sabato 27 agosto 2011

24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

Vangelo (Mt 16,21-27)

21 Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. 22 Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”. 23 Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”.
24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
26 Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? 27 Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”.


Gli ebrei del tempo di Gesù vivevano nell’attesa di un mondo migliore, del “secolo che deve venire”, ricco di pace e di giustizia. Basandosi su Ez 49, i rabbini annunciavano, per “gli ultimi tempi”, una trasformazione prodigiosa della terra: nei giorni del messia – assicuravano – la Palestina si trasformerà in un giardino e i giardini diverranno foreste; la fertilità del suolo sarà moltiplicata per mille, ci sarà ricchezza per tutti e abbonderà ogni bene, come nel periodo paradisiaco degli inizi.
Erano queste le speranze che coltivavano anche gli apostoli, convinti com’erano che la venuta del regno di Dio fosse imminente. Avevano intuito che il loro maestro era il Cristo, l’atteso “figlio di Davide”; l’avevano seguito per vedere realizzati i loro sogni di gloria. L’unica questione che, secondo loro, rimaneva ancora in sospeso era stabilire a chi sarebbero spettati i primi posti (Mc 9,34).
È nel contesto di queste attese che va collocato il primo dei tre annunci della passione che si trovano nel vangelo. A metà della sua vita pubblica, Gesù si rende conto di dover correggere, in modo deciso, le convinzioni dei suoi discepoli, non vuole che lo seguano cullandosi in vane illusioni. Per evitare ogni equivoco, dichiara apertamente che non si incammina verso il trionfo, ma va a Gerusalemme per soffrire molto, per essere ucciso e per risuscitare il terzo giorno (v. 21).
La logica umana non può che sentirsi sconvolta di fronte a una simile proposta. I discepoli non possono capire, hanno appreso dagli scribi che il messia non può morire; è stato insegnato loro che, alla sua venuta i giusti che giacciono nei sepolcri risorgeranno per prendere parte alla gioia del suo regno e Pietro, in nome di tutti, reagisce (vv. 32-33). Non ha paura dei sacrifici, un giorno darà prova di saper rischiare anche la vita, se necessario, (Gv 18,10), ma non è disposto ad impegnarsi per un progetto assurdo, non accetta di porsi su una strada che porta diritta al fallimento e vorrebbe che anche Gesù se ne rendesse conto e cambiasse idea.
La scena che segue è quanto mai significativa e realistica. Pietro prende in disparte il Maestro, come per rincuorarlo in un momento di sconforto, come se volesse fargli capire che, in un attimo di smarrimento, è comprensibile che possa anche sfuggire una frase infelice.
La reazione di Gesù al tentativo di distoglierlo dal suo cammino è dura, quasi irritata: “Lungi da me, satana!” – dice il nostro testo, ma la traduzione non è esatta. Gesù non intende allontanare Pietro, ma metterlo sul retto cammino. “Vai dietro a me” – gli ingiunge – segui i miei passi, non tentare di precedermi, come chi pretende di indicare la strada; questa è già stata tracciata dal Padre e tu Pietro fai una proposta che deriva dalla sapienza terrena, dalle astuzie umane che sono insensatezza agli occhi di Dio.
Pietro non sta commettendo un errore banale, sta muovendosi in direzione opposta a quella del Signore, sta comportandosi esattamente come satana che ha tentato di convincere Gesù a puntare sul dominio, sulla conquista del potere. Lo aveva condotto su un monte altissimo e gli aveva mostrato tutti i regni del mondo con la loro gloria, dicendogli: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”, ma Gesù aveva reagito deciso: “Vattene, satana!” (Mt 4,8-10). Ora alla stessa tentazione – avanzata da Pietro – non può che rispondere con la stessa durezza.
La scena descritta nel vangelo di oggi forma una dittico con quella della scorsa domenica. Simone era stato indicato da Gesù come la pietra viva della chiesa perché aveva accolto la rivelazione del Padre, aveva accettato il suo disegno di salvezza e aveva professato la sua fede nel Figlio del Dio vivente. Ora diviene pietra di scandalo perché si lascia guidare da ragionamenti umani: mira alla gloria, ai successi, agli onori, per questo costituisce un intralcio sul cammino del Maestro e dei discepoli.


Dopo aver rimproverato Pietro, Gesù si rivolge a tutti (vv. 24-27) ed espone in modo inequivocabile le sue richieste. Nessun tentativo di mitigarle, di renderle più accettabili! Se il Maestro ha scelto di donare la vita e se “il discepolo non è superiore al maestro” (Mt 10,24), il cammino dovrà necessariamente essere lo stesso.
Tre imperativi caratterizzano la radicalità di una scelta che non ammette né indugi né ripensamenti: “Rinnega te stesso, prendi la croce, seguimi”.
Rinnega te stesso significa: smetti di pensare a te stesso. È il capovolgimento dei princìpi che in questo mondo regolano i rapporti fra le persone, è il rifiuto di quelli che tutti ritengono stimoli positivi perché spingono ad agire: la ricerca del proprio interesse, la volontà di ottenere gratificazioni, riconoscimenti, vantaggi. Persino nei gesti di amore più puro si nota spesso qualche velata forma di egoismo e di ambizione.
Il discepolo di Cristo è chiamato, anzitutto, a rinunciare a qualsiasi tornaconto personale, anche a quello spirituale; non compie il bene per accumulare meriti in cielo, per salire di un gradino nel proprio progresso spirituale; agisce pensando unicamente al fratello. Non prende minimamente in considerazione le ricadute positive che possono avere sulla sua persona le buone azioni che compie. Ama gratuitamente, in pura perdita, come fa il Padre.
Il secondo imperativo, prendi la tua croce, non si riferisce alla necessità di sopportare pazientemente le piccole o grandi tribolazioni della vita né, ancor meno, è un’esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non ricerca la sofferenza, ma l’amore.
La croce è il segno dell’amore e del dono più totale. Portarla dietro a Cristo significa seguire il cammino che egli ha percorso: dare la vita per i suoi stessi ideali, affrontare, se necessario, anche la persecuzione e la morte pur di rimanere fedeli al vangelo. “Porta la croce” chiunque sacrifica se stesso per fare del bene, per rendere felice qualcuno.
Il terzo imperativo, seguimi, non vuol dire “prendimi come modello”, ma, condividi la mia scelta, prendi parte al mio progetto, gioca la tua vita sull’amore all’uomo, insieme con me.


Nei versetti conclusivi (vv. 25-27) vengono presentate tre ragioni con cui Gesù cerca di convincere il discepolo ad accogliere le tre condizioni difficili che ha appena esposto.
La prima: colui che dona la propria vita, in realtà non la perde, ma la guadagna (v. 25). Chi tiene stretto nelle proprie mani il chicco di grano, chi lo consuma per sé, chi lo nasconde lo dissipa; solo chi ha il coraggio di perderlo gettandolo nella terra lo “conserva”, lo “ricupera”. Accade anche con la vita: per “guadagnarla” bisogna “perderla”, è necessario consumarla per i fratelli.
La seconda ragione (v. 26): la vita di questo mondo passa in fretta, è transitoria, fragile, precaria; non vale la pena aggrapparsi disperatamente ad essa come se fosse eterna. Risuonano qui le numerose riflessioni sapienziali sulla caducità della vita: “Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa; solo un soffio che si agita, accumula ricchezze e non sa chi le raccolga” (Sal 39,6-7).
La terza ragione (v. 27): la ricompensa finale. Ricorre spesso nel vangelo di Matteo la scena del giudizio, non come minaccia futura, ma come indicazione delle scelte sagge che devono essere fatte nel presente. Che cosa si potrà presentare a Dio al termine della vita? Non certo il denaro accumulato, i piaceri goduti, i riconoscimenti, la carriera. Alla fine il Signore non guarderà ai titoli onorifici che saremo riusciti a porre davanti al nostro nome, ma alle opere di amore che seguiranno il nome.
Quando si spegneranno i riflettori che hanno abbagliato la scena di questo mondo, quando si estingueranno gli ingannevoli luccichii degli idoli che hanno incantato e sedotto tante persone, allora brillerà soltanto la luce di Dio e apparirà il vero valore della vita di ognuno.

Padre Fernando Armellini , biblista

sabato 20 agosto 2011

Voi chi dite che io sia?

Nutriamoci della Parola di Dio 21 agosto 2011


Vangelo (Mt 16,13-20)


13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. 14 Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. 15 Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. 16 Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
17 E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
20 Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.


Sappiamo distinguere molto bene l’amico dal collega di lavoro, dai compagni di gioco, di bar, di tifoseria sportiva. Sono diversi i sentimenti che proviamo per una ragazza appena conosciuta, per la fidanzata, per la sposa. Quando si viene coinvolti nell’amore scatta il meccanismo della gelosia, compare il tormento di chi teme di perdere la persona amata, di chi non tollera rivali. È una passione non facile da controllare: “La collera è crudele, l’ira è impetuosa; ma chi può resistere alla gelosia?” (Pr 27,4); essa accorcia i giorni, anticipa la vecchiaia (Sir 30,24).
Anche Dio è “geloso” perché nessuno più di lui è innamorato dell’uomo. Per decine di volte nell’AT risuonano le espressioni: “Io, il Signore, sono un Dio geloso” (Es 20,5). “Sono acceso di grande gelosia per Sion” (Zc 8,2). “Dal fuoco della mia gelosia sarà consumata tutta la terra” (Sof 3,8). Dio esige l’amore esclusivo che coinvolge tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze (Dt 6,6); nel cuore dell’uomo non ci può essere posto che per lui.
Questo amore senza riserve è preteso anche da Cristo: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Nulla deve essergli anteposto, nemmeno gli affetti più naturali – è questo il senso dell’immagine paradossale da lui usata.
Un giorno, nei pressi della città che Filippo – uno dei figli di Erode il grande – ha fondato nell’estremo nord del paese, Gesù rivolge agli apostoli due domande. Abbastanza semplice la prima: “Chi sono io per la gente?”; più impegnativa la seconda: “Chi sono io per voi?”.
Le opinioni che circolano lo accostano a personaggi eminenti: a Giovanni Battista, a Elia, a Geremia, agli antichi profeti (vv. 13-14).
È innegabile l’ammirazione degli uomini di tutti i tempi per Gesù, eppure la stima e la venerazione non bastano. Egli non è la personificazione, la concretizzazione di valori eccellenti, perseguiti in genere da tutte le persone di buona volontà; non è uno dei tanti che si sono distinti per la loro onestà e lealtà, per l’amore ai poveri, per l’impegno in favore della giustizia, della pace, della non violenza.
Già come uomo – è vero – Gesù li distanzia tutti perché non segue le tattiche e le strategie umane. Basti considerare le scelte di avere aspettato la maturi­tà per iniziare la sua missione, di aver dato la precedenza alla vita nasco­sta, di non rivelare se non agli intimi e gradualmente il suo progetto, di aver capovolto tutte, ma proprio tutte le logiche umane fino a “consegnare” la sua vita, fino a fare della sconfitta il suo trionfo. Ma neanche questo è sufficiente per essere da lui ritenuti “discepoli”. Discepolo è chi ha capito che egli è unico, come unica è la persona di cui ci si innamora, di cui ci si fida ciecamente e per la quale si è disposti a tutto.
È a questo punto che interviene la risposta sorprendente di Pietro che, a nome anche degli altri, mostra di aver capito tutto. Gli dice: “Tu sei il Cristo”, tu sei il messia, il salvatore di cui hanno parlato i profeti e che tutto il nostro popolo attende (v. 16). Sei colui per il quale siamo disposti a giocarci la vita.
Difficile trovare un risposta più esatta, eppure – nell’ultimo versetto del brano (v. 20) – l’evangelista ricorda che Gesù impone ai discepoli il silenzio, severamente, come ha già fatto con i demoni. La ragione è semplice: Pietro ha dato una risposta esatta solo nella forma, in realtà ha in mente un’idea completamente distorta, è convinto che Gesù stia per dare inizio al regno di Dio sulla terra e pensa che questo si attuerà mediante una ostentazione di forza, prodigi e segni che lo imporranno all’attenzione di tutti. È certo che otterrà un successo strepitoso e questa è anche l’opinione degli altri discepoli che, pur avendo capito qualcosa di più rispetto alle folle, sono ancora prigionieri della mentalità comune che valuta la riuscita di una vita in base ai trionfi ottenuti. Nessuno si è ancora reso conto che, fin dall'inizio, il Maestro ha considerato diabolica la proposta di prendere il potere e di dominare sui regni di questo mondo.


Nella seconda parte del brano (vv. 17-20) viene riferita la risposta di Gesù a Simone: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa...”.
L’interpretazione di queste parole è più difficile di quanto sembri. Per quale ragione e in che senso Simone è chiamato “pietra” su cui viene edificata la chiesa? Una semplice affermazione del primato del papa? No, molto di più.
Cominciamo a fare due osservazione che ci possono aiutare a capire meglio questo importante testo.
Anzitutto notiamo che della “roccia” posta a fondamento della chiesa si parla altre volte nel NT e questa “roccia”, solida, inamovibile, è sempre e solo Cristo. “Nessuno – dichiara Paolo – può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1 Cor 3,11). Ai cristiani delle comunità dell’Asia Minore ricorda così la loro gloriosa condizione: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,19-21). Più esplicito ancora è Pietro che, nella sua prima lettera, invita i neo-battezzati a non staccarsi mai da Cristo, perché è lui la “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”; poi sviluppa l’immagine e, rivolto ai cristiani, dice: “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale”, uniti come siete alla “pietra angolare, scelta, preziosa” collocata da Dio, nel giorno di Pasqua, come base di tutta la costruzione (1 Pt 2,4-6).
La seconda osservazione è che il nome dato a Simone – Cefa-Pietro – in aramaico (la lingua parlata da Gesù) con tutta probabilità non significa roccia, ma semplicemente pietra da costruzione.
Se le cose stanno in questi termini, la pietra di cui parla Gesù è la fede professata da Pietro. È questa fede che costituisce il fondamento della chiesa, che la mantiene unita a Cristo-roccia, che la rende incrollabile e le permette di non essere mai sopraffatta dalle forze del male. Tutti coloro che, come Pietro e con Pietro, professano questa fede, vengono inseriti, come pietre vive, nell’edificio spirituale progettato da Dio.
L’espressione le porte dell’inferno non va materializzata. Queste porte rappresentano il potere del male, indicano tutto ciò che si oppone alla vita e al bene dell’uomo. Nulla mai – assicura Gesù – potrà impedire alla chiesa di portare a compimento la sua opera di salvezza, a condizione che rimanga sempre strettamente unita a lui, il figlio del Dio vivente.
Pietro riceve anche le chiavi e il potere di legare e di sciogliere. Prima di chiarire il significato di queste due immagini, usate frequentemente dai rabbini, notiamo che il potere di legare e di sciogliere non è riservato a Pietro, ma è conferito, subito dopo, a tutta la comunità (Mt 18,18; cf. Gv 20,23).
Consegnare le chiavi – lo abbiamo rilevato nel commento alla prima lettura – equivale ad affidare l’incarico di gestire la vita che si svolge all’interno del palazzo; significa concedere il potere di introdurre in casa o di negare l’accesso.
I rabbini erano convinti di possedere “le chiavi della Toràh” perché conoscevano le sacre Scritture; ritenevano che tutti dovevano dipendere da loro, dalle loro decisioni dottrinali, dai loro giudizi; si sentivano in diritto di discriminare fra giusti e ingiusti, fra santi e peccatori.
Gesù riprende questa immagine nella sua dura requisitoria contro gli scribi: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito (Lc 11,52). Invece di aprire la porta della salvezza, essi la sbarravano, non rivelando al popolo il vero volto di Dio e la sua volontà.
A costoro Gesù ha sottratto la chiave di cui si erano abusivamente appropriati; ora è soltanto sua. Riprendendo la profezia di Isaia su Eliakìm, il veggente dell’Apocalisse dichiara che è Cristo, e nessun altro, “colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre” (Ap 3,7).
L’edificio spirituale cui Gesù fa riferimento è “il regno dei cieli”, la condizione nuova in cui entra chi diviene suo discepolo e la chiave che permette di entrare è la fede professata da Pietro.
Consegnando le chiavi a Pietro, Gesù non lo incarica di fare il portinaio del paradiso, né, tanto meno, di “farla da padrone” sulle persone a lui affidate, ma gli ingiunge di “divenire modello del gregge” (1 Pt 5,3), gli affida il compito di spalancare a tutti l’ingresso alla conoscenza di Cristo e del suo vangelo. Chi passa attraverso la porta aperta da Pietro con la sua professione di fede (è questa la “porta santa”) accede alla salvezza, chi si rifiuta rimane escluso.
Anche l’immagine del legare e sciogliere è ben nota perché impiegata spesso dai rabbini del tempo di Gesù. Si riferiva alle decisioni riguardanti le scelte morali: legare significava proibire, sciogliere equivaleva a dichiarare lecito. Indicava anche il potere di pronunciare giudizi di approvazione o di condanna del comportamento delle persone e quindi di ammetterle o di escluderle dalla comunità.
Approfondiremo e chiariremo questo concetto quando, fra due domeniche, esamineremo Mt 18,18, dove emerge che questa stessa autorità di dichiarare chi appartiene al regno dei cieli e chi no, è concessa da Gesù a tutta la chiesa.
Concludendo possiamo dire che, dal brano evangelico di oggi, come da numerosi altri testi del NT (Mt 10,2; Lc 22,32; Gv 21,15-17), risulta chiaro che a Pietro è affidato un incarico particolare nella chiesa: è lui che compare sempre per primo, che è chiamato a pascere gli agnelli e le pecorelle e che deve sostenere nella fede i suoi fratelli.
I malintesi e i dissensi non sono nati da questa verità, ma dal modo di svolgere questo servizio. Lungo i secoli – lo ammettiamo con sincera umiltà – tante volte è degenerato e da segno di amore e di unità è divenuto espressione di potere.
Come lo stesso papa ha espressamente riconosciuto, è necessaria una revisione dell’esercizio di questo ministero, in modo che il vescovo di Roma divenga realmente per tutti, secondo la stupenda definizione di Ireneo di Lione (secolo II), “colui che presiede alla carità”.

Padre Fernando Armellini, biblista

domenica 14 agosto 2011

Maria, Assunta in Cielo per restarci sempre accanto



Maria, Assunta in Cielo per restarci sempre accanto




Il mariologo-esorcista Gabriele Amorth, ci spiega la pagina del "Vangelo di Maria" riguardante la verità più profonda dell’Assunzione della Vergine.


Celebrando, nelle nostre calure ferragostane, la festa di Maria Assunta in Cielo, ci torna caro pensare che la vera partecipazione della Vergine all’evento pasquale di Gesù sia stata proprio la sua assunzione.


Ma, più che vedere in questo evento il singolare privilegio di Maria che "come in Cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante Popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2Pt 3, 10)" [Lumen gentium, 68], preferiamo mettere in rilievo il segno del suo servizio al piano della salvezza.


In altri termini, Maria ha ricevuto da Gesù una nuova missione, che durerà fino alla fine del mondo: la maternità su tutti gli uomini, in ordine alla salvezza. La sua missione sulla terra non è finita, come è finita per gli altri uomini, che potranno solo contribuire con la preghiera nella Comunione dei Santi. Era dunque necessario che si trovasse nella completezza della sua persona, fatta di anima e corpo, per adempiere a questa nuova missione verso di noi…


Ora, il corpo di Maria – come il corpo di Gesù – non è più legato ai vincoli di spazio e di tempo. Per cui la loro presenza, accanto a ciascuno di noi, è incessante. Per offrirne un esempio, ripenso alle varie apparizioni di Gesù risorto: dava l’impressione di arrivare, di partire, anche se le porte erano chiuse… E la realtà è che Gesù ha detto che resterà sempre con noi, fino alla fine dei tempi (cfr. Mt 28, 20), per cui è sempre presente.


La stessa cosa avviene per Maria. In più, non solo la sua presenza non ha più limiti di spazio e di tempo, per cui sulla terra viveva solo in un posto e con limiti temporali che abbiamo tutti; per questo anche l’attività poteva essere solo limitata dalle ore che passano e non ritornano. Adesso non è più così. La sua attenzione materna verso di noi non ha limiti e – come si esprime il Vaticano II – è un’opera che "continua fino a che (tutti gli uomini) non siano condotti nella patria beata" [Lumen gentium, 62].


In tal modo ci è facile comprendere i motivi e le conseguenze dell’Assunzione di Maria: assunta in Cielo, è viva, è vera nostra madre che sta sempre accanto a noi con una presenza quanto mai attiva, anche se non la vediamo; ma è una presenza costante e piena, perché non è più legata alle limitazioni della vita terrena.


È una presenza materna ed efficace, in ordine alla salvezza, per cui noi la comprendiamo attraverso i titoli con cui ci rivolgiamo a lei: Mediatrice di ogni grazia, Rifugio dei peccatori, Avvocata nostra, Aiuto dei Cristiani…


Perciò, invocare la Madonna Assunta in Cielo apre il cuore dei credenti a uno slancio coraggioso e lo riempie di quella gioia che regna nei Cieli e che è destinata fin da ora a tutta l’umanità.


Perché dal fatto di credere che Maria ci è sempre accanto e la sentiamo vicina, anche se non la vediamo, nasce il continuo e fiducioso ricorso a lei. Sapremo solo in Cielo quanto le siamo costati e ciò che Ella ha fatto per noi: i pericoli dai quali ci ha salvato, i suggerimenti che ci ha dato, le forze che ci ha infuso, le grazie che ci ha ottenuto; e tutto questo senza che neppure ce ne accorgessimo!


Chi riflettesse seriamente a questa verità della costante presenza accanto a noi di Gesù e di Maria vivrebbe certo di grande speranza e di fiducia piena.



Tratto dalla rivista paolina "Madre di Dio" - Agosto 2004

sabato 13 agosto 2011

Gesù guariscimi

Nutriamoci della Parola di Dio 14 agosto 2011

Vangelo (Mt 15,21-28)

21 Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. 22 Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio”. 23 Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i discepoli gli si accostarono implorando: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”. 24 Ma egli rispose: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”. 25 Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: “Signore, aiutami!”. 26 Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. 27 “ È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. 28 Allora Gesù le replicò: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Raccontavano i rabbini che un agricoltore aveva piantato nel suo campo ogni sorta di alberi e li aveva coltivati con cura; attese molte primavere e molte estati, ma rimase deluso: tante foglie, qualche fiore, ma nessun frutto. Stava per appiccare il fuoco al campo quando, su un ramo un po’ discosto, vide una melagrana. La colse e la assaggiò: era deliziosa. “Per amore di questo melograno – esclamò felice – lascerò vivere tutti gli altri alberi del mio giardino”. Similmente – concludevano i rabbini – per amore di Israele Dio salverà il mondo.
Non tutti i giudei però condividevano l’apertura mentale di questi rabbini illuminati. La maggioranza riteneva che una sola era la stirpe eletta e santa e che i pagani dovevano essere evitati come immondi e reietti (At 10).
È con questo esclusivismo che si dovette confrontare la prima comunità cristiana spuntata, come virgulto rigoglioso, dal ceppo d’Israele.
I cristiani si interrogavano: la salvezza è destinata a tutti i popoli o è riservata ai figli di Abramo?
Nacquero dissensi, dissapori, aspri conflitti che divisero la chiesa (1Cor 1,10-12; Gal 2,11-14). Alcuni sostenevano che il vangelo doveva essere annunciato solo agli israeliti e, per avvalorare la loro tesi, si richiamavano al comportamento di Gesù che, durante la sua vita pubblica, aveva svolto la sua missione entro i confini della Palestina; ricordavano anche la sua raccomandazione: “Non andate fra i pagani, non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute del popolo d’Israele” (Mt 10,5-6).
Altri coltivavano idee più aperte, convinti com’erano che, sì, il vangelo doveva essere predicato anzitutto agli israeliti – primi destinatari della salvezza (Mt 22,1-6) – ma poi anche i pagani dovevano essere ammessi nella sala del banchetto del regno di Dio (Mt 22,8-10). Israele era “il primogenito” del Signore (Sir 36,11), ma non “l’unigenito”: Dio aveva sempre considerato suoi figli anche gli altri popoli (Ger 3,19). L’ordine del Risorto era stato inequivocabile: “Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).
A causa del breve tempo (forse soltanto tre anni) della vita pubblica, Gesù aveva limitato la sua missione “alle pecore perdute della casa d’Israele”, ma aveva anche compiuto gesti chiari per indicare che la sua salvezza era per tutti i popoli. L’episodio narrato nel vangelo di oggi è uno dei più significativi e rivelatori al riguardo.

Un giorno si presenta a Gesù una straniera. Viene dalle regioni di Tiro e Sidone e “continua a gridare” (si noti l’insistenza della sua preghiera), implorando la guarigione di sua figlia. Il testo la chiama “cananea”, appartiene dunque ad un popolo nemico, un popolo pericoloso che più volte ha sedotto Israele, lo ha fatto deviare dalla retta fede e lo ha indotto ad adorare Baal e Astarte.
I discepoli di Gesù – israeliti educati nel più rigoroso integralismo religioso – non possono che rimanere sorpresi di fronte alla sfrontatezza di questa pagana invadente che osa rivolgersi al loro Maestro e attendono la sua reazione: si atterrà alle norme vigenti che proibiscono di intrattenersi con straniere o – come spesso ha fatto – romperà gli schemi tradizionali?
L’evangelista riferisce il dialogo fra Gesù e la donna, compiacendosi quasi di sottolineare il tono sempre più duro delle risposte del Maestro. Di fronte alla richiesta di aiuto della donna, egli assume un atteggiamento sprezzante: non la degna di uno sguardo, non le rivolge nemmeno la parola (v. 23). Intervengono allora gli apostoli che, un po’ infastiditi, vogliono risolvere al più presto la situazione che rischia di divenire imbarazzante. Gli chiedono di allontanarla. “Esaudiscila”, – dice il nostro testo – ma non è una traduzione corretta. “Mandala via!” – è la loro richiesta.
Gesù sembra seguire il loro consiglio, diviene più severo e spiega: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele” (v. 24).
L’immagine del gregge allo sbando ricorre spesso nell’AT: “Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” – dichiara Ezechiele (Ez 34,6) – cui fa eco un altro profeta: “Tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada” (Is 53,6). C’è anche la promessa di Dio: “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,11.16).
Solo con gli israeliti però il Signore ha preso impegni, è solo di loro che si deve interessare. Presentandosi come il pastore d’Israele, Gesù dichiara di voler dare compimento alle profezie e la donna capisce. Sa di non essere del popolo eletto, è cosciente di non appartenere al “gregge del Signore” e di non avere alcun diritto alla salvezza, tuttavia confida nella benevolenza e nella gratuità degli interventi di Dio, si prostra davanti a Gesù e implora: “Signore, aiutami!”.
Come risposta riceve un’offesa: “Non è bene prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini!” (v. 26).
Gli israeliti sono il gregge, i pagani sono i cani. L’uso del diminutivo attenua, ma non di molto, l’asprezza dell’insulto. “Cane” era, in tutto il Medio Oriente antico, la più pesante delle ingiurie, era il nomignolo con cui gli ebrei designavano i pagani. Un’immagine cruda, ripresa in vari testi del NT: “Non date le cose sante ai cani, né gettate le vostre perle davanti ai porci” (Mt 7,6). “Fuori i cani!” (Ap 22,15). “Guardatevi dai cani!” (Fil 3,2). Era usata per mettere in rilievo l’assoluta incompatibilità fra la vita pagana e la scelta evangelica.
Sulla bocca di Gesù questa espressione sorprende, soprattutto se si tiene conto del fatto che la donna cananea si è rivolta a lui con grande rispetto: per tre volte lo ha chiamato “Signore” – titolo con cui i cristiani professavano la loro fede nel Risorto – e una volta “Figlio di Davide” che equivale a riconoscerlo come messia. Sembra che, come tutti i suoi connazionali, anch’egli abbia in abominio gli stranieri. Ma è così?
La conclusione del racconto ci illumina. “Donna – esclama Gesù – davvero grande è la tua fede!”. Un elogio che non è mai stato rivolto a nessun israelita.
Ora tutto diviene chiaro. Ciò che precede – la provocazione, il disprezzo per i pagani, il richiamo alla loro impurità e indegnità – non era che un’abile messa in scena. Gesù voleva che i suoi discepoli modificassero radicalmente il loro modo di rapportarsi con gli stranieri. Ha “recitato la parte” dell’israelita integro e puro per mostrare quanto fosse insensata e ridicola la mentalità separatista coltivata dal suo popolo. Mentre le “pecore del gregge” si tenevano lontane dal pastore che le voleva radunare (Mt 23,37), i “cani” si accostavano a lui e, per la loro grande fede, ottenevano la salvezza.
Il messaggio è quanto mai attuale: la chiesa è chiamata ad essere segno che sono finite tutte le discriminazioni determinate dal sesso, dall’appartenenza a una razza, a un popolo o a un’istituzione. “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù – dichiara Paolo – poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa” (Gal 3,26-29).
La donna cananea – la pagana, la miscredente – è additata a modello del vero credente: sa di non meritare nulla, crede che solo dalla parola di Cristo può giungere gratuitamente la salvezza, la implora e la riceve in dono.

Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 6 agosto 2011

È nei momenti di crisi che la fede matura


Vangelo (Mt 14,22-33)

22 Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. 23 Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.
 24 La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario. 25 Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. 26 I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: “ È un fantasma” e si misero a gridare dalla paura. 27 Ma subito Gesù parlò loro: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”.
28 Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. 29 Ed egli disse: “Vieni!”.
Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31 E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.
 32 Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33 Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!”.

“Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” – disse l’angelo del Signore ad Elia in fuga verso il deserto. Il profeta si alzò, mangiò, bevve e “con la forza datagli da quel cibo, camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1 Re 19,7-8).
A questo famoso racconto del dono del pane e dell’acqua da parte dell’angelo ad Elia, fa seguito la rivelazione del Signore narrata nella prima lettura.
Nel brano evangelico la scena si ripete: i discepoli, alimentati con il pane offerto da Gesù (Mt 14,13-20), ora ricevono l’ordine di mettersi in movimento, di entrare nella barca e dirigersi verso l’altra riva. Come Elia, sono attesi da una rivelazione del Signore.
Ci sono diversi particolari strani in questo episodio. Non è facile trovare una ragione dell’ordine dato da Gesù: perché li fa partire da soli? Dove devono andare a quell’ora? Perché non va con loro? Come mai impiegano tante ore ad attraversare il lago? Non pare che sia a causa del maltempo perché egli sale tranquillo sul monte a pregare e vi rimane fin verso il mattino (v. 25). Sorprendenti sono soprattutto la pretesa di Pietro di voler camminare sulle acque e – trattandosi di un provetto nuotatore (Gv 21,7) – la sua paura di affondare.
Questi dettagli singolari insospettiscono l’esegeta. Sono un invito ad accostarsi al brano con circospezione perché non si tratta del racconto di un prodigio, ma di una pagina di teologia redatta con immagini bibliche.
Alcune di queste immagini sono ben note. L’oscurità della notte, anzitutto, è presente, con la sua carica di significati negativi, in numerosi testi dell’AT. Ricordiamo, ad esempio, il salmista che, nella notte del suo dolore, grida al Signore senza trovare riposo (Sal 22,3). È con questa tenebra che i discepoli si devono confrontare. Venuta la sera, Gesù “li costringe” (è questo il verbo impiegato nel testo originale) ad entrare nella barca e a dirigersi verso “l’altra riva”. Si ha l’impressione che essi siano restii, che vogliano rimanere accanto al Maestro, ma questi, dopo averli nutriti con il suo pane, vuole che partano, che intraprendano da soli il rischioso viaggio. Il cibo che ha dato loro rappresenta la sua parola e la sua stessa persona presente nel sacramento dell’eucaristia. Nutriti da questo duplice pane, essi hanno la forza necessaria per portare a termine la difficile traversata.
Se Gesù fosse visibilmente presente sulla barca, le tenebre si dissolverebbero; invece il buio è fitto.
Venuta la sera (v. 13) – diciamolo subito – indica, nel linguaggio simbolico dell’evangelista, la conclusione della giornata di Gesù, è la fine della sua vita, è il momento in cui egli “sale sul monte” da solo, si allontana dalle folle ed entra definitivamente nel mondo di Dio. Ecco perché i discepoli si ritrovano nell’oscurità. Il buio è l’immagine del disorientamento, del dubbio che coglie anche il credente più convinto. In certi momenti, persino chi è animato da una solida fede si sente solo, fa l’esperienza angosciante del silenzio di Dio e si chiede se le sue scelte, i suoi sacrifici, il suo impegno per il bene abbiano un senso.
Poi c’è il vento contrario. Gli israeliti hanno fatto l’esperienza del “vento impetuoso scatenato da oltre il deserto” che investe e abbatte le case (Gb 1,19), conoscono il “vento orientale che squarcia le navi” (Sal 48,8) e il “vento burrascoso” che solleva i flutti, squassa le imbarcazioni trascinandole negli abissi e che fa barcollare come ubriachi i marinai (Sal 107,26-27).
L’autore della Lettera agli efesini impiega questa immagine per descrivere i ragionamenti insensati degli uomini, la mentalità di questo mondo opposta a quella di Cristo. Ai cristiani delle sue comunità Paolo ricorda: “Noi non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini” (Ef 4,14).
Le acque erano nell’AT immagine delle forze che portano verso la morte. Il salmista, afflitto da una grave malattia che lo sta conducendo alla tomba, grida al Signore: “Stendi le mani dall’alto, scampami e salvami dalle acque profonde” (Sal 144,7); un altro, ottenuta la guarigione, racconta: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti impetuosi… ma Dio stese la mano, mi prese e mi trasse fuori dalle acque profonde” (Sal 18,5.17). Al suo popolo il Signore promette: “Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno” (Is 43,2).
Le acque hanno sempre messo paura agli israeliti. Solo il Signore – dicevano – non teme i turbini e le burrasche. Egli che, con la sua parola, ha separato “le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento” (Gn 1,7) è il solo capace di placare la violenza dei flutti (Sal 107,25-30), egli è l’unico che “cammina sulle onde del mare” (Gb 9,8).
Se si tiene presente questo simbolismo, si comprende lo spavento dei discepoli: temono di venire travolti dalle forze del male e della morte, sono al buio e non scorgono il Maestro accanto a loro. Una situazione drammatica, ma inevitabile e la devono affrontare.
La barca era agitata dalle onde. Il testo originale impiega qui il verbo greco basanízo che propriamente significa sottoporre alla prova. Il básanos era la pietra durissima usata in Lidia per verificare, mediante un violento sfregamento, se un metallo era pregiato o vile.
Le onde tormentano, quasi torturano i discepoli, ma sono la prova necessaria cui devono essere sottoposti se vogliono uscirne maturati.

Verso la fine della notte ecco apparire Gesù, camminando sulle onde del mare, come solo Dio era capace di fare (Gb 9,8). I discepoli non lo riconoscono, credono di avere a che fare con un fantasma. Davvero singolare questa loro reazione! Che è successo? Come mai non lo riconoscono?
Non siamo di fronte a un brano di cronaca, ma a una pagina di teologia. Matteo sta descrivendo, con il linguaggio biblico, la situazione delle comunità cristiane del suo tempo “tormentate” da tante prove, angosciate da dubbi e soprattutto disorientate per il fatto di non avere più visibilmente con loro il Maestro che avrebbe infuso in loro sicurezza e coraggio.
L’evangelista le vuole illuminare: Gesù è sempre accanto ai discepoli, tutti i giorni, fino alla fine del mondo, come ha promesso (Mt 28,20), ma non fisicamente, come quando percorreva le strade della Palestina; è presente in modo diverso, come un fantasma. È questa la pallida immagine impiegata nei vangeli per descrivere il Risorto e la sua nuova condizione di vita. Quando, nel giorno di Pasqua, egli appare in mezzo ai discepoli riuniti, essi “spaventati e stupiti, credono di vedere un fantasma” (Lc 24,37).
Non è facile rendersi conto della sua presenza. Solo agli occhi della fede egli diviene riconoscibile.

La seconda parte del brano (vv. 28-33) contiene il dialogo fra Gesù e Pietro. Inizia con la richiesta dell’apostolo: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque” (v. 28). La sua domanda è strana, ma solo per chi la prende in senso letterale. Se la si intende nel contesto simbolico di tutto il racconto, allora il significato risulta subito chiaro. Pietro, il primo dei discepoli, contempla il Maestro – il Risorto – che ha attraversato le acque della morte, ora cammina sul mare, è nel mondo di Dio. Sa di esser chiamato a seguirlo nel dono della vita, ma la morte lo spaventa, teme di non farcela e chiede al Signore che sia lui a comunicargli la forza.
Finché tiene gli occhi fissi sul Maestro, riesce ad andare verso di lui, ma quando la sua fede viene meno, quando comincia a dubitare della scelta che ha fatto, affonda e ha paura di venire sommerso, di perdere la vita.
 È la descrizione della nostra condizione. “Vieni verso di me” – ripete oggi il Risorto ad ogni discepolo – non temere di perdere la vita; se esiti, la morte ti farà paura, se invece ti fiderai della mia parola, le acque della morte non ti spaventeranno, le attraverserai e mi raggiungerai nella risurrezione.

Padre Fernando Armellini biblista