sabato 10 dicembre 2011

Il suo nome era Giovanni

Domenica 11 Dicembre 2011 - III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B) - GAUDETE 
Gv 1,6-8.19-28 
In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete. 
6Venne un uomo mandato da Dio: 
il suo nome era Giovanni. 
7Egli venne come testimone 
per dare testimonianza alla luce, 
perché tutti credessero per mezzo di lui. 
8Non era lui la luce, 
ma doveva dare testimonianza alla luce. 
19Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». 
20Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». 
21Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. 
«Sei tu il profeta?». «No», rispose. 
22Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una 
risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». 
23Rispose: 
«Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore,
come disse il profeta Isaia». 
24Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. 
25Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». 
26Giovanni rispose loro: 
«Io battezzo nell'acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, 
27colui che viene dopo 
di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». 
28Questo avvenne in Betània, 
al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando. 
Gesù, la luce venuta nel mondo, è preceduto da un testimone, Giovanni il Battista, che ha la missione di parlare 
a favore della luce. Questo uomo mandato da Dio ha un compito ben definito nel piano della salvezza, e lo stesso 
suo nome "Giovanni" lo rivela: annunciare che "Dio è pieno di amore misericordioso" per tutta l’umanità. 
Il ruolo del Battista è unico: "venne come testimone, per dare testimonianza alla luce, affinché tutti credessero 
per mezzo suo" (v. 7). Giovanni è il testimone di Gesù che riceve la testimonianza che il Padre dà al Figlio nel batte-10
simo e che vede lo Spirito scendere e rimanere su Gesù (Gv 1,32-34). Egli è colui che conduce l’uomo alla fede in 
Gesù-Luce. 
Per comprendere bene la testimonianza di Giovanni Battista, bisogna chiarire cosa significa il termine "giudei". 
Nel linguaggio del Vangelo di Giovanni, essi sono i capi religiosi che entrano in polemica con Gesù, sono gli avversari di Gesù e di Giovanni Battista, sono i rappresentanti del mondo che non crede. Essi vanno distinti dagli "israeliti", che sono invece quelli che ascoltano la parola di Gesù (cfr Gv 1,47) e sono i "poveri di Dio", il "resto d’Israele" 
che attende il Messia. 
La delegazione, composta da persone autorevoli, come sacerdoti e leviti, pone al Battista la fondamentale domanda della sua identità: "Tu chi sei?". Giovanni confessa con schiettezza di non essere il Cristo, il Salvatore atteso 
da Israele. 
A questa prima risposta negativa seguono altre domande degli inviati: "Chi sei allora, sei Elia?…Sei tu il profeta?" 
( v. 21). Il Battista risponde con prontezza e decisione anche a queste domande. Egli non è Elia o il Profeta, personaggi attesi per il tempo messianico. 
Il disorientamento dei suoi interlocutori è grande. Agli inviati, che ancora una volta cercano una spiegazione sulla 
sua identità, presenta sé stesso con le parole di Isaia: "Voce di uno che grida nel deserto" (v. 23), e prepara la via al 
Cristo, vera salvezza. 
Egli è la voce che invita a ritornare nel deserto per preparare spiritualmente il cammino al Messia. Egli non richiama l’attenzione su di sé, ma su colui che sta per arrivare. 
I giudei, però, non sono soddisfatti delle sue risposte e gli domandano ancora: "Perché dunque battezzi, se tu 
non sei il Cristo, né Elia, né il Profeta?" (v. 24). Ed egli con la sua precisa risposta giustifica il suo operato e la sua 
missione: "Io battezzo con acqua" (v. 26). Giovanni pratica questo rito perché ogni uomo si disponga ad accogliere 
la rivelazione del salvIl suo nome era Giovanniatore d’Israele. 
La definitiva conferma che egli non è il Messia, Giovanni la dà ai suoi interlocutori dicendo che il Cristo è già presente in mezzo al popolo. Egli non accosta la sua persona a quella del Salvatore per fare un confronto, ma solo per mettere in risalto la grandezza e la dignità del Cristo. La sua vita ha dimensioni di eternità e Giovanni non è degno di 
rendergli il più umile dei servizi, come quello di slacciare i sandali, che pure era un compito riservato agli schiavi. 
La subordinazione del Battista a Gesù è totale. Con la parola e con la vita egli offre al Messia una testimonianza 
che cerca di suscitare la fede di tutti verso il grande sconosciuto che vive tra gli uomini e che essi non conoscono. 
La sua umiltà e la sua fedeltà sono esemplari: egli allontana sempre più l’attenzione e lo sguardo da sé per orientare 
tutti verso il suo Signore.

Padre Lino Pedron

sabato 26 novembre 2011

Vegliate!!!



Mc 13,33-37
Vegliate: non sapete quando il padrone di casa ritornerà.

33Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. 34È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 35Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; 36fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. 37Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

La vita del cristiano non è un viaggio durante il quale i trasportati possono sonnecchiare e dormire. Lo indicano le esortazioni che strutturano l’intero discorso: "Guardate che nessuno vi inganni (v. 5)... Ma voi badate a voi stessi (v. 9)... Vigilate dunque (v. 33)... Vegliate (vv. 33.37)". E questi avvisi non sono dati solo a Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (v. 4), ma a tutti noi che attendiamo la sua venuta: "Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!"
(v. 37).
Che cosa significa vegliare? Per l’evangelista Marco, il discepolo è sveglio se in ogni momento si preoccupa di dare testimonianza a Gesù affinché il vangelo raggiunga tutte le nazioni (13,9-10).
Tutta la storia ormai non è altro che il tempo della pazienza di Dio. "Davanti al Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono. Ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2 Pt 3,8-9). Infatti vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,4) e che la sua casa sia piena (Lc 14,23).
Nell’attesa di questi grandi eventi bisogna vegliare. Il cristianesimo non è oppio. Fa tenere gli occhi aperti. Star svegli è necessario, ma non basta. Il Signore, quando ci ha lasciati, ci ha affidato una missione da compiere. La vigilanza costante deve quindi essere riempita da una fedeltà operosa. La storia non è una sala d’attesa. È un cammino alla sequela di Cristo. La nostra vita è il tempo per colmare la distanza da lui e poterlo raggiungere.
Il discepolo non è un fanatico che attende con agitazione, speculando su date e scadenze; e neppure un deluso che non attende più nulla e nessuno, e dorme. Nell’attesa del ritorno definitivo del Signore, sa cosa fare: mettersi al servizio dei fratelli. E il lavoro non manca! "La messe è molta, ma gli operai sono pochi" (Lc 10,2).
Padre Lino Pedron

sabato 19 novembre 2011

LA TUA LUCE RISPLENDE SU DI NOI


Vangelo (Mt 25,31-46)

31 Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. 32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, 33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.
34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.
37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?
40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.
41 Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 42 Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43 ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato.
44 Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 45 Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. 46 E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”.

Un Dio che condanna in modo spietato è, per un cristiano, oltremodo imbarazzante. Non si capisce come le terribili minacce riferite nei vv. 41-46 possano essere considerate “vangelo”, cioè “buona notizia”, “annuncio di salvezza”.
C’è una difficoltà ancora maggiore: come mettere d’accordo il Dio severo che compare nel brano di oggi con il Padre di cui si parla in tutto il vangelo? Egli che “fa sorgere il sole e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”, che esige dai suoi figli che non facciano distinzioni fra buoni e cattivi (Mt 5,43-48), come può, ad un certo punto, operare una separazione che a noi ordina di non fare mai? Se scaglia nel fuoco eterno i suoi nemici non può esigere da noi che li amiamo (Mt 5,44). Gesù che è venuto a “cercare ciò che era perduto” (Lc 19,10) e che si gloriava di essere “l’amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34) potrà un giorno schierarsi contro di loro?
Anche la “giustizia” di questo Dio non soddisfa: potrà il peccato dell’uomo (creatura fragile, limitata, finita) essere punito con un castigo infinito, “eterno”? Non c’è alcuna proporzione fra la colpa e la pena. Se poi l’uomo – com’è certo – rimane libero per tutta l’eternità, perché mai coloro che hanno agito male dovrebbero ostinarsi nel loro errore? Che cosa li renderà così testardi, forse l’incontro con Dio?
Sono alcuni degli interrogativi che, di fronte a questo brano di vangelo, molti si pongono. Sono interrogativi seri, ma potrebbero avere origine da una interpretazione non corretta del testo.
Il dubbio sorge non appena si considera il contesto in cui la descrizione del “giudizio” è collocata. Basta leggere il seguito. Dopo la scena grandiosa in cui il Figlio dell’uomo fa sfoggio – per così dire – di tutto il suo potere, ecco cosa accade: “Fra due giorni – dice Gesù – è Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso” (Mt 26,2). C’è da rimanere allibiti: dalla celebrazione del trionfo si passa alla più ignobile delle sconfitte. Sembrano due situazioni opposte, inconciliabili, invece si tratta di due momenti gloriosi di una medesima vittoria, quella dell’amore. Il Cristo che “giudica” è lo stesso che si consegna nelle mani di coloro che ama ed è proprio come “vittima per amore” che diviene giudice: egli è “l’uomo riuscito” secondo Dio, l’uomo autentico, quello con cui tutti si devono confrontare per stabilire – già fin d’ora – se stanno costruendo la vita o se pongono le basi per un fallimento. Riprenderemo l’argomento, prima esaminiamo il testo.

In Palestina, quando giunge la sera, i pastori sono soliti separare le pecore dai capri. Questi, più sensibili al freddo, hanno bisogno di essere collocati al riparo, mentre le pecore, coperte di lana come sono, amano il fresco della notte e stanno volentieri all’aperto. Gesù si serve di questa immagine, presa dalla vita di tutti i giorni, per trasmettere il suo messaggio.
Per coglierlo è necessario anzitutto fare attenzione al genere letterario. Una lettura affrettata, superficiale, forse anche un po’ ingenua del brano espone al rischio di ricavarne conclusioni teologiche che, ad uno studio più attento e accurato, si rivelano infondate, anzi, fuorvianti.
Il linguaggio è quello tipico dei predicatori del tempo che, per scuotere i loro ascoltatori, erano soliti ricorrere ad immagini impressionanti: castighi tremendi, fuoco inestinguibile, pene eterne. Si diceva, per esempio: “Si affligga la stirpe umana, ma le bestie si rallegrino: per esse le cose vanno molto meglio che per noi; poiché non hanno da attendere alcun giudizio”. Ma facciamo attenzione: quando i rabbini parlavano di “fuoco della Geenna”, non si riferivano all’inferno, ma al fuoco che ardeva perennemente nella valle che sta attorno a Gerusalemme e che serviva da immondezzaio della città. L’aggettivo “eterno”, poi, non aveva i connotati filosofici che ha assunto da noi oggi, ma era usato in un’accezione popolare piuttosto generica: significava semplicemente “lungo”, “indefinito”.
Questo brano è considerato generalmente una parabola, ma non è esatto; appartiene al genere letterario detto scena di giudizio che si ritrova sia nella Bibbia (Dn 7) che nella letteratura rabbinica. Lo schema secondo cui è strutturato è sempre lo stesso: c’è l’intronizzazione del giudice, accompagnato dagli angeli che fungono da assistenti e da guardie del corpo; poi ci sono la convocazione di tutte le genti e la separazione in due gruppi; viene pronunciata la sentenza e infine i giusti sono premiati e i malvagi puniti.
Scopo di questo genere letterario – diciamolo subito chiaramente – non è informare su ciò che accadrà alla fine del mondo, ma fornire insegnamenti sul come comportarsi oggi.
Per fare un esempio, riportiamo, da un’opera rabbinica, una scena di giudizio che ha un’impressionante analogia con il nostro testo. Eccola: “Nel mondo futuro verrà chiesto a chi è giudicato: ‘Quali sono state le tue opere?’. Se risponderà: ‘Ho dato da mangiare a chi aveva fame’, gli verrà detto: ‘Questa è la porta del Signore, entra attraverso di essa’ (Sal 118,20). Se risponderà: ‘Ho dato da bere agli assetati’, gli verrà detto: ‘Questa è la porta del Signore, entra attraverso di essa’. Se risponderà: ‘Ho vestito gli ignudi’, gli verrà detto: ‘Questa è la porta del Signore, entra attraverso di essa’. Lo stesso avverrà con chi ha allevato gli orfani, con chi ha fatto elemosine e con chiunque ha compiuto opere d’amore” (Midrash del Salmo 118,17).
È chiaro che, riferendo questo dialogo, i rabbini non avevano la pretesa di svelare le parole che Dio pronuncerà alla fine del mondo, ma volevano inculcare i valori su cui puntare la vita in questo mondo.

Esaminiamo ora la struttura del brano di Matteo. È facile da definire. Si inizia con un’introduzione (vv. 31-33) seguita da due dialoghi (vv. 34-40; 41-46) che si sviluppano in modo identico e parallelo: il re pronuncia la sentenza (di approvazione in un caso e di condanna nell’altro) e ne dà la giustificazione. In ambedue i casi viene sollevata un’obiezione e ogni volta il giudice risponde.
È semplice anche stabilire il messaggio che Gesù intende dare: gli anni della vita dell’uomo sono un bene prezioso, sono un tesoro che va investito. Non si può sbagliare perché la vita è una sola: egli suggerisce come impiegarla.
I rabbini dicevano: il mondo presente è come la terra asciutta, il mondo futuro è come il mare; se un uomo non prepara il cibo sulla terra asciutta, che cosa mangerà sul mare? Questo mondo è come la terra coltivata, il mondo futuro è come il deserto; se un uomo non prepara il cibo sulla terra coltivata, cosa mangerà nel deserto? Digrignerà i denti e morderà la sua carne, disperato si straccerà le vesti e si strapperà i capelli.
Più dei rabbini, Gesù ritiene la vita dell’uomo importante, per questo rivela ai discepoli i valori su cui si deve puntare sicuri. Quali? Non sono difficili da scoprire perché occupano metà del racconto e sono così importanti che Gesù, a costo di apparire monotono, li ribadisce ben quattro volte: si tratta di sei opere di misericordia.
La lista delle persone da aiutare – l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato ed il carcerato (vv. 35-36.42-43) – era nota in tutto il Medio Oriente antico (cf. Is 58,6-7). Celebre è quanto è scritto nel capitolo 125 del Libro dei morti, il testo che in Egitto, fin dal II millennio a.C., era collocato accanto al defunto. Ecco ciò che costui doveva dichiarare davanti al tribunale di Osiride: “Io ho fatto ciò che fa gioire gli dèi. Ho dato il pane all’affamato, ho dato acqua all’assetato, ho vestito chi era nudo, ho offerto un passaggio a chi non aveva una barca”. Unica novità apportata da Gesù è che egli si identifica con queste persone: qualunque cosa sia fatta a uno di questi piccoli è fatta a lui.
I valori che suggerisce non assomigliano a quelli per i quali la maggioranza degli uomini perde la testa, ma sono quelli che contano agli occhi di Dio.
Qual è l’ideale di uomo proposto dalla nostra società? È colui che detiene il potere, chi è ricco, chi può permettersi di soddisfare ogni capriccio, chi è sempre inquadrato dalle telecamere. “Uomini di successo” sono l’atleta che fa impazzire gli stadi, la star televisiva e chiunque sia riuscito a diventare un personaggio per notorietà o carriera. Due sociologi hanno provato a redigere un decalogo per chi vuole raggiungere il successo; il decimo comandamento è questo: “Terrai sempre presente che la tua carriera sarà finita il giorno in cui aiuterai qualcuno per pura generosità e senza calcolo”.
Dio la pensa in modo opposto. Quando per ogni uomo si concluderà la sua storia sulla terra, quando ognuno rimarrà solo con se stesso e con Dio, un solo bene risulterà prezioso: l’amore. La vita sarà considerata riuscita o fallita a secondo dell’impegno profuso per eliminare sei situazioni di sofferenza e di povertà: la fame, la sete, l’esilio, la nudità, la malattia, la prigione.
Un particolare viene accuratamente sottolineato nel racconto: nessuno di coloro che ha compiuto le opere di misericordia si è reso conto di averle rese a Cristo. L’amore è autentico solo se è disinteressato, se è esente persino da ogni forma di autocompiacimento; chi agisce in vista di una ricompensa, foss’anche quella celeste, non ama ancora in modo genuino.

E la condanna?
I rabbini erano soliti ripetere due volte i loro insegnamenti per imprimerli meglio nella mente dei discepoli. Spesso presentavano il loro messaggio prima in forma positiva, poi in forma negativa. Ricorrevano al noto artificio letterario detto “parallelismo antitetico”, usato anche da Gesù (Lc 6,20-26; Mt 7,24-27; Mc 16,16…).
Il nostro brano ne è un esempio: la seconda parte (vv. 41-45) non aggiunge assolutamente nulla alla prima; costituisce un espediente stilistico utilizzato per ribadire il concetto già espresso. Ciò che preme a Gesù non è incutere terrore agitando lo spauracchio dell’inferno, ma indicare – con immagini forti, perché il pericolo di sprecare la vita è molto serio – ciò che realmente conta. Non intende annunciare ciò che accadrà alla fine del mondo, ma far riflettere, aprire gli occhi, svelare il giudizio di Dio sulle scelte da fare oggi.
Un semplice esempio può aiutare a capire. In una gioielleria sono esposti due monili, uno di oro zecchino anche se un po’ consumato dall’uso, l’altro di ottone ben lucidato. Entra un acquirente inesperto che rimane affascinato dal luccichio del monile di ottone. Per sua fortuna compare un intenditore che lo mette in guardia: attento – gli dice – non sprecare i tuoi soldi per quella patacca! Questo giudizio lo salva, gli impedisce di commettere un errore. Anche se l’intenditore usasse espressioni dure e minacciose, le sue parole sarebbero comunque un messaggio di salvezza.
Sostenere che la scena di giudizio descritta da Gesù si riferisca alla condanna dei peccatori alle pene dell’inferno ci appare azzardato. L’inferno esiste, ma non è un luogo creato da Dio per punire, al termine della vita, chi si sarà comportato male. È una condizione di infelicità e di disperazione creata dal peccato. Dall’inferno del peccato è però possibile uscire: si viene liberati da Cristo e dal suo giudizio di salvezza.
Ma Dio, alla fine, non castigherà i malvagi?
A noi un giudice appare giusto quando, dopo aver valutato il male commesso, punisce con equità. Ma non è questa la giustizia di Dio. Egli è giusto non perché premia o castiga conforme ai nostri criteri e alle nostre attese – in tal caso non avremmo speranza e saremmo tutti rovinati – ma perché riesce a rendere giusti coloro che sono malvagi (Rm 3,21-26). La questione dunque non è: chi sarà considerato pecora e chi capro alla fine del mondo, ma in quali occasioni oggi siamo pecore e in quali ci comportiamo da capri. Siamo pecore quando amiamo il fratello, siamo capri quando lo trascuriamo.
E alla fine?
È davvero difficile sostenere che il buon pastore – cui nessuno riuscirà a strappare di mano alcuna pecora (Gv 10,28) – dopo averci lasciato saltare come capretti un po’ a destra e un po’ a sinistra, non trovi comunque il modo di farci diventare tutti... suoi agnelli.

Padre Fernando Armellini, biblista

venerdì 11 novembre 2011

Sembra prudenza ma è pigrizia


XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Sembra prudenza, ma è pigrizia


Gesù ha raccomandato di essere “prudenti come i serpenti” (Mt 10,16), eppure, il suo comportamento e le sue parole paiono distanti da ciò che comunemente s’intende per prudenza: ha pronunciato invettive contro scribi e farisei (Mt 23) e ironizzato sul loro incedere in “lunghe vesti” (Mc 12,38), si è messo contro i sadducei, sconfessando le loro convinzioni teologiche (Mt 22,23-33), ha chiamato Erode “volpe” (Lc 13,32) e ha lanciato frecciate ai re che, “avvolti in morbide vesti”, vivono in sontuosi palazzi (Mt 11,8). Violava il sabato, frequentava gente malfamata e impura, chiamava “serpenti, razza di vipere” le guide spirituali del popolo (Mt 23,33) e asseriva che i pubblicani e le prostitute li avrebbero preceduti nel regno dei cieli (Mt 21,31)… Ma che prudenza è questa?
L’alternativa c’era: non muoversi da Nazareth e limitarsi a lavorar di pialla, tenere la bocca chiusa o aprirla solo per adulare; ignorare le folle affamate, stanche e allo sbando “come pecore senza pastore” (Mc 6,34); chiudere il cuore alla compassione di fronte all’uomo dalla mano inaridita e rassegnarsi al fatto che a volte un uomo conti meno di una pecora (Mt 12,12); tapparsi le orecchie per non udire il grido dei lebbrosi (Lc 17,13) e lasciare che l’adultera venisse lapidata (Gv 8,5).
La prudenza di Dio non è quella degli uomini, un alibi alla pigrizia, all’infingardaggine, all’inerzia, al disinteresse. È meglio correre il rischio di sbagliare per amore piuttosto che rinunciare a lottare per i grandi valori; è meglio vedere il seme della parola rifiutato da un terreno sterile – come è accaduto a Paolo all’areopago (At 17,32-34) – piuttosto che nasconderlo, per paura, avvolto nel silenzio.


Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Gioia piena è lasciarsi coinvolgere nei progetti del Signore, senza paura”.


Prima Lettura (Pr 31,10-13.19-20.30-31)

10 Una donna perfetta chi potrà trovarla?
 Ben superiore alle perle è il suo valore.
 11 In lei confida il cuore del marito
 e non verrà a mancargli il profitto.
 12 Essa gli dá felicità e non dispiacere
 per tutti i giorni della sua vita.
 13 Si procura lana e lino
 e li lavora volentieri con le mani.
 19 Stende la sua mano alla conocchia
 e mena il fuso con le dita.
 20 Apre le sue mani al misero,
 stende la mano al povero.
 30 Fallace è la grazia e vana è la bellezza,
 ma la donna che teme Dio è da lodare.
 31 Datele del frutto delle sue mani
 e le sue stesse opere la lodino alle porte della città.

“Quattro qualità si riscontrano nelle donne: sono golose, curiose, pigre e gelose. Sono anche piagnucolone e loquaci”. Così si esprimevano i rabbini del tempo di Gesù e, tra il serio e il faceto, aggiungevano: “Quando Dio creò il mondo aveva a disposizione dieci cesti di parole, le donne ne presero nove e gli uomini una”.
Spiritosaggini (spesso infelici) sulle donne si ritrovano in proverbi di tutti i popoli e non c’è da meravigliarsi che siano riprese anche nei libri della Bibbia. Ci sono testi dell’AT in cui la donna compare come seduttrice, chiacchierona, gelosa, curiosa, vanitosa (Sir 25,12-36); sono un riflesso della mentalità del tempo.
La lettura di oggi propone un brano in cui si fa invece l’elogio della donna. Della donna perfetta si assicura che ha un valore inestimabile; al suo confronto, le perle – tanto apprezzate nell’antichità – paiono spregevoli e vili (v. 10).
Ma la donna può anche costituire un pericolo, può tramutarsi in seduttrice. È facile – ammonisce il Siracide – cadere nei lacci della cortigiana o rimanere ammaliati dalle moine di una cantante (Sir 9,3-4). Come potremo distinguere una donna di valore da una maliarda? Quali caratteristiche permettono di riconoscerla? Eccone l’elenco.
Anzitutto è una brava moglie: rende felice il marito e in famiglia diffonde pace, serenità e armonia (vv. 10-12).
È operosa (vv. 13.19), non se ne sta con le mani in mano, non perde tempo in chiacchiere insulse e frivole, si dà da fare affinché nella sua casa tutto sia in ordine e ognuno sia soddisfatto e felice. Non si preoccupa solo del marito e dei figli, vuole che anche i suoi servi siano ben vestiti e abbiano cibo in abbondanza.
La laboriosità della donna era sottolineata anche dai rabbini: “La donna – ammettevano – lavora sempre anche mentre parla. Non è abitudine della donna stare seduta in casa senza fare niente”.
La terza qualità: ha un cuore grande. Non si chiude nel dolce nido familiare che è riuscita a costruirsi, ma si guarda attorno e, di fronte alle necessità di chi è meno fortunato di lei, si commuove, corre in aiuto di chi è nel bisogno, condivide i suoi beni con i derelitti (v. 20).
La quarta e ultima caratteristica: è religiosa, devota, fedele ai comandamenti di Dio (v. 30). Dicevano i rabbini: “Il pensiero della donna è solo per la sua bellezza”. La donna ideale di cui parla la lettura smentisce questo stereotipo: non lega il cuore alle vanità, s’interessa a ciò che realmente vale nella vita.
Ce ne sono molte di donne così? Il brano di oggi inizia con una domanda provocatoria: “Una donna perfetta chi potrà trovarla?” (v. 10). Possiamo rispondere, senza timore di smentite, che sì, ne esistono molte ed è significativo il fatto che, in questa domenica, la liturgia, parlandoci di laboriosità, dedizione e impegno, abbia scelto di associare queste virtù alla donna. È un invito a riflettere.


Seconda Lettura (1 Ts 5,1-6)

1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. 3 E quando si dirà: “Pace e sicurezza”, allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. 4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: 5 voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. 6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii.

Abbiamo già detto domenica scorsa che a Tessalonica c’erano tensioni e inquietitudini perché si era diffusa la convinzione che la fine del mondo e il ritorno del Signore fossero imminenti.
Desiderosi di avere chiarimenti al riguardo, i tessalonicesi avevano incaricato Timoteo e Sila di chiedere a Paolo se era in grado di dare indicazioni precise circa il tempo in cui questi fatti sarebbero accaduti.
Nella lettura di oggi l’Apostolo risponde: non è possibile saperlo (v. l) e ne dà la ragione. Dio – dice – è solito agire in modo imprevedibile, interviene quando meno te l’aspetti, si comporta come un ladro che giunge all’improvviso, quando la gente sta dormendo, è come le doglie della partoriente che compaiono durante la notte (vv. 2-3).
Non vale la pena – conclude – investigare per scoprire il giorno e l’ora della venuta del Signore. Ciò che importa è evitare di lasciarsi avvolgere dalle tenebre del male. I cristiani non dovrebbero correre questo pericolo perché, dal giorno del loro battesimo, sono divenuti figli della luce e figli del giorno; è impossibile che vengano colti di sorpresa, come accade a chi è immerso nell’oscurità o è intontito dal sonno (vv. 4-6).


Vangelo (Mt 25,14-30)

14 Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.
16 Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
19 Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 21 Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 23 Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
24 Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. 26 Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 30 E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.

La durezza del padrone nei confronti del terzo servo pare eccessiva. Poteva – secondo noi – mostrarsi più comprensivo perché il suo dipendente, oltre a sentirsi intimorito, aveva forse avuto anche l’impressione di essere stato sottovalutato. È in quest’ottica che, nei primi secoli della chiesa, qualcuno ha ritoccato la parabola e l’ha conclusa così: il terzo servo non era un disonesto, aveva soltanto paura, per questo il padrone si limitò a rimproverarlo, con dolcezza. C’era anche un quarto servo al quale erano stati consegnati dei talenti, costui si diede alla bella vita, sperperò tutto con prostitute e con suonatrici di flauto; il padrone lo fece mettere in carcere. Nessuno però venne trattato senza pietà.
Chi ha modificato in questo modo il racconto non ha capito che Gesù non intendeva dare una lezione morale sull’onestà e sul modo di investire il denaro, ma piuttosto sull’impegno nel porre a frutto i tesori che appartengono ad ognuno. Per quanto riguarda poi la presunta scarsa stima del padrone per il terzo servo, questa va esclusa: un talento era, a quei tempi, una somma di tutto rispetto e corrispondeva allo stipendio di circa vent’anni di lavoro di un operaio.
Chiariamo subito il significato dei talenti. Si è fatta strada l’idea – difficile da estirpare – che i talenti indichino le doti che ogni uomo ha ricevuto da Dio, doti che non devono rimanere nascoste, ma sviluppate e poste in esercizio. Questa interpretazione non si accorda con quanto è detto al v. 15 dove i talenti vengono consegnati “a ciascuno secondo le sue capacità”. Talenti e qualità del singolo dunque non sono la stessa cosa.

Veniamo ai personaggi. Sono introdotti nella prima parte della parabola (vv. 14-15).
Il protagonista è un ricco signore orientale che, dovendo partire per un lungo viaggio, affida i suoi averi ai servi più fidati. Ne conosce le capacità, le attitudini, le competenze e, in base ad esse, stabilisce quanto affidare a ciascuno. Questo signore rappresenta chiaramente Cristo che, prima di lasciare il mondo, ha consegnato tutti i suoi beni ai discepoli.
Il padrone non fornisce alcuna indicazione sul modo di gestire i talenti, dando segno di piena fiducia nell’intelligenza, nella perspicacia, nell’avvedutezza dei suoi servi e di rispetto della loro libertà.
Definiamo in che consistono questi beni. Si tratta di ciò che Gesù ha consegnato alla sua chiesa: il vangelo, cioè il messaggio di salvezza destinato a trasformare il mondo e a creare un’umanità nuova; il suo Spirito “che rinnova la faccia della terra” (Sal 104,30) e anche se stesso nei sacramenti; e poi il suo potere di curare, di consolare, di perdonare, di riconciliare con Dio.
I tre servi rappresentano i membri delle comunità cristiane. A ciascuno di loro è affidato un incarico da svolgere affinché questa ricchezza del Signore possa essere messa a frutto. Conforme al proprio carisma (1 Cor 12,28-30), ognuno è chiamato a produrre amore. È l’amore infatti il guadagno, il frutto che il Signore pretende.

La seconda parte della parabola (vv. 16-18) descrive il diverso comportamento dei servi: due sono intraprendenti, dinamici, solerti, mentre il terzo è timoroso e insicuro.
 Il tempo che tutti e tre hanno a disposizione è quello in cui il padrone è lontano: va dalla Pasqua fino alla venuta di Cristo al termine della storia del mondo; è il tempo in cui la chiesa organizza la sua vita, cresce, si sviluppa, si impegna in favore dell’uomo nell'attesa del ritorno del suo Signore.
Matteo vuole stimolare le sue comunità ad una verifica. Le invita a chiedersi anzitutto se sono coscienti del tesoro che hanno in mano, a controllare se tutti i “talenti” sono impiegati al meglio o se qualche dono è stato nascosto sotterra, se ci sono aspetti della vita ecclesiale trascurati, se qualche ministero langue.

Nella terza parte della parabola (vv. 19-30) assistiamo alla resa dei conti. La scena, inizialmente tranquilla e serena, diviene poi cupa e – come spesso accade nel vangelo di Matteo – si conclude in modo drammatico. Vediamola.
Si presentano i primi due servi che, con giustificato orgoglio, dichiarano al padrone di avere raddoppiato i suoi averi. Nel brano parallelo del vangelo di Luca, i due servi sembrano voler riconoscere che un risultato tanto sorprendente, più che ai loro sforzi, è da attribuire alla bontà del capitale: “La tua moneta – dicono – ne ha fruttate altre…” (Lc 19,16.18). In Matteo invece, vengono messe in rilievo l’abilità e il merito personali: “Io ne ho guadagnati…” – dichiara ciascuno dei due servi (vv. 20.22). La ricompensa che ricevono è “la gioia del loro Signore”, la felicità che deriva dall’essere in sintonia con Dio e il suo progetto.
Poi compare colui che, pur non essendo il protagonista, risulta essere il personaggio principale della parabola, il terzo servo. “So – dice al padrone – che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo”.
L’immagine che questo servo si è fatta del padrone, pur terrificante, non viene corretta, anzi riceve conferma. Matteo se ne serve per indicare quando a Cristo stia a cuore il bene dell’uomo, quanto gli prema che nel mondo si instauri presto il regno di Dio. “L’ira del Signore” è un’espressione biblica con cui si vuole sottolineare il suo incontenibile amore.
Nel rimprovero che il padrone rivolge al servo infingardo si trova il messaggio centrale della parabola: l’unico atteggiamento inaccettabile è il disimpegno, è il timore di rischiare. Anche ai primi due forse non tutte le operazioni economiche erano riuscite bene, tuttavia viene condannato solo chi si è fatto bloccare dalla paura.
Discepoli solerti e neghittosi c’erano al tempo di Matteo e continuano ad esserci nelle nostre comunità. Ci sono cristiani dinamici e intraprendenti che si impegnano per dare un volto nuovo alla catechesi, alla liturgia, alla pastorale, che si dedicano con passione allo studio della parola di Dio per coglierne il significato autentico e profondo, che sono generosi e attivi e che, a volte per eccesso di zelo, commettono errori e non sempre indovinano le scelte da fare. Altri cristiani invece sono pigri e timorosi di tutto. Si limitano a ripetere in modo monotono e tedioso gli stessi gesti, le stesse frasi fatte, non studiano, si infastidiscono se qualcuno propone interpretazioni nuove, non si pongono nemmeno l’interrogativo se certi cambiamenti siano voluti dallo Spirito; si sentono sicuri solo all’interno di ciò che è sempre stato detto e fatto in passato, ogni slancio verso il futuro, ogni conquista dell’uomo li spaventa; non vibrano per i grandi valori della libertà e della fratellanza. Hanno paura.
Incredibile, ma vero, si può rimanere paralizzati dalla paura di Cristo. Una certa spiritualità del passato incitava ad agire, ma raccomandava soprattutto di non commettere peccati mortali, di mantenersi in grazia di Dio, rimanendo fedeli a comandamenti e precetti; ai trasgressori minacciava pene terribili.
Questa spiritualità creava il terzo tipo di servi, cioè i cristiani che, per evitare i peccati, giocavano sempre sul sicuro. Non potevano rischiare, perché chi tenta, chi si impegna si espone inevitabilmente al rischio di sbagliare.
Chi si è fatto banditore di questa paura, senza rendersene conto è divenuto causa della mancanza di amore, della sterilità nel bene, del letargo spirituale.
Il “talento” della parola di Dio, per esempio, fruttifica solo quando se ne coglie il vero significato, quando la si traduce in un linguaggio comprensibile all’uomo d’oggi, quando è applicata alla vita ed alle situazioni concrete della comunità, altrimenti rimane un capitale morto, non produce alcun cambiamento, non scuote le coscienze, non provoca, non inquieta nessuno.
La punizione per chi rende improduttivi i talenti del Signore è l’esclusione dalla sua gioia. Non è la condanna all’inferno, ma è il fatto di non appartenere oggi al regno di Dio.
Che deve fare chi non se la sente di impegnarsi, chi non ha il coraggio di mettere a frutto i beni del Signore? Non deve continuare ad occupare inutilmente una carica o un posto di responsabilità, ma deve consegnare il suo ministero alla banca, cioè alla comunità, in modo che essa provveda ad affidare questo servizio a un altro che sia disposto a svolgerlo con impegno, perché i fratelli hanno bisogno che tutti i ministeri siano ben adempiuti.

La conclusione della parabola – “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” – è un proverbio popolare che riflette un dato di fatto facilmente verificabile: la ricchezza tende ad accumularsi e il ricco diviene sempre più ricco. Richiamato in questa parabola, questo detto vuole significare che, con le ricchezze del regno di Dio, accade la stessa cosa: le comunità generose e attente ai segni dei tempi progrediscono e acquistano sempre maggior vitalità, mentre quelle che preferiscono ripiegarsi su se stesse invecchiano, decadono e nessuno si meraviglierà di vederle un giorno sparire.
Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 5 novembre 2011

Il Regno dei cieli è simile a dieci vergini che prese le loro lampade

Nutriamoci della Parola di Dio 06 novembre 2011

Vangelo (Mt 25,1-13)

1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.
6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

Nella parabola di oggi ci sono alcuni dettagli strani, poco verosimili, addirittura contraddittori. Ne elenco alcuni: come mai le vergini stolte non entrano alle nozze col poco olio che ancora rimane loro? Cosa passa loro per la mente di andare a comperarne al mercato? A mezzanotte non ci sono mercati aperti. Le vergini sagge sono introdotte con grande onore alla festa, ma a noi verrebbe voglia di scacciarle: non sapremmo che farcene di amiche tanto egoiste. La raccomandazione con cui si conclude il racconto: “vigilate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (v. 13) non c’entra affatto con la parabola, perché anche le vergini sagge hanno dormito e nessuna è stata vigilante.
Anche la figura dello sposo (che rappresenta chiaramente Cristo) non è per nulla simpatica. È un tipo strano: arriva ad un ora impossibile, poi, proprio nel giorno in cui dovrebbe mostrarsi affabile con tutti, inizia a minacciare e a scacciare le persone per errori da niente. Al suo banchetto tutti noi parteciperemmo con apprensione.
Per comprendere questi particolari strani, bisogna tener presente anzitutto che ci troviamo di fronte ad una parabola e, nelle storie, non tutto è logico; a volte vengono introdotti elementi che hanno come unico scopo provocare la fantasia dell’ascoltatore, mantenerlo interessato e attento, per fargli assimilare più facilmente il messaggio. I particolari drammatici della nostra parabola sono dovuti – come ho già avuto modo di dire altre volte – al tipico gusto orientale per le immagini impressionanti. Non è su di essi che si deve fissare l’attenzione, ma sull’insegnamento centrale.
C’è un altro elemento importante da tenere presente per comprendere la parabola: il racconto iniziale di Gesù è stato ritoccato da Matteo che l’ha adattato ai bisogni catechistici delle sue comunità. Vedremo come.

La festa di nozze in Israele era molto solenne e durava circa una settimana. Nel primo giorno lo sposo si recava alla casa dei suoceri a prendere la sposa per portarla con sé. Ad accoglierlo c’erano le damigelle – le ragazze nubili del villaggio – che, cantando, danzando e, se era notte, impugnando fiaccole, accompagnavano l’amica che si sposava fino alla sua nuova dimora dove si svolgeva la festa di nozze.
Gesù prende spunto da questa cerimonia – cui ha certo assistito e partecipato spesso – per comporre una parabola con cui mediare un suo messaggio.
Se si tiene presente che, sia il numero cinque sia la vergine sono simboli del popolo di Israele e che il numero dieci indica la totalità, è facile cogliere il significato che la parabola ha avuto sulla bocca di Gesù. Le dieci vergini rappresentano il popolo di Israele che attende il messia (lo sposo): una parte di questo popolo (le cinque vergini sagge) è preparata ad accoglierlo ed entra nella comunità cristiana, un’altra parte invece (le cinque vergini stolte) non è attenta ai progetti di Dio, è infedele e resta fuori dalla sala del banchetto.
Cinquant’anni dopo, quando Matteo scrive il suo vangelo, il contesto storico, culturale e religioso è mutato, sono sorte comunità cristiane nel mondo pagano, i problemi con cui i discepoli si devono confrontare sono diversi e, nella nuova situazione, si sente più che mai il bisogno della parola illuminante del Maestro. Matteo – da vero pastore d’anime attento ai bisogni spirituali della sua chiesa – riprende la parabola di Gesù e la ripropone, adattandola alla nuova realtà.
Quali erano i problemi delle comunità cristiane alla fine del I secolo d.C.?
Abbiamo visto nella seconda lettura che, nei primi decenni di vita della chiesa, si era diffusa la convinzione che il Signore sarebbe tornato presto “sulle nubi del cielo” per prendere con sé e introdurre nella gloria i suoi discepoli. Ma non era accaduto nulla, l’attesa febbrile era andata delusa, erano sorti i primi dubbi, erano subentrati nelle comunità la stanchezza e lo scoraggiamento e, come conseguenza, si registravano fra i cristiani molte defezioni. Qualche apostata rivolgeva anche battute ironiche ai suoi antichi fratelli di fede: “Dov’è la promessa della venuta del Signore? Dal giorno in cui i nostri padri hanno chiuso gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (1 Pt 3,4).
Delusi per il mancato ritorno del Signore, molti riprendevano la vita dissoluta che avevano condotto prima del battesimo, tornavano a interessarsi del commercio e degli affari, assumevano di nuovo atteggiamenti arroganti nei confronti dei loro dipendenti e sfruttavano gli schiavi, proprio come se non avessero mai udito il vangelo di Cristo. Erano sprofondati in un pericoloso sonno spirituale, erano in balìa del più completo ottundimento della coscienza.
È per richiamare queste persone che hanno lasciato spegnere in loro la fiaccola della fede, è per scuotere chi permette che la propria fede si riduca ormai a un lucignolo fumigante che Matteo riscrive la parabola. La scena è quella del giudizio di Dio, le tinte sono cupe, il linguaggio è duro, ma è la situazione che lo richiede. C’è anche l’aggiunta di un’esortazione che Gesù ha certamente pronunciato in altra occasione – “Vigilate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora!” (v. 13) – ma l’evangelista ritiene opportuno collocarla in questo contesto.

Nella prima parte della parabola (vv. 1-5) vengono introdotti i personaggi e descritti i preparativi per la festa.
Nella nuova versione – quella adattata da Matteo alla sua comunità – le dieci vergini non indicano più Israele, ma la chiesa che attende il ritorno del suo Signore, del suo Sposo. Ha così una spiegazione logica anche il fatto che non compaia la sposa: è la comunità cristiana la sposa, rappresentata dalle dieci vergini.
“Cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (v. 2).
Qui viene ripreso un tema caro a Matteo: nella comunità cristiana convivono il male e il bene; il grano e la zizzania crescono nello stesso campo; i pesci buoni e quelli cattivi si trovano nella stessa rete; gente pulita e gente sporca siede alla stessa mensa; i sapienti e gli stolti sono affiancati.
Si noti anche che le vergini stolte sono nominate per prime, perché sono loro che destano preoccupazioni. Rappresentano i cristiani a rischio, quei discepoli che si sono assopiti e che si comportano come ragazze frivole, vanesie e svampite, che perdono la testa per i vestiti, i monili, i profumi, il look e trascurano l’essenziale. Puntano la vita su ciò che è caduco, trascurano i valori autentici, dimenticano l’unica cosa necessaria, quella che Maria aveva scelto stando ai piedi del Signore e divenendo sua discepola (Lc 10,38-42).
Le vergini vigilanti sono invece i cristiani che non si lasciano sedurre dalle vanità e rimangono concentrati su ciò che è importante nella vita.
La parabola è riproposta ai cristiani di oggi, per aiutarli a scoprire e riconoscere la “vergine stolta” che si trova in ognuno di loro. Spesso è lei che – senza che se n’avvedano – li prende per mano, li consiglia, li guida, dà suggerimenti e orienta verso scelte insensate.

Nella seconda parte della parabola (vv. 6-9) c’è, anzitutto, il grido di qualcuno che, più vigilante degli altri, intuisce per primo che sta per giungere lo sposo, poi vengono messi a confronto i due gruppi e il modo opposto con cui hanno vissuto il tempo dell’attesa.
Il comportamento sconcertante delle vergini sagge, che rifiutano il loro olio alle compagne, contiene un messaggio prezioso. In passato si udiva ripetere dai maestri spirituali la frase: “L’importante è morire in grazia di Dio”, quasi bastasse un buon sentimento, un buon pensiero al termine della vita, per rimettere a posto un’esistenza gestita male. Una vita rovinata non viene ricostruita all’ultimo minuto e nessuno può prestare parte della sua. L’importante dunque non è morire bene, ma vivere bene. Dio – è vero – trova sempre e comunque il modo di salvare l’uomo, ma alla fine ognuno si ritroverà con ciò che ha fatto: con un palazzo splendido e solido o con un castello di cartapesta, che non resisterà al fuoco del giudizio di Dio, quando egli “metterà alla prova la qualità dell’opera di ognuno” (1 Cor 3,13-17).

La terza parte (vv. 10-12) contiene la scena di giudizio: arriva lo sposo, alcuni sono ammessi alla festa, altri sono rifiutati.
In Matteo le parabole si concludono spesso in modo drammatico, con minacce e castighi. Questi non sono introdotti per terrorizzare, ma per mettere in guardia da comportamenti errati che conducono al fallimento. Sono un richiamo all’importanza del momento presente, l’unico che ci è dato e che neppure Dio ci può far rivivere. Se lo si investe male, è perso per sempre.
La chiusura della porta indica la fine di tutte le opportunità. Da qui l’urgenza di stabilire come impiegare bene la vita e l’immagine della lampada accesa suggerisce il modo.
Verrà approvato da Dio chi avrà fatto scelte evangeliche, sarà stato perseverante e avrà mantenuta accesa nella mente e nel cuore la luce della fede, anche nei momenti in cui le prove e le difficoltà saranno andate al di là del previsto. Verrà condannata e giudicata insensata, invece, la scelta di chi, per un po’, avrà seguito le proposte di Cristo, ma poi, stanco, avrà ripiegato su altri valori, su altri interessi.
Solo questo è il messaggio della parabola, il resto è drammatizzazione per renderlo incisivo, non è la descrizione di ciò che Gesù farà alla fine del mondo con chi si sarà comportato da stolto.

L’epilogo (v. 13) è un ultimo richiamo alla vigilanza: lo Sposo può venire da un momento all’altro ed è necessario essere sempre pronti ad accoglierlo.
Sarebbe un errore immaginare questo mondo come una sala d’attesa in cui, seduti, pazienti e magari sonnecchiando, i cristiani aspettano che il Signore venga a prenderli per introdurli nel mondo futuro.
Questa concezione (che era quella di alcuni cristiani di Tessalonica) ha dato origine al disimpegno, all’immobilismo, alla disaffezione, al disinteresse per i problemi del mondo e delle realtà terrene e questi atteggiamenti sono quanto di più antievangelico si possa immaginare.
Gesù non viene solo al termine della nostra vita, viene in ogni istante e vuole trovare i suoi discepoli impegnati nel servizio, nel dono di sé al fratello. Nella loro stanza, la lampada deve essere sempre accesa, come punto di riferimento e richiamo di speranza per il povero in cerca di aiuto, per l’emarginato e lo straniero che invocano amore e giustizia, per la donna che chiede rispetto, per chi è vittima di violenza e anela alla pace, per chi ha sbagliato e ha bisogno di comprensione e di perdono.

Padre Fernando Armellini, biblista