sabato 24 settembre 2011

Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna

Vangelo (Mt 21,28-32)



28 “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. 29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.
30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”.
E Gesù disse loro: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.

La terra promessa da Dio al suo popolo non è solo quella “dove scorre latte e miele”, ma anche quella in cui abbondano frumento, olio… e vino (Dt 8,6,10). “Invitare il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico” era il sogno coltivato da ogni israelita (Zc 3,10).
In un tempo come il nostro in cui tutto è meccanizzato, si bada soltanto alla quantità dei prodotti e al loro valore commerciale, parlare di un rapporto affettivo con la propria vigna suonerebbe ingenuo e un po’ patetico. Non era così in Israele. Mentre potava, il contadino accarezzava, con lo sguardo commosso dell’innamorato, la propria vite, le rivolgeva parole dolci e tenere. I poeti hanno cantato spesso questo amore e Dio se n’è servito per descrivere la passione che lo lega al suo popolo (Is 5,1-7). Israele è “la vigna deliziosa: cantatela! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).
Gesù ha ripreso più volte questa immagine: ha parlato di operai inviati, in ore diverse, a lavorare nella vigna (Mt 20,1-15), di vignaioli omicidi che non vogliono consegnare i frutti (Mt 21,33-40) e soprattutto ha presentato se stesso come “la vera vite” (Gv 15,1-8).
La parabola del vangelo di oggi mette in scena tre personaggi: un padre e due figli.
Gli ascoltatori di Gesù intuiscono subito che il padre rappresenta Dio, ma certo rimangono sorpresi dal fatto che egli abbia due figli. Il figlio di Dio è uno solo, Israele; per bocca del profeta Osea il Signore ha detto: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1) e al faraone ha dichiarato: “Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4,22). La Scrittura afferma che solo “i giudei sono figli del Dio Altissimo” (Est 8,12q), “figli che non deluderanno” (Is 63,8). Sentir parlare di due figli di Dio è sconcertante per un israelita; ma è solo l’inizio, il seguito della parabola è ancora più provocatorio.
All’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna, il primogenito rispose zelante, con prontezza: Sì, signore (letteralmente: Io, signore!; come dire: non pensare ad altri, ci sono io!), ma poi non andò (v. 29). Non si dice che, per svogliatezza o sedotto da una proposta allettante degli amici, “cambiò idea”; no, egli, anche quando aveva detto sì, non era per nulla d’accordo con il programma del padre, aveva soltanto pronunciato parole, parole vuote.
Il richiamo è a un altro detto di Gesù: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).
Questo primogenito rappresenta evidentemente gli israeliti che già Mosè aveva definito “figli degeneri, generazione perversa”, “figli infedeli” (Dt 32,5.20). Non tutti gli israeliti, naturalmente, ma quelli che, a parole, si erano assunti gli impegni dell’alleanza e poi li avevano ridotti a riti esteriori, a cerimonie senza valore, convinti di essere a posto con il Signore perché gli offrivano sacrifici, olocausti, preghiere. Questa, al tempo di Gesù, era la religione praticata dai sacerdoti del tempio e dai notabili del popolo. Non produceva i frutti voluti da Dio: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, si attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,7). Le solenni liturgie erano foglie, non frutti (Mt 21,18-22).
Le provocazioni della parabola non sono finite. Il padre rivolse anche al secondo figlio la richiesta di andare a lavorare nella vigna e la risposta fu: “Non ne ho voglia”. Poi però, preso dal rimorso, ci andò (v. 30).
L’allusione agli odiati pagani – che ora sono elevati al rango di figli – è esplicita. Essi non hanno dato alcuna adesione formale alla volontà del Signore, ma sono entrati per primi nel regno di Dio.
Quando Matteo scrive questo brano sono passati cinquant’anni dalla morte e risurrezione di Cristo e la profezia si è già realizzata: le comunità cristiane sono composte soprattutto da ex-pagani, mentre la maggioranza dei figli di Abramo non ha riconosciuto in Gesù il messia di Dio, non è entrata nella vigna.
Questa constatazione potrebbe ingenerare la pericolosa illusione che questi due figli siano dei personaggi preistorici, che non hanno nulla a che vedere con noi. I cristiani sarebbero il “terzo figlio”, quello che dice di sì e fa la volontà del Padre. Professano una fede chiara e immune da errori teologici, si impegnano a osservare comandamenti e precetti e lodano il Signore con canti e preghiere.
Ma proviamo a chiederci quale incidenza hanno nella vita di ogni giorno (Va’ oggi a lavorare nella vigna!) le nostre formule, le nostre dichiarazioni, le nostre formali prese di posizione, i nostri riti. Pongono fine agli odi, alle guerre, ai soprusi? Pur continuando a professarci cristiani, non ci rassegniamo facilmente a una vita di compromessi? Non ci adeguiamo spesso ai criteri di questo mondo e al buon senso degli uomini? Non conviviamo forse con le ingiustizie, le disuguaglianze, le discriminazioni?
Il terzo figlio esiste, ma non siamo noi. Solo “il Figlio di Dio, Gesù Cristo – scrive Paolo – non fu “sì” e “no”, ma in lui ci fu solo il “sì”. Tutte le promesse di Dio in lui divennero “sì” (2 Cor 1,19). Egli è l’unico che ha sempre detto: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,26).

La conclusione della parabola (vv. 31b-32) contiene quella che è forse l’affermazione più provocatoria di Gesù: “I pubblicani e le prostitute stanno passandovi avanti nel regno di Dio”. Il verbo è al presente; si tratta di una constatazione: i pubblici peccatori che non hanno alcun paravento religioso dietro il quale nascondersi, coloro che non possono fingere perché la loro condizione è palese a tutti, anche a loro stessi, si trovano avvantaggiati rispetto a coloro che si ritengono giusti. Questi si sentono sicuri e protetti dalle pratiche religiose che adempiono fedelmente e non si rendono nemmeno conto della propria lontananza dalla vigna del Signore.
“I pubblicani e le prostitute” che sanno di essere lontani da Dio non si illudono di compiere la sua volontà, sono coscienti di avere detto di no, non tentano di ingannare se stessi adempiendo precetti da loro inventati, non tranquillizzano la coscienza con pratiche che nulla hanno in comune con la vera religione. La loro consapevolezza di essere poveri, deboli, peccatori bisognosi di aiuto, li predispone a ricevere per primi il dono di Dio.
L’altro fratello entrerà nella vigna quando smetterà di ritenersi giusto, quando rinuncerà all’orgoglio di quelle che ritiene le sue opere buone, quando riconoscerà la propria ipocrisia e ne proverà disgusto, quando abbandonerà le sicurezze che gli derivano dal fatto di aver sempre detto di sì a parole e gioirà nel sentirsi salvato dall’amore gratuito del Padre.

Padre Fernando Armellini (biblista)

domenica 18 settembre 2011

IL REGNO DI DIO

Nutriamoci della Parola di Dio 18 settembre 2011

Vangelo (Mt 20,1-16a)


1 “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2 Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. 5 Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dá loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. 11 Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: 12 Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. 15 Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? 16 Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.


C’è qualcosa di ingiusto e irritante nel comportamento del padrone di cui si parla nella parabola: fa il generoso senza tenere conto dei meriti. Nessuno gli proibiva di fare beneficenza con i suoi soldi, ma premiare coloro che erano comparsi alle ore 17.00 e che, fino a quel momento, erano rimasti inoperosi e, forse, non avevano fatto altro che bighellonare, è fuori da qualunque logica. Chi meritava una ricompensa, se mai, erano coloro che avevano faticato di più, gli operai della prima ora. Noi stipuliamo contratti in base a certi principi e questi nella parabola non vengono rispettati.
È proprio nel modo provocatorio di agire del padrone che verte l’insegnamento principale del racconto. Scopriamolo.
È tempo di vendemmia e quando l’uva è matura va raccolta e pigiata, prestando attenzione al momento e alla luna giusti. Per i proprietari di grandi vigneti sono giorni di tensione, hanno bisogno di operai e i braccianti che non hanno un lavoro fisso lo sanno e approfittano della premura dei vignaioli per strappare un contratto favorevole. I più volenterosi si piazzano molto prima dell’alba nei punti strategici e aspettano che passi qualcuno ad assumerli. È a questo punto che comincia la nostra parabola.
Prima ancora del sorgere del sole ecco che, già trafelato, arriva un vignaiolo. È in piedi da più di due ore, ha programmato il lavoro della giornata, ha sistemato i tini, i cesti, le botti; ha cotto il pane e preparato le olive da distribuire agli operai a metà giornata; è teso in volto e dallo sguardo, dai gesti scattanti, quasi nervosi, lascia trasparire tutta la sua preoccupazione e la sua fretta. Poche parole per concordare la paga ed ecco che il primo gruppo, quello dei più mattinieri, è già nella vigna.
La premura del padrone di concludere al più presto il lavoro è davvero grande, difatti esce altre quattro volte in cerca di operai: a metà mattina, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e quando chiama l’ultimo gruppo sono già le 17.00, manca solo un’ora alla conclusione della giornata lavorativa.
Fin qui nulla di strano, tutto rientra nella norma e nella logica.
Cominciamo a identificare i personaggi: il padrone rappresenta Dio o Cristo; gli operai sono i discepoli che, in momenti diversi della loro vita, rispondono alla chiamata; la vigna è la comunità cristiana, ove il lavoro non manca e deve essere svolto con estrema urgenza. La fretta è la stessa che troviamo nella disposizione data da Gesù ai suoi inviati: “Non salutate nessuno lungo la strada” (Lc 10,4) perché non c’è tempo da perdere. La giornata è l’immagine della vita di ognuno e la sera è il momento del giusto giudizio di Dio.
Siamo così giunti al punto cruciale della parabola. La legge dispone: “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio” (Dt 24,14-15) e, difatti, il padrone ordina di mettere in fila gli operai e di consegnare a tutti un denaro... cominciando dagli ultimi.
Ecco la scorrettezza!
Se di nascosto, senza dar nell’occhio, per compassione, egli avesse arrotondato la paga di chi aveva lavorato soltanto un’ora, non ci sarebbe stato nulla da ridire; ma provocare la rabbia di coloro che, dopo dodici ore di lavoro, hanno il volto bruciato dal sole e stravolto dalla fatica, pare addirittura crudele. Gli operai della prima ora, che nemmeno si reggono in piedi per la stanchezza, sono costretti ad assistere a una scena irritante: increduli, devono osservare i colleghi che, con la faccia tosta e rilassata dei perdigiorno, ricevono una paga immeritata.
È in questo comportamento sorprendente e sconcertante del padrone che va colto il messaggio della parabola.
Con gli operai della prima ora egli aveva concordato un denaro, con gli altri ciò che sarà giusto, con gli ultimi non aveva pattuito nulla.
L’incomprensione è nata dalla poca chiarezza su cosa il padrone intendesse per giusto. Gli operai l’hanno recepito in base ai loro criteri di giudizio e si sono convinti che egli avrebbe tenuto conto dei meriti; il padrone invece segue una sua giustizia e distribuisce i suoi beni in modo completamente libero e gratuito. Non ha fatto torto a nessuno, ha solo deciso di non prendere in considerazione i meriti; ha dato a tutti secondo il bisogno e, naturalmente, i primi ad essere beneficati sono stati gli ultimi, i più poveri (v. 16). Questa è la sorpresa di Dio, questo è il suo strano modo di concepire e di praticare la giustizia.
La parabola è la denuncia più chiara e provocatoria che si possa immaginare della religione dei meriti inculcata dalle guide spirituali d’Israele (e sostenuta da molti anche oggi).
Il popolo, catechizzato dalla casta sacerdotale – dimentico del Dio buono, padre, sposo e amico fedele, predicato dai profeti – era convinto che il Signore fosse un legislatore e un giudice, per questo il rapporto con lui non poteva che essere quello dei servi nei confronti del padrone. Insegnavano i rabbini: “Chi adempie un precetto si acquista un avvocato, chi commette una trasgressione si acquista un accusatore. Tutti i giudizi di Dio sono sulla base di misura per misura” e completavano la loro catechesi parlando di libri conservati in cielo su cui erano accuratamente annotati le opere meritorie e le trasgressioni.
Stando a questa logica, Dio non poteva dare nulla gratuitamente; per ottenere la sua benedizione bisognava guadagnarsela. All’obiezione: “La Bibbia afferma che Abramo è stato chiamato da Dio mentre era ancora pagano, non era ancora un giusto, quindi la sua vocazione era un dono del tutto gratuito”, i rabbini rispondevano: “Anche se non viene esplicitamente affermato, Abramo aveva certamente fatto delle opere buone, si era meritato la vocazione!”.
Con la sua parabola, Gesù distrugge, per sempre, questo modo farisaico di rapportarsi con Dio. L’amore del Signore non lo si compera, non lo si conquista, non può essere valutato sulla base delle opere buone, lo si riceve gratuitamente e in proporzione al bisogno. Sono gli affamati che Dio ricolma di beni, mentre rimanda a mani vuote i ricchi (Lc 1,53)
Egli non si stanca mai di uscire incontro all’uomo, anche quando questi manca a tutti gli appuntamenti e Dio non paga secondo i meriti; nessuno può sentirsi in credito con lui (Lc 18,9-14). Nei confronti di Dio tutti sono bambini: rivolgono gli occhi al Padre e attendono da lui ogni bene.
La religione dei meriti nasce dalla convinzione che entrare nella vigna del Signore – cioè, nel regno di Dio – equivale ad accollarsi un’immane fatica, quella di osservare comandamenti e precetti che non sempre paiono giustificati. Allora ci si chiede: com’è possibile che chi pratica scrupolosamente la legge di Dio sia beneficato come chi l’ha trascurata? Perché chi è stato raggiunto dalla chiamata di Dio solo all’ultima ora, chi si è salvato “per il rotto della cuffia” deve aver parte all’“eredità del cielo” come i servi che sono rimasti fedeli per tutta la vita?
Molti “giusti” provano un’inconfessata invidia nei confronti di chi, convertendosi all’ultimo momento, ha avuto la fortuna di “lavorare di meno”, di godersi di più la vita. Ecco l’errore: pensare che la gioia consista nello stare lontani da Dio e che la fedeltà alla sua parola meriti un premio.
Un esempio può aiutare a cogliere l’equivoco presente in questo modo di pensare.
Uno comincia fin da piccolo a studiare musica e si applica per molte ore al giorno; un altro decide a settant’anni, quando ha perso tutti gli altri interessi, di mettere le mani su un pianoforte e lo fa con scarso entusiasmo. Quale “premio” si attendono i due? Null’altro che questo: la gioia di gustare la musica. Il loro godimento sarà diverso: chi ha cominciato prima ha avuto più tempo per assaporare il piacere di eseguire e di ascoltare brani musicali, la sua gioia è più intensa e più profonda.
Beati sono i servi giunti per primi nella “vigna del Signore”! Essi hanno anche faticato, certo, ma hanno goduto “fin dal mattino” della presenza del Signore. Gli operai della prima ora rappresentano coloro che hanno trascorso tutti i giorni della loro vita nell’intimità con Dio e nell’ascolto della sua Parola. Gli altri che si sono presentati in ritardo all’appuntamento, che non si sono mai fatti trovare quando il Signore veniva per chiamarli, hanno perso molte opportunità che venivano loro offerte.
Chi dilaziona l’entrata nel regno di Dio non fa arrabbiare il Signore, che non castiga per questo. Egli se ne duole, sì, perché vuole coinvolgere al più presto l’uomo nel suo amore e renderlo felice. Le indecisioni, le perplessità, i tentennamenti nell’abbandonarsi a lui sono momenti di gioia persi. Ogni istante che la sposa trascorre senza lo sposo è un attimo d’amore mancato.
Con questa parabola, l’evangelista che si rivolgeva a cristiani imbevuti della mentalità farisaica voleva anche mettere in guardia i discepoli dal pericolo della competizione all’interno della comunità. Nessuno può pensare di essere superiore agli altri, nessuno può ritenersi un veterano perché si è convertito per primo, perché pratica il vangelo in modo più fedele. Nessuno è padrone della “vigna”, tutti sono operai, tutti sono fratelli.
La parabola non è conclusa. Dopo le parole del padrone, come hanno reagito quelli che mormoravano? Hanno accettato? Hanno continuato a brontolare? Hanno riposto con insulti? Hanno scagliato il denaro in faccia al vignaiolo? Hanno giurato di non tornare mai più a lavorare da lui?
La reazione che attribuiamo agli operai della parabola rispecchia la nostra reazione di fronte alla bontà e alla generosità di Dio. Nella sua vigna ci si impegna gratuitamente, non si lavora per conquistare un posto migliore in paradiso, non si fa del bene al fratello per ottenere un premio. Sarebbe il peggiore degli egoismi: servirsi del povero e del bisognoso per accumulare meriti.

Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 10 settembre 2011

Il Perdono: festa di Dio e dell'uomo


XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Il perdono: festa di Dio e dell’uomo


“Non spezzare il tenue filo dell’amicizia perché, una volta rotto, anche se poi lo aggiusti, rimane sempre un nodo”. Frequentavo le elementari quando il maestro mi diede questo consiglio che mi rimase impresso nella memoria e mi torna in mente ogni volta che vengo a conoscenza di contrasti, dissapori, dissidi e mi angoscia il pensiero che basti un errore a porre fine, per sempre, a un’amicizia, a quel rapporto che la Bibbia chiama “balsamo di vita” (Sir 6,16). “Come un uccello che ti sei fatto scappare di mano, così hai lasciato andare il tuo amico e non lo riprenderai. Non seguirlo perché ormai è lontano” (Sir 27,19-20). 
L’incapacità di perdonare, la paura di ridare piena fiducia a chi ha sbagliato sono le forze maligne che rendono irrecuperabile il legame d’amore infranto. 
Con fatica perdoniamo a noi stessi: ci tormentiamo con rimorsi, non accettiamo l’umiliazione di una debolezza e, come una bomba inesplosa e ancora pericolosamente innescata, ci trasciniamo dietro la nostra colpa. Solo chi ha un rapporto sereno con se stesso è in grado di riconoscere il proprio errore e sa che è possibile un recupero in positivo dell’esperienza amara del peccato.
Non perdoniamo agli altri. Troppo grandi sono la delusione, il dolore per il tradimento e il timore che possa ripetersi; quasi irrefrenabile è l’impulso di rompere il rapporto e di vendicarci per l’offesa subita.
Risucchiati in questo vortice di risentimenti e passioni ci lasciamo sfuggire la gioia più grande, quella che prova anche Dio, centuplicata, quando riesce a far rifiorire un rapporto d’amore. Anche a chi è vecchio egli concede sempre l’opportunità di ripartire, ridonandogli una perenne giovinezza.




Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non prevalgano i nostri risentimenti, ma l’azione del tuo Spirito”.


Prima Lettura (Sir 27,30-28,7)


30 Anche il rancore e l’ira sono un abominio,
 il peccatore li possiede.
28,1 Chi si vendica avrà la vendetta dal Signore
 ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati.
 2 Perdona l’offesa al tuo prossimo
 e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
 3 Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo,
 come oserà chiedere la guarigione al Signore?
 4 Egli non ha misericordia per l’uomo suo simile,
 e osa pregare per i suoi peccati?
 5 Egli, che è soltanto carne, conserva rancore;
 chi perdonerà i suoi peccati?
 6 Ricòrdati della tua fine e smetti di odiare,
 ricòrdati della corruzione e della morte
 e resta fedele ai comandamenti.
 7 Ricòrdati dei comandamenti
 e non aver rancore verso il prossimo,
 dell’alleanza con l’Altissimo
 e non far conto dell’offesa subìta.


Chi si sente vittima di qualche ingiustizia è istintivamente portato ad aggredire i responsabili. Da qui hanno origine i regolamenti di conti, l’ira, i rancori, gli odi. Ma, dando libero sfogo a queste passioni, si pone rimedio agli abusi o si peggiora il male? Lungo la storia sono state date varie risposte a questo interrogativo. 
Nei tempi più remoti, il metodo per compensare i torti subiti e per scoraggiare dal commetterne altri era piuttosto sbrigativo: si reagiva con la rappresaglia, si restituiva il male... con gli interessi. L’esempio più celebre di questa vendetta senza limiti è quello di Lamech, il figlio di Caino, il primo poligamo che, davanti alle due mogli, cantava: Io uccido chi mi fa un graffio, ammazzo il bambino che mi pesta un piede! “Sette volte si è vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette!” (Gn 4,23-24).
Un passo in avanti, rispetto a questa reazione brutale, è costituito dalla famosa legge “Occhio per occhio, dente per dente, ferita per ferita” (Es 21,24) che – come abbiamo visto nel commento al vangelo della settima domenica – non è un invito a restituire il male ricevuto, ma a far sì che la punizione sia equa.
L’AT non si è però fermato a questa giustizia ragionevole, legittima, ma ancora primitiva, si è spinto oltre. Nel libro del Levitico si ordina: “Tu non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). È il punto più alto cui erano giunti i saggi d’Israele e il brano che ci viene proposto oggi si muove su questa linea. 
Il Siracide – ricco della sapienza che gli derivava dall’esperienza – si rivolge al discepolo e, da uomo a uomo, cerca di convincerlo ad evitare i comportamenti insensati dettati dal desiderio di vendetta, dall’ira, dal rancore. Questi sentimenti sono un abominio e creano uno schermo impenetrabile nel rapporto fra Dio e uomo, impediscono loro di dialogare e di capirsi.
Poi continua la sua riflessione, invitando il discepolo ad andare oltre la semplice giustizia e a spalancare il cuore alla misericordia. La clemenza verso chi ci ha fatto dei torti – dice – è una condizione indispensabile per pregare e ottenere il perdono di Dio: “Se qualcuno conserva nel suo cuore il rancore contro un altro uomo, come avrà il coraggio di chiedere grazie a Dio?” (v. 3). 
Sono riflessioni semplici, chiare, pacate; accompagnano fino alle soglie del regno di Dio, dispongono all’ascolto della parola di Gesù che porta alla perfezione la saggezza già presente nell’AT.




Seconda Lettura (Rm 14,7-9)


7 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8 perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. 9 Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.


Nel capitolo 14 della Lettera ai romani Paolo tratta un problema sempre molto attuale: come risolvere le divergenze di opinioni fra i membri della comunità? 
C’erano a Roma due gruppi di cristiani: alcuni – chiamati da Paolo i deboli – erano legati alle tradizioni degli antichi, osservavano i giorni di digiuno, praticavano un’ascesi severa, si astenevano da certe carni; altri invece – i forti – più maturi, si sentivano vincolati dall’unica legge dell’amore al fratello, per il resto si comportavano da persone libere. 
A causa di questi contrasti fra tradizionalisti e innovatori, erano sorte parecchie tensioni nella comunità di Roma. I primi accusavano i forti di permissivismo, li consideravano poco virtuosi, infedeli alla legge di Mosè. Questi a loro volta reagivano con battute pesanti; trattavano i deboli da retrogradi, da ottusi mentali, incapaci di comprendere la novità assoluta del vangelo. Come costruire una convivenza pacifica fra persone con convinzioni così opposte? Non era facile (e non lo è nemmeno oggi!). 
Paolo – che apparteneva al gruppo dei forti – propone due regole, una per ognuno dei due gruppi, regole che, se rispettate, permettono di arrivare ad un’accettazione reciproca. Parla anzitutto a quelli del suo gruppo, ai forti, e chiede rispetto per i deboli, per le loro pratiche religiose un po’ antiquate, le loro devozioni, le tradizioni ormai desuete. Anche i deboli però devono stare attenti a non prevaricare. Da loro l’Apostolo esige che si astengano dal giudicare i forti, dal pensare che chi non si attiene alle tradizioni degli antichi sia infedele al vangelo (Rm 14,1-6). Se i due gruppi si attengono a queste due norme possono convivere pacificamente, altrimenti sorgeranno fra loro incomprensioni, dissensi, tensioni.
I versetti seguenti (vv. 7-9) – gli unici riportati dalla lettura di oggi – presentano un principio che aiuta a risolvere ogni contrasto: il cristiano tenga sempre presente che egli non vive per se stesso, per la ricerca del proprio tornaconto, ma per il Signore. Nel suo rapporto con i fratelli, dunque, non si deve mai lasciar guidare da considerazioni umane. Vive e muore “per il Signore”.




Vangelo (Mt 18,21-35)


21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. 22 E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
 31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.


Nella spiegazione della prima lettura abbiamo rilevato che c’è stata una progressiva evoluzione nel modo di reagire alle offese e ai torti ricevuti: si è passati dal regolamento dei conti a soluzioni più eque e infine al perdono.
Al tempo di Gesù si insisteva molto sulla necessità di mantenere relazioni pacifiche. Si condannava la vendetta, l’ira, il rancore e si esigeva la riconciliazione. Chi ha sbagliato – insegnavano le guide spirituali – deve riconoscere il proprio errore e implorare il perdono e la persona offesa è obbligata ad accordarlo. Se lo rifiuta, il colpevole chieda scusa davanti a due testimoni per dimostrare di avere fatto tutto il possibile per ristabilire la pace. Se l’offeso muore prima della riconciliazione, chi gli ha fatto del male si rechi sulla sua tomba e, deponendo una pietra, dichiari: “Ho agito male verso di te”.
L’obbligo di perdonare era però ristretto ai membri del popolo d’Israele e non era illimitato. Non più di tre volte – affermavano concordi i rabbini – alla quarta si doveva accedere alle vie legali. 
La domanda con cui si apre il vangelo di oggi – “Quante volte devo perdonare al mio fratello, fino a sette volte?” (v. 21) – rivela che Pietro ha capito che Gesù intende oltrepassare i limiti stabiliti dagli scribi. Ricorda certo quanto è stato detto nel discorso della montagna: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) e “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà a voi; ma se voi non perdonerete…” (Mt 6,14-15). Ha presente anche l’altra affermazione inequivocabile del Maestro: “Se tuo fratello pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17,3-4). 
Pietro è sconcertato: il numero sette indica la totalità; non si dovrà per caso perdonare sempre e senza condizioni? Chiede conferma di ciò che comincia a intuire (v. 21).
La risposta di Gesù va oltre ciò che già spaventa Pietro: “Non ti dico che dovrai perdonare fino a sette volte (cioè sempre), ma fino a settanta volte sette (più ancora di sempre)” (v. 22). Il richiamo è alle parole sprezzanti e beffarde di Lamech che si vantava di praticare la vendetta senza limiti. Riprendendole, Gesù vuole insegnare che il perdono deve arrivare all’infinito, come all’infinito era giunta la tracotanza del figlio di Caino. 
Per chiarire meglio il suo pensiero racconta una parabola (vv. 23-35).
Fu presentato al re un debitore che gli doveva diecimila talenti. Il talento corrisponde a trentasei chilogrammi d’oro; il suo valore, moltiplicato per diecimila – la cifra più elevata della lingua greca – dà una somma enorme che corrisponde allo stipendio di 200.000 anni di lavoro, 2.400.000 buste paga. Impensabile che qualcuno la potesse restituire.
Alla ventina di immagini usate dalla Bibbia per definire il peccato, negli ultimi secoli prima di Cristo se n’era aggiunta un’altra che aveva finito per prevalere: quella del debito nei confronti di Dio. La gente semplice del popolo si sentiva sempre in arretrato con i pagamenti. Preghiere, sacrifici, offerte, digiuni, opere buone non bastavano mai per compensare le innumerevoli infrazioni della Legge; ci si indebitava sempre di più con il Signore. Solo i farisei erano convinti di avere la contabilità in ordine. Tragica illusione la loro, perché – come dichiara Paolo che pur era vissuto in modo irreprensibile – “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23); di fronte a Dio l’uomo è un debitore insolvente.
Mostrando una generosità senza limiti, il padrone della parabola – che rappresenta Dio – intenerito dalle suppliche del suo servo, condona tutto il debito. 
Non c’è alcun peccato che Dio non perdoni, non c’è colpa superiore al suo immenso amore. Anche Paolo ricorre alla stessa immagine: Dio “ha annullato il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli; egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2,14). 
Come ha fatto l’uomo ad accumulare un debito così esorbitante? Forse accettando gli innumerevoli doni offertigli dal Signore? Non può essere, perché il dono è gratuito e non rende debitori. Allora si tratta – come pensavano i rabbini – dei peccati, delle trasgressioni? Anche questa interpretazione non soddisfa e ne vedremo la ragione.
Nella seconda parte della vicenda (vv. 28-30) entra in scena un altro servo che deve al primo cento denari, una somma di tutto rispetto – equivalente ad altrettante giornate lavorative – ma irrisoria se confrontata con quella condonata dal re.
Il secondo debitore rivolge al collega la stessa preghiera e spera di ottenere la stessa compassione. Il servo spietato, invece, lo afferra per il collo e comincia a strozzarlo dicendo: rendimi ciò che devi! 
Il messaggio centrale della parabola va cercato – è evidente – nella enorme sproporzione fra i due debiti e nello stridente contrasto fra il comportamento di Dio che perdona sempre e quello dell’uomo che invece pretende la restituzione fino all’ultimo spicciolo. L’immagine del soffocamento rende bene l’idea della sudditanza psicologica in cui è ridotto chi ha sbagliato. Come un creditore spietato, l’offeso lo “tiene in mano” e gli può togliere il respiro e la gioia di vivere, con un richiamo, con la semplice allusione alla colpa commessa.
La parabola potrebbe suggerire l’idea che noi siamo responsabili di enormi peccati, mentre dai fratelli abbiamo ricevuto solo qualche sgarbo. Siamo invece sicuri che spesso si verifica il contrario: noi abbiamo commesso solo qualche venialità, mentre gli altri ci hanno arrecato gravi danni. 
Non si tratta di fare calcoli sulla consistenza dei torti subiti. A Gesù interessa mettere in luce la distanza immane che esiste fra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo, fra il suo amore e il nostro.
Il peccato non è un semplice errore, ma è la rottura del rapporto di alleanza e di amore sponsale che lega l’uomo a Dio. Se teniamo presente che il discepolo è chiamato a “essere perfetto come il Padre che è nei cieli” (Mt 6,48) è facile intuire che il “debito” nei suoi confronti è abissale (come è insolvibile il debito di diecimila talenti). Al confronto, la distanza che separa il più grande santo da un peccatore è irrisoria e può essere colmata (come è realistica la restituzione di cento denari).
Nella preghiera noi chiediamo al Padre di “condonare il nostro debito”. Le colpe che abbiamo commesso non rappresentano tutto il nostro debito; esse riguardano il passato e non sono infinite, sono soltanto un piccolo segno della distanza immensa che ci separa dall’amore del Padre. Questo è il debito che noi chiediamo a Dio di colmare. La nostra preghiera “Perdona i nostri debiti” non riguarda solo gli errori passati, ma è volta soprattutto all’avvenire.
Cosa si aspetta Dio da noi? La sua stessa “compassione”: vuole che non manteniamo il fratello schiavo del suo passato, pretende che non gli togliamo il respiro, mentre egli tenta disperatamente di risalire dal baratro; Dio ci chiede di aiutarlo “settanta volte sette”, rinunciando a qualunque rivalsa nei suoi confronti. I figli del regno di Dio sono “misericordiosi come il Padre celeste” (Lc 6,36) e hanno capito che “l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito” (1 Cor 13,5-7). Chi ha fatto propria questa nuova logica è disposto a rimetterci, dimentica tutti i propri diritti pur di vedere il fratello nuovamente felice, sereno e libero dal suo peccato.


L’ultima scena è da brivido (vv. 31-35). Di fronte al modo con cui il servo cui era stato condonato il debito tratta il suo simile, il padrone, disgustato, è colto da incontenibile sdegno: lo fa chiamare, gli rinfaccia la sua malvagità e lo mette in mano agli aguzzini che lo devono torturare fino a quando non abbia restituito quanto deve. La conclusione è sconcertante: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.
Il Signore ripaga dunque con la stessa moneta coloro che sono spietati con i loro “debitori”? Una simile interpretazione smentirebbe tutto il messaggio della parabola che vuole invece presentare un Dio che perdona sempre e comunque l’uomo.
Siamo di fronte ad una storia in cui vengono impiegate immagini drammatiche. I predicatori del tempo di Gesù le introducevano spesso nei loro discorsi, per scuotere i loro uditori e per mettere in risalto l’importanza di un certo messaggio. L’evangelista non sta descrivendo ciò che Dio farà alla fine, ma presenta ciò che egli vuole che l’uomo faccia oggi. Per non falsare il messaggio di Gesù è dunque necessario ripulire la parabola dalle tinte forti di cui l’ha rivestita il linguaggio culturale semitico di duemila anni fa. Considerarla una descrizione del comportamento del Padre che sta nei cieli sarebbe un’interpretazione blasfema.
Padre Fernando Armellini (biblista)