, tu solo m’intendi, solo con te non ci sono equivoci e malintesi, Tu solo sei buono, solo Tu mi sazi e mi consoli, solo Tu sei il mio amore e la mia meta, e solo tua pecorella io voglio essere.

Ogni giorno che passa m’induce, per esperienze penose, a ridurre le mie parole, la mia franchezza, le mie espansioni con le creature; ogni giorno mi accorgo che cammino fra le spine e capisco che Tu ci vuoi solo e tutti per te, perché Tu solo puoi saziarci d’amore e di pace nei tuoi pascoli
Servo di Dio Don. Dolindo Ruotolo

sabato 17 aprile 2010

Pascola i miei piccoli agnelli, prendi cura del mio gregge, pascola le mie pecore madri


Domenica 18 aprile 2010

III Domenica di Pasqua Anno C

San Galdino

Gv 21,1-19

Dal Vangelo secondo San Giovanni

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Dio opera e ci parla attraverso gli umani eventi

L’episodio raccontato in questo capitolo da san Giovanni, non è semplicemente una manifestazione di Gesù, ma ha un significato profondo. Gli apostoli agirono con semplicità e spontaneamente, e non supposero, allora, che in quel fatto ci fosse un mistero, ma il mistero lo esprimeva il Signore, e non era necessario che essi allora lo capissero. Questo ci mostra, ancora una volta, come Dio opera e ci parla attraverso gli eventi umani, e attraverso di essi ci istruisce.

Il Signore si mostra infinitamente buono con i suoi apostoli e nelle angustie della loro vita temporale, va loro incontro, li consola con una pesca miracolosa, prepara Egli stesso loro il desinare con un altro miracolo ma, in tutto questo, Egli ha di mira un beneficio immensamente più grande, e guarda nei secoli lo sviluppo dell’attività della sua Chiesa. Gli apostoli stessi non si accorgono di rappresentare quello che Egli vuole significare, e di esprimere, nelle loro attività, quello che Egli vuol dire. È un mistero profondo: Pietro dice ai suoi compagni: Vado a pescare; dopo la pesca miracolosa va per primo incontro a Gesù, e tira lui, a riva, la rete. Era il capo degli apostoli, il primo capo della Chiesa e, senza pensarlo, prendeva lui l’iniziativa e la direzione di quella pesca che figurava l’apostolato nel mondo e nei secoli.

Pescò di notte e non prese nulla; pescò dopo che Gesù ebbe parlato, e improvvisamente la rete si riempì di pesci. Questo indicava che, con le forze naturali, non possono prendersi le anime, e che la Chiesa non può gettare la rete che nel nome e sulla parola di Gesù.

Ecco un momento di tribolazione e di prova: la Chiesa si trova in un periodo di povertà spirituale, getta le reti e non prende più anime nel mondo; il Papa è quasi ridotto all’inerzia dalla notte profonda che incombe sulle nazioni. Gesù sta sulla riva e chiama, vi sta solo e sconosciuto. Ha l’apparenza di un bisognoso e di un affamato, domanda da mangiare e non può avere nulla. Egli, allora, con grazie particolari, fa gettare di nuovo la rete ai suoi nuovi apostoli, e in modo speciale al Papa, e la rete si riempie di anime. È riconosciuto prima dall’amore, da Giovanni, cioè dalle anime predilette alle quali si rivela e si dona; poi da Pietro, cioè dalla Chiesa ufficialmente, e la Chiesa corre a Lui per avere la vita. Corre e trova già il pranzo spirituale, il cibo dell’amore, figurato nel pesce arrostito e nel pane, preparati da Gesù. A questo dono di vita aggiunge ciò che essa può dare, i tesori che trova nel suo mare alla parola di Gesù, rendendo ufficiale l’abbondanza del dono della vita, moltiplicato da Gesù per un miracolo d’amore.

Quando Pietro tirò in secco la rete vi trovò centocinquantatré grossi pesci. Perché questo numero preciso? Per esprimere un mistero d’amore: in quei tempi si conoscevano precisamente centocinquantatré specie principali di pesci, come attestano gli antichi naturalisti tra i quali Oppiano; in quei centocinquantatré pesci, adattandosi all’idea comune, Gesù volle quasi rappresentare tutte le specie dei pesci, per indicare che nella rete della Chiesa sarebbero stati raccolti gli uomini di ogni stirpe e di ogni condizione. È l’epilogo finale della storia dell’apostolato che culminerà nella chiamata effettiva di tutti alla fede e nell’unico ovile sotto un solo Pastore. Gesù Cristo, infatti, dopo la pesca misteriosa e il banchetto preparato dal suo amore, si rivolse a Pietro, dandogli precisamente il mandato di supremo Pastore delle anime, come subito vedremo.

I popoli, affascinati da nuove correnti di male, non sono più orientati alla Chiesa

Noi ci troviamo già all’alba del regno di Dio, figurato dalla pesca miracolosa, e culminante nel banchetto d’amore, preparato da Gesù stesso. Il primo banchetto, quello della cena, lo preparano gli apostoli; il secondo, quello della piena abbondanza, lo prepara Gesù.

È notte: notte di orrori, di agitazioni, di guerre, e la Chiesa invano getta le reti; i popoli non l’ascoltano più, il mondo non se ne cura.

Il papato attrae su di sé l’attenzione universale in due soli momenti: quando un Papa muore e un altro ne è eletto; una curiosità come le altre. Per il resto, il mondo ignora il Papa o, peggio, lo combatte. Anche quando finge di stare in armonia con lui, lo fa nel proprio tornaconto e lo tiene sempre al guinzaglio.

Noi spesso ci consoliamo di certi momenti di apostolato, e facciamo le statistiche del bene, senza fare quelle del male; riposiamo in un ottimismo che addormenta.

In realtà, i popoli non sono più orientati alla Chiesa nella loro vita, e sono trascinati da nuove correnti di male. Gesù, però, non abbandona le anime e, mentre la Chiesa lavora, in apparenza inutilmente, nella notte della sua grande tribolazione, Egli le va incontro con grazie particolarissime, domanda agli affannati apostoli se abbiano da mangiare, perché il segreto della riuscita nell’apostolato è sempre il Cibo della vita; lo prepara quasi in modo nuovo Egli stesso, accendendo nelle anime un nuovo fuoco d’amore e, mentre Egli lo prepara in silenzio, la rete di Pietro si riempie di centocinquantatré grossi pesci, cioè la Chiesa raccoglie, nel suo grembo, ogni specie di gente, senza stupidi pregiudizi di razza, di nazionalità o di partito, e forma dei popoli, per il banchetto dell’amore, un solo ovile sotto un solo Pastore.

Noi assistiamo già ai primi albori di questo miracolo d’amore: la parola della verità incomincia a farsi strada, e Gesù, nel silenzio dell’amore, lavora sulla riva, cioè in quelle anime che gli danno con l’oblazione di se stesse il modo di accendere il nuovo fuoco di eucaristico Amore che deve divampare nel mondo.

Per un certo tempo, verso la metà del secolo scorso, si credé che l’apologetica potesse salvare le anime, e si discusse animatamente su tutti gli errori, quasi si sperasse raccogliere le anime nella notte. Ma non si prese nulla, e spesso l’apologetica fuori posto propagandò l’errore fra le masse ignare. L’apologetica fece dimenticare di dover far ricorso alla grazia di Dio; sembrò una trovata infallibile, ed era fondata sulle forze naturali: All’apologetica successe lo scientificismo, tentativo balordo di ridurre la fede ad una costruzione affascinante per... serietà di ricerche, di documentazioni, e di naturalismo. Lo scientificismo fu ed è eresia di modernismo che avvelena ogni fonte soprannaturale. Ecco, Gesù viene improvvisamente, parla, fa gettare di nuovo la rete, prepara il Banchetto eucaristico più abbondante, e raccoglie così le genti nella Chiesa, sotto il pastorale comando del Papa. È quello che avviene sulla riva deserta dove sono sette anime, le anime privilegiate che seguono Gesù per preparare il suo regno.

«Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?»

Dopo che gli apostoli si furono rifocillati insieme a Gesù sulla riva deserta, Gesù, rivolto a Pietro lo interrogò, dicendo: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi? Pietro rispose umilmente, rimettendosi questa volta al giudizio stesso del Maestro divino: Certamente, Signore tu sai che io ti amo.

Prima della Passione, nella notte della Cena, aveva spavaldamente affermato che, anche se tutti l’avessero abbandonato, egli non l’avrebbe rinnegato; ma, posto nell’occasione, aveva invece per tre volte protestato di non conoscerlo e di non essere suo discepolo.

Ora che Gesù vuol fargli riparare la triplice negazione con una triplice protesta d’amore, egli risponde con umiltà che lo ama, ma non fa alcun confronto con i suoi compagni, e si rimette al giudizio del Maestro.

Gesù Cristo gli domandò se lo amava più degli altri, per farlo salutarmente umiliare, ricordando la presunzione con la quale si era creduto più forte e più fedele degli altri; per questo lo interrogò in questa forma solo la prima volta, bastandogli che egli si fosse internamente umiliato. Gesù, come è chiaro dal contesto, non volle mettere a confronto l’amore di Pietro con quello di Giovanni che era un amore più tenero, ma solo volle, con delicatezza, raccogliere Pietro in un sentimento di umile penitenza, ricordando che aveva preteso di amarlo più di tutti e poi l’aveva rinnegato. Gesù, interrogandolo, non lo chiamò Pietro, ma Simone, figlio di Giovanni, per mostrargli che per il suo rinnegamento non aveva più meritato quel nome di fiducia che Egli gli aveva dato, e che doveva riconquistarlo con una protesta d’amore e di fedeltà.

Alla risposta di Pietro: Signore, tu sai che io ti amo, Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli. Il testo greco ha il diminutivo: Pascola i miei piccoli agnelli, quelli cioè che ora nascono alla fede.

Simone, figlio di Giovanni mi ami tu?

Per la seconda volta Gesù domandò a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Questa volta non disse: Mi ami tu più di questi?, perché non volle ricordare nuovamente a Pietro il suo peccato, ma volle un’esplicita testimonianza d’amore, per dargli il governo delle anime radunate in ovile, cioè della Chiesa costituita come vera società. Pietro rispose di nuovo: Certamente, Signore, Tu sai che io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli o, come dice molto espressivamente il testo greco: Prendi cura del mio gregge.

Per la terza volta: Simone, mi ami tu?

Per la terza volta Gesù disse a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Pietro allora si contristò, pensando che Gesù glielo domandasse perché non vedeva in lui l’amore, e perché ricordava ancora il peccato che aveva fatto, rinnegandolo, e rispose: Signore, tu sai tutto, tu conosci che io ti amo. E voleva dirgli: Tu sai quello che io sono, tu conosci il mio cuore, tu lo scruti nel fondo, e tu sai che, nonostante la mia infedeltà, io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola le mie pecorelle ossia, secondo il testo greco: le pecore madri, fatte adulte e capaci di procrearne delle altre.

In poche parole, Gesù tracciava tutto il cammino della Chiesa, e dava a Pietro e ai suoi successori il primato di giurisdizione su tutto il suo gregge, fino al termine dei secoli. Egli affidava a Pietro le anime che aveva redente col suo Sangue sulla croce, in un amore infinito, e richiese da lui una triplice confessione d’amore, perché doveva governarle per amore e con amore. Chiamò Pietro col nome di nascita, Simone, sia perché egli, nella Passione del Maestro, aveva disusato quel nome come compromettente e Gesù volle ricordarglielo, e sia principalmente perché volle allora compiere ciò che gli aveva detto nell’eleggerlo: Tu ti chiamerai Pietro (Mt 26,18). Nell’eleggerlo, gli aveva annunciato che si sarebbe chiamato Pietro, cioè pietra fondamentale e rupe sulla quale avrebbe edificato la Chiesa; ora compiva ciò che aveva annunciato, e chiamava Pietro col nome di origine: Simone, per renderlo, di fatto, Pietro, capo visibile e fondamento della Chiesa. Se l’avesse chiamato Pietro, Egli avrebbe supposto già in lui quello che stava per dirgli. Richiestagli la triplice confessione d’amore, Gesù gli assegnò su quella base l’ufficio di formare il gregge con l’apostolato, di governarlo con la suprema autorità, e di perpetuarlo formando le pecore madri, cioè governando i pastori delle anime che le generano a Lui in tutto il mondo e in tutti i secoli.

Egli gli diede un triplice regno, e può dirsi quasi che, con le sue divine parole, cesellò Egli la tiara del pontefice: Gli diede il regno delle anime: Pascola i miei piccoli agnelli; gli diede il governo dei popoli cristiani: Prendi cura del mio gregge; gli diede la giurisdizione suprema su tutti i pastori: Pascola le mie pecore madri che generano gli agnelli. Gesù Cristo è il Re di tutto l’universo e di tutte le genti, e per il suo Sangue ha, di pieno diritto, in eredità le nazioni.

Il potere del Papa è potere d’amore

Gesù costituì Pietro e i suoi successori vicari e rappresentanti di questa sua potestà, e di conseguenza i papi sono di diritto divino, rappresentanti della sua suprema autorità sulle anime, sulle nazioni e sui capi, tanto spirituali che temporali, dei popoli.

Presumere di relegare il papa in una cerchia ristretta, riguardandolo come semplice capo di una professione religiosa, e pretendere che a Lui non interessi il governo dei popoli, è contrastare direttamente lo spirito e la lettera della parola di Gesù. La teoria delle due parallele che non s’incontrano e stanno ben separate e distinte, il potere civile e quello religioso, è errata dalle fondamenta poiché nessun potere civile può sottrarsi a quello divino e al Papa che lo rappresenta1.

Il Papa, sì, è re d’amore, ma è re dei re veramente per diritto divino; qualunque limitazione posta alla sua autorità è essenzialmente contraria alla maniera illimitata con la quale Gesù Cristo l’ha costituita. È un fatto, poi, confermato dalla storia che i regni che si sottraggono alla Chiesa vanno in rovina presto o tardi, e che i popoli che non riconoscono più nel Papa il Padre universale e il moderatore delle potestà umane, cadono sotto l’esosa schiavitù dei tiranni.

Certo, il potere del Papa è potere d’amore, non è potere di armi; è anzi potenza di triplice amore che cura il corpo, l’anima e la vita dei suoi figli che si estende alla terra, al Purgatorio e al Cielo, e riguarda tutte le creature per renderle inno d’amore a Dio. Certo, il potere del Papa non può ridursi ad un potere politico, nel senso umano e sporco di questa parola, ma il negare che sia una reale potestà su tutte le genti in tutta la loro vita, spirituale e corporale, temporale ed eterna, è lo stesso che negare la potestà di Dio su di ogni creatura.

Gesù predice velatamente a Pietro il martirio

Gesù Cristo, dopo avere dato a Pietro la potestà di pascolare e reggere la Chiesa, gli disse: In verità, in verità ti dico che quando eri più giovane ti cingevi la veste e andavi dove volevi, ma quando sarai invecchiato stenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. L’evangelista aggiunge che disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. San Giovanni scrisse il Vangelo dopo la morte di san Pietro, e poté controllare meglio la verità dell’analogia e del paragone del quale Gesù si servì per predirgliela. Chi è giovane ha maggior elasticità nei movimenti, può cingersi la veste da sé, e può andare dove gli piace. Chi è vecchio, invece, ha bisogno di un altro che lo cinga e, per farglielo fare più agevolmente, stende le braccia, come se le stendesse in croce; egli, poi, non può andare dove desidera, ma dove lo accompagnano gli altri ai quali è soggetto.

Pietro doveva terminare la vita con un glorioso martirio, simile a quello del suo Maestro, e doveva glorificare Dio con quest’ultima grandiosa testimonianza d’amore. Egli fu crocifisso, fu cinto di funi, stese le mani per farsele configgere, e andò dove non voleva, andò alla morte che ripugna sommamente alla natura. Egli, anzi, condannato a Roma alla crocifissione sotto Nerone, nell’anno 67, per rispetto al suo Maestro, e perché i fedeli non avessero confuso la sua croce con quella di Gesù, domandò in grazia ai carnefici e ottenne di essere crocifisso col capo in giù. In tal modo, glorificò veramente Dio con una fedeltà eroica d’amore, mostrò la potenza della sua grazia nel sostenere la debole natura, suggellò, col sangue, i suoi insegnamenti, e consolidò, col martirio, il santo fondamento della Chiesa. Per questo Gesù, dopo avergli predetto la morte velatamente per non turbarlo, gli soggiunse: Seguimi. Non ebbe quasi il coraggio di dirgli: «Sarai crocifisso come me», ma gli ricordò la seconda parte di quel suo precetto col quale comandava di prendere la croce e seguirlo, e lo esortò a percorrere il suo stesso cammino.

Egli non parlò più esplicitamente, perché era inutile, sapendo che, giunta l’ora del cimento, l’avrebbe sostenuto con la sua grazia. Gli aveva dato un immenso potere, non perché fosse stato come un re della terra, ma perché si fosse immolato come un buon pastore per le pecorelle che gli aveva affidate; aveva tracciato il programma della vita dei Pontefici che è vita di rinuncia e d’immolazione, anche in mezzo agli onori dai quali sono circondati, per rispetto della loro dignità.

Il Papa è un crocifisso

Chi vede il Papa è come affascinato dallo splendore che lo ammanta, dalla corte e dagli ossequi che gli si tributano, e non immagina neppure lontanamente il sacrificio che comporta quella dignità. Il Papa può dire veramente che stende le mani, un altro lo cinge, ed è condotto dove non vorrebbe. Egli perde ogni libertà personale, ed è stretto da un continuo cerimoniale ed è spesso trasportato dalle persone e dagli eventi dove non vorrebbe. È la caratteristica più spiccata della crocifissione del Papa, poiché Egli, per prudenza, deve tante volte subire le situazioni del mondo, e non può fare tutto il bene che vorrebbe. Il Papa è un perenne crocifisso, sempre con le mani aperte per benedire, sempre con le mani inchiodate dalla perfidia umana, sempre sanguinante d’angoscia.

Dobbiamo pregare per il Papa, affinché venga il giorno del grande trionfo, nel quale Egli possa stendere le mani all’umanità, e farle sentire, in piena libertà, tutta la grandezza del suo benefico potere, luce di verità, fiamma d’amore, e fonte vera di pace per la terra.

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1 Don Dolindo si rifà alle sentenze che erano patrimonio quasi comune al suo tempo.

lunedì 12 aprile 2010

Domenica 11 Aprile 2010 LA DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA


Divina Misericordia. Mostra i post precedenti


Domenica 11 aprile 2010

II Domenica di Pasqua Anno C

DELLA DIVINA MISERICORDIA

Gv 20,19-31

Dal Vangelo secondo San Giovanni

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.

Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.

Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.

La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.

Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

Il Corpo risorto di Cristo e le ombre penose della bellezza umana

Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.

Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.

Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.

L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corti circuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.

Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.

Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.

Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!

A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi...

Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.

Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.

Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.

La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.

Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.

Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità

Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.

È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.

La psicologia di chi ascolta il racconto concitato di un fatto straordinario

Si deve notare la profonda psicologia di questo episodio e della risposta di Tommaso: chi ha visto un fatto straordinario e se ne è convinto, entusiasmandosi, ne diventa testimone ardente e si urta contro chi non l’ammette solo perché non l’ha visto. Chi non l’ha visto ha in fondo all’anima sua, magari inconsciamente, il rammarico di non averlo osservato, e si sente in una certa inferiorità di fronte a chi ne rende testimonianza.

L’assistere ad un fatto straordinario diventa sempre un titolo d’orgoglio, perché diventa una testimonianza indiretta della bontà e dignità di chi ne è stato spettatore. Questo urta chi non lo è stato, e il suo orgoglio nascosto svaluta il fatto, per non confessare la propria inferiorità. Al suo occhio cattivo tutto sembra una montatura, un’esagerazione, un frutto di eccitazione fantastica; rifiuta di ragionare, fa dinieghi energici, alterca, ovvero deride chi si riscalda nell’attestarlo, e rimane ostinatamente nel suo giudizio, anche di fronte alla realtà. Per essere troppo ragionevole diventa irragionevole, e per cavillare troppo diventa stolto.

San Tommaso, ritornato al Cenacolo, aveva trovato l’ambiente per lui stranamente cambiato. I suoi compagni gli sembravano esaltati, la loro gioia lo urtava, le loro osservazioni lo turbavano. Sentiva, in fondo, il rammarico di non essersi trovato, ma voleva persuadersi di essere stato lui un privilegiato a non trovarsi ad una scena che gli sembrava fantastica. Aveva un incosciente rimorso della sua incredulità, ma tentava soffocarlo nei raggiri di un ragionamento; perciò, all’argomento di prova che gli davano i compagni della realtà dell’apparizione, cioè le piaghe delle mani, dei piedi e del costato, risponde con un fare altero che rivela la lotta interna del suo spirito: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.

L’insistenza della sua risposta mostra l’agitazione nella quale la diede: voleva vedere lui le piaghe, anzi voleva accertarsi del foro fatto nelle mani e nei piedi dai chiodi, e dell’apertura fatta al costato dalla lancia, mettendovi il dito e la mano. Nel dire questo, egli mostrava il suo dito e la mano, quasi in tono di sfida, e guardava i compagni con un senso di commiserazione, quasi che egli solo fosse tra loro l’uomo accorto che non si lascia abbindolare.

Gli apostoli non poterono opporgli altro; si mostrarono dispiaciuti, disgustati, afflitti ma, di fronte all’ostinazione di una ragione sconvolta, c’è poco da fare. Non la si può conquidere col ragionamento. È proprio l’atteggiamento di quelli che negano la verità e il soprannaturale per partito preso: nulla li convince, e preferiscono al ragionamento il cavillo insensato, all’evidenza la loro ostinazione irragionevole. Si appellano solo e reclamano argomenti e constatazioni materialmente positive, salvo poi a negarne anche l’evidenza se questa non coincide col loro pensiero.

Il cavillo dolorosamente è prolifico: uno ne genera cento e, quando l’anima vi si è inviluppata, è come avvolta da una rete che la stringe sempre più. Solo la luce e la grazia di Dio può vincerla, e Gesù, misericordiosamente, volle personalmente intervenire, per sanare, con le sue soavissime piaghe, quelle dell’anima di san Tommaso.

Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 3 aprile 2010

Risurrezione del Signore

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Domenica 4 aprile 2010

Domenica di Pasqua Anno C

RISURREZIONE DEL SIGNORE

Gv 20,1-9

Dal Vangelo secondo San Giovanni

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.

Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.

Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Commento Don Dolindo Ruotolo

Avvisati da Maria Maddalena, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro

Maria Maddalena giunse al sepolcro proprio in questo momento; ma era buio nell’anima sua, credeva di andare da un morto, non pensò che il masso fosse stato rovesciato dal Vivente risuscitato, si spaventò, e corse a dare la notizia dell’accaduto come lo vedeva e lo capiva lei, a Pietro e a Giovanni: Hanno portato via dal sepolcro il Signore, e non sappiamo dove l’abbiano messo.

I due apostoli s’incamminarono al sepolcro, per constatare ciò che aveva detto Maria Maddalena e, poiché presero una via diversa da quella delle pie donne, non le incontrarono quando esse tornarono gioiose, dopo aver visto gli angeli (cf Mt 28,5) che avevano annunciato loro la risurrezione.

Correvano i due apostoli, tanta era l’ansietà che li aveva presi; Giovanni, più giovane, corse di più e giunse per primo al sepolcro.

Non vi entrò, però, perché forse non ne ebbe il coraggio da solo, e anche per rispetto al Principe degli apostoli. Si chinò, perché l’apertura della caverna non era molto alta, e vi sporse la testa per osservare; vide le bende che avevano avvolto il Corpo, poste da parte ordinatamente, e se ne stupì, perché chi avesse voluto rubare il Corpo, non le avrebbe né lasciate né tanto meno lasciate a quel modo. Dopo poco giunse anche Pietro che, sentendosi in compagnia, vinse più facilmente quel senso di terrore che incute sempre un sepolcro, e vi entrò. Egli poté esaminare più accuratamente i panni che Giovanni aveva visto da lontano, e notò con sorpresa che il sudario che aveva avvolto il capo di Gesù stava riposto a parte, ripiegato, il che escludeva assolutamente il rapimento del Corpo. Invitò Giovanni a constatarlo, e quegli, fattosi animo, entrò nella caverna, osservò tutto minutamente, e credé alla risurrezione.

L’evangelista dà la ragione dell’incredulità che prima li aveva presi: Essi non sapevano ancora dalla Scrittura che Egli doveva risuscitare da morte. L’ignoranza li aveva resi increduli, ma l’ignoranza derivante dall’ostinazione nelle proprie idee, perché Gesù, in vari modi, aveva preannunciato loro la sua risurrezione. Credevano che il Redentore non dovesse morire, perché supponevano che dovesse regnare eternamente su Israele, dopo averne ricostituito il regno; la sua morte fu per loro il crollo di ogni speranza, e l’annuncio della risurrezione sembrò loro una fantasia di donne.

Il constatare che il Corpo non c’era più nel sepolcro, e che il modo col quale erano piegate le bende indicava che non ne era stato sottratto, aprì loro gli occhi, e se ne ritornarono a casa pensosi. La loro fede, però, non era ancora piena e, pur non potendo negare che il corpo non era stato rubato, rimase per loro, in quel momento, ancora oscura e confusa la verità. Crederono assolutamente a quello che avevano visto, e crederono con una certa esitazione a quello che non avevano visto.

La nostra fede: un’altalena di luci e di ombre

Così è tante volte la nostra fede: non possiamo negarne le verità, ma non ne abbiamo una vera e profonda convinzione che dev’essere stabilmente poggiata sull’autorità di Dio che le rivela. Crediamo per uno sforzo; abbiamo luci e tenebre, avvelenati come siamo dai ragionamenti asfissianti dell’errore. La testimonianza umana ci sembra infallibile e vi prestiamo fede immediatamente dopo un controllo superficiale; la testimonianza divina ci sembra, inconsciamente, di minor valore, perché non possiamo sempre ridurla ad una constatazione materiale. È una cosa penosissima: se vediamo un miracolo che ci attesta un fatto storico, ci crediamo con riserva; se scopriamo un documento, una pietra, una carta, un segno materiale che ce lo attesti, lo crediamo assolutamente. Proprio come Pietro e Giovanni che non credevano alle Scritture e alle parole di Gesù, ignorandone il significato per loro fragilità, e crederono alla testimonianza delle bende riposte nella tomba.

Più grave ancora è per noi la titubanza che abbiamo di fronte ai fatti soprannaturali, e la supina stupidaggine con la quale ci impressioniamo e ci commoviamo di qualunque cosa ci venga detto. Specie in tempo di guerre, di sventure comuni o di situazioni eccezionali della vita, corriamo rischio di accettare immediatamente qualunque notizia sensazionale ci venga data. Il giornale, poi, che è spesso gremito di stoltezze e di menzogne, diventa per noi l’affascinatore giornaliero che forma la nostra mentalità, e la radio diventa la viva voce di testimonianze che crediamo assolute, quando s’incontrano con i nostri pensieri, col nostro pessimismo o ottimismo, e con le nostre aspirazioni più o meno irreali e strampalate.

Fede, fede, fede! Se intendessimo la preziosità della fede e di tutto ciò che vi è collegato, non saremmo così sciocchi da rimanere titubanti innanzi alla luce, e sicuri innanzi alle tenebre! Fede, fede, fede! Se pensassimo che le verità e le panzane terrene finiscono col tempo, e che le verità della fede appartengono ad un ordine eterno, non saremmo così incoscienti da accettare quello che passa, e rifiutare quello che eternamente rimane! Oh se avessimo una fede vera, profonda, viva, quanto sarebbe più tranquilla la vita, e quante benedizioni discenderebbero su di noi!

Pietro e Giovanni andarono insieme al sepolcro correndo, per l’ansia di vedere subito quello che era avvenuto; Giovanni corse più di Pietro e giunse prima, perché era più giovane. Correvano i due apostoli che avevano maggiormente amato Gesù, e correva di più l’apostolo che più aveva amato.

Pietro può rappresentare la legge, Giovanni l’amore; corrono insieme al Signore, ma l’amore è più veloce e giunge sempre primo.

Giovanni giunse ma non entrò prima che fosse entrato Pietro, e prima che avesse egli constatato quanto era avvenuto. Così avviene nella via spirituale: l’amore corre più spedito ma non pretende di agire da sé e senza guida spirituale; si lascia sempre illuminare da chi rappresenta Dio, e si lascia introdurre da lui nella profondità dei misteri dell’amore. Pietro non era vergine, perché ammogliato; Giovanni, invece, era vergine, amato perciò in modo particolare da Gesù. Corrono insieme nelle vie di Dio le anime legate al mondo e quelle consacrate a Dio nello stato verginale; queste, però, sono più svelte e raggiungono più facilmente la meta, perché sono piene di quella giovinezza spirituale che viene da Dio.

Corrono i due apostoli verso la tomba di Gesù ed entrano, quasi con sepolti con Lui, nel luogo dov’Egli era stato riposto; corriamo anche noi nella via dello spirito verso la sepoltura e il nascondimento di noi stessi; se non siamo sepolti nell’umiltà, non giungiamo a scorgere Gesù, e se non passiamo per le tenebre delle angustie, non possiamo vivere di vera fede e di vero amore. È illusione credere che l’amore peregrinante possa avere per meta in questo esilio la gioia; esso corre prima verso la tomba mistica per seppellirsi con Gesù Cristo in Dio, e poi, passato l’esilio, giunge al regno dell’eterna luce. La vita dell’amore è vita d’immolazione sulla terra; più arde l’anima e più è insoddisfatta, perché l’amore vero non è mai contento di sé. Invece di turbarci nelle oscurità interiori, abbandoniamoci a Dio, e rendiamo vita di pura fede la vita dell’amore che aspira ad avere pienezza di luce e di ardore per amare di più.