venerdì 24 giugno 2011

C’è un pane per l’oggi e un cibo per la vita eterna


FESTA DEL SS.CORPO E SANGUE DI GESU’
 
C’è un pane per l’oggi
e un cibo per la vita eterna
 
Quando entriamo in un edificio ci rendiamo subito conto a quale funzione è adibito. Un’aula scolastica è arredata in modo diverso da un’infermeria e una discoteca da un’officina. È facile riconoscere una chiesa: gli altari e il tabernacolo per custodire l’eucaristia, i dipinti e le statue di santi, il battistero, le suppellettili sacre permettono di identificare subito l’ambiente dedicato alla preghiera, al culto e alle pratiche devozionali.
Non sempre però la struttura architettonica e l’arredamento eccessivo di alcune nostre chiese suggeriscono l’idea del luogo in cui la comunità è convocata per essere nutrita alla duplice mensa della parola e del pane.
Questo messaggio lo coglie invece immediatamente chi entra nelle cappelle in uso nelle foreste africane: capanne spoglie e disadorne, costruite con fango e paglia. Le ricordo con nostalgia: pali che fungono da sedili, disposti in cerchio per favorire l’unità dell’assemblea e far sì che i partecipanti si guardino in volto e non si volgano le spalle; al centro è posto l’altare: un tavolo, certo il migliore del villaggio, ma semplice e povero e sull’altare un leggio, con il lezionario aperto alle letture del giorno. Null’altro.
Eccoli, inequivocabilmente raffigurati, i due pani o, se vogliamo, l’unico pane in duplice forma oppure la duplice mensa.
Sono questi i segni: l’altare dell’eucaristia, il lezionario della Parola.
Il Concilio Vaticano II lo ha ricordato: “La Chiesa non ha mai tralasciato di nutrirsi del pane di vita, prendendolo dalla mensa sia della parola di Dio, sia del corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli” (DV 21).
 
 
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il pane materiale mantiene in vita per un altro giorno, la parola di Dio dona vita eterna”.
 
 
Prima Lettura (Dt 8, 2-3.14b-16a)
 
2 Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3 Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
14 Non dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; 15che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; 16 che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri”.
 
Il Deuteronomio si presenta come una raccolta di discorsi pronunciati da Mosè sul monte Nebo prima di morire; in realtà è stato scritto molti secoli dopo, negli anni immediatamente anteriori alla fine della monarchia e alla distruzione di Gerusalemme. È una riflessione sugli avvenimenti dell’esodo, volta ad illuminare la situazione drammatica che Israele sta vivendo: è circondato da nemici e prossimo alla rovina. Che fare in un momento tanto difficile?
Come un ritornello, nel libro del Deuteronomio viene rivolto al popolo un invito accorato: ricorda, non dimenticare. Guarda al tuo passato, considera ciò che Dio ha fatto, tieni presente i prodigi da lui compiuti in tuo favore, rimangano sempre nella tua memoria le sue opere di salvezza. “Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso” (Dt 5,15); “Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani; interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno” (Dt 32,7).
Questa raccomandazione è ripetuta con insistenza anche nella lettura di oggi. Il ricordo delle gravi tribolazioni affrontate nel deserto e degli interventi provvidenziali di Dio, è destinato a infondere fiducia e speranza nel momento presente.
La descrizione delle difficoltà è particolarmente viva: il deserto che si spalancava davanti agli israeliti era “immenso e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua” (v. 15). Se avessero dovuto contare solo sulle loro forze e sulle loro capacità, sarebbero di certo periti. Da dove è giunta la salvezza?
La lettura risponde: da “ciò che esce dalla bocca del Signore” (v. 13). L’espressione, un po’ enigmatica per noi, era invece ben nota in Egitto dove indicava il potere della parola di Dio di creare alimenti completamente nuovi.
Il pane era conosciuto, ma la manna era un cibo misterioso, ignoto e inatteso, era apparsa miracolosamente nel deserto, per questo gli israeliti l’avevano vista come un dono “uscito dalla bocca del Signore”.
Con questo alimento sorprendente egli voleva umiliare e mettere alla prova il suo popolo (vv. 2-3).
Come gli era stato promesso, Israele si era installato in un paese fertile “paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele” (Dt 8,7-8); ma invece di essere riconoscente e di benedire il Signore, lo aveva dimenticato. Dopo aver “costruito case belle e averle abitate”, aver visto “il bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi l’argento e l’oro e abbondare ogni tua cosa” si era inorgoglito e aveva disprezzato il suo Dio (Dt 8,13-14).
Il progresso, la prosperità, le case belle e accoglienti, la vita piacevole ricevono in questo testo un giudizio positivo, ma viene denunciato il pericolo che la ricchezza e il benessere, invece di condurre a Dio, lo facciano dimenticare.
Ecco la ragione dell’invito a ricordare, a tener presente l’esperienza del deserto. Là il Signore ha educato il suo popolo alla semplicità, all’essenziale; gli ha fatto comprendere quali sono i bisogni elementari e quali derivano dalla cupidigia, dall’ingordigia, dalla bramosia del possesso e dell’accumulo. I bisogni indotti, il superfluo, la neghittosità, la vita godereccia allontanano da Dio.
“Tutte queste cose – afferma Paolo – sono state scritte per ammonimento nostro” (1 Cor 10,11). L’invito aricordare, a non dimenticare è rivolto anche a noi. I quarant’anni trascorsi dal popolo d’Israele nel deserto rappresentano, secondo il simbolismo biblico, un’intera generazione e, dunque, tutta la nostra vita.
Durante il nostro “esodo” verso la “dimora eterna nei cieli” (2 Cor 5,1), il Signore offre anche a noi un cibo completamente nuovo, diverso da quelli che l’uomo ha da sempre conosciuto e sperimentato, un alimento “uscito dalla bocca del Signore”, venuto dal cielo, come la manna: la sua Parola divenuta pane.
 
 
Seconda Lettura (1 Cor 10,16-17)
 
16 Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? 17 Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.
 
 È difficile che nelle comunità cristiane regnino sempre il pieno accordo e la perfetta sintonia. È inevitabile che, pur nell’unità della fede, emergano diversità di vedute, soprattutto quando si tratta di dare interpretazioni teologiche e di fare scelte morali. Succedeva anche a Corinto dove il problema delle carni immolate agli idoli era molto dibattuto.
La comunità era composta da pagani convertiti i cui familiari e amici continuavano a offrire sacrifici agli idoli. Ci si chiedeva se, per non essere considerati degli asociali e per non venire emarginati, si poteva partecipare a queste cerimonie. Si discuteva sulla liceità di comperare al mercato la carne dei sacrifici immolati agli dèi.
A Corinto non c’erano solo opinioni differenti, ma ci si offendeva, ci si scomunicava, ci si malediva. La situazione era divenuta tanto incandescente da indurre Paolo a intervenire. Come convincere i corinti a mantenere l’unità e a rispettarsi, pur nella diversità di opinioni?
L’Apostolo ricorre all’argomento più forte che ha a disposizione: la celebrazione dell’eucaristia. È da quest’unico pane, condiviso dai fratelli, che nasce l’esigenza dell’unità di una comunità: “Il pane è uno solo, così noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (v. 17).
L’eucaristia non è un pane che può essere mangiato da soli, è pane spezzato e condiviso con i fratelli della comunità e questo presuppone che tutti si impegnino ad essere realmente “un cuore solo ed un’anima sola” (At 4,32).
Si noti bene: è il pane diviso a creare l’unità. Mentre stringe i fratelli in un solo corpo, è anche segno di distinzione e invito al rispetto e alla valorizzazione delle diversità.
Più avanti, nella stessa lettera, Paolo inviterà i corinti a considerare segno della benevolenza di Dio e dono dello Spirito il manifestarsi nella comunità di differenti carismi, ministeri e servizi. La diversità serve all’utilità comune e deve condurre all’unità: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo (1 Cor 12,4-12).
 
 
Vangelo (Gv 6, 51-58)
 
51 “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
 52 Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
 
Questo brano costituisce la parte conclusiva del cosiddetto Discorso sul pane della vita, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Il prodigio ha suscitato grande meraviglia, sfociata in incontenibile entusiasmo e in pericolosa esaltazione collettiva: la gente, visto il segno, decide di catturarlo per farlo re (Gv 6,14-15).
Come mai queste folle, stupite e ammirate, cercano Gesù? Verrebbe da rispondere: perché hanno capito che in lui agisce il potere di Dio, dunque credono in lui. In realtà sono vittime di un pericoloso equivoco, sono mosse da una fede immatura: si interessano a Gesù solo perché lo ritengono capace di soddisfare, mediante i miracoli, i loro bisogni materiali.
La fede matura è tutt’altra cosa: è quella di chi capisce che Gesù non compie prodigi per stupire, ma per introdurre in una realtà più profonda. Nella guarigione del cieco nato, il vero credente intuisce che Gesù si presenta come la luce del mondo; nell’acqua tramutata in vino scopre il dono dello Spirito, fonte di gioia; nella rianimazione di Lazzaro comprende che Gesù è il Signore della vita; nel pane distribuito alla gente affamata scorge Gesù, l’alimento che sazia.
A Cafarnao invece la folla non capisce, si ferma all’aspetto esteriore, superficiale dell’avvenimento. Ha bisogno di essere aiutata a passare dalla ricerca del “cibo che perisce” a quello che “dura per la vita eterna” (Gv 6,27). Un’impresa difficile, ma Gesù la tenta.
Comincia presentandosi come il pane della vita disceso dal cielo (Gv 6,33-35). Dichiara che chi ascolta lui, chi assimila il suo messaggio, il suo vangelo, si nutre delle parole di vita. Chi invece si alimenta di altre parole – anche se piacevoli e accattivanti – ingerisce veleni di morte.
La sua affermazione è inaudita. Per i giudei il pane disceso dal cielo è la manna (Sal 78,24) e il cibo che nutre è la parola di Dio (Is 55,1-3). Come può “il figlio di Giuseppe” arrogarsi simili prerogative? – si chiedono indignati – Chi pretende di essere? (Gv 6,42). Anche la samaritana aveva reagito in modo simile: “Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?” (Gv 4,12).
Invece di mitigare la sua pretesa, Gesù fa una dichiarazione ancora più sorprendente. Il pane da mangiare non è soltanto la sua dottrina, ma la sua stessa carne: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Sono le parole con cui inizia il brano di oggi (v. 51).
Per non equivocarne il significato (per non essere indotti a immaginare un atto cannibalesco), va precisato che, quando nella Bibbia si afferma che “l’uomo è carne” (Gn 6,3), non ci si riferisce al fatto che è rivestito di muscoli, ma che è debole, fragile, precario, soggetto alla morte. Per esempio, di fronte alle miserie morali degli israeliti, Dio – dichiara il salmista con un audace antropomorfismo – placa la sua ira e trattiene il suo furore perché “si ricorda che essi sono carne, un soffio che scompare e più non ritorna” (Sal 78,39). Quando, nel prologo del suo vangelo, Giovanni dice che “il verbo si è fatto carne” (Gv 1,14) si riferisce all’abbassamento del Figlio di Dio, alla sua discesa al livello infimo, sottolinea la sua accettazione degli aspetti più caduchi della condizione umana.
Mangiare questo Dio fatto carne significa riconoscere che la rivelazione di Dio giunge nel mondo attraverso “il figlio del falegname” e accogliere questa sapienza venuta dal cielo.
Anche dopo questa precisazione, tuttavia, l’aspetto scandaloso della proposta di Gesù rimane. Come si può “mangiare la sua persona”? La reazione scandalizzata degli ascoltatori è comprensibile e giustificata: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 52). Capiscono che egli non si riferisce solo all’assimilazione spirituale della rivelazione di Dio, ma anche ad un “mangiare” reale. Cosa intende dire?
Gesù non si preoccupa del loro imbarazzo e riafferma quanto ha già detto, aggiungendovi una richiesta ancora più provocatoria: è necessario bere anche il suo sangue (vv. 52-56). Molti testi biblici proibiscono severamente la pratica di bere sangue “perché la vita della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11) e la vita non appartiene all’uomo, ma a Dio. Si tratta dunque di assimilare la sua vita.
 È a questo punto che si inserisce il discorso sull’Eucaristia.
 
Prima di spiegare il significato che, nel suo discorso, Gesù attribuisce a questo sacramento “fonte e apice di tutta la vita cristiana”, vorrei mettere in guardia da alcune interpretazioni riduttive e anche fuorvianti, derivate da una certa catechesi devozionale e intimistica, non supportata da fondamenti biblici. Mi riferisco a quella spiritualità eucaristica che parlava del “divin prigioniero”, che esortava ad andare in chiesa a “fare compagnia, a consolare Gesù”. L’Eucaristia non ha lo scopo di catturare Gesù per tenerlo più vicino, per avere un’opportunità maggiore di convincerlo a concedere grazie, approfittando del fatto che “è venuto a visitarci”, che “è venuto nel nostro cuore”. È stata istituita come alimento da mangiare e anche quando viene esposta all’adorazione (meglio nella pisside in cui è stata consacrata che nell’ostensorio) è per essere consumata come cibo. Solo così mantiene il suo autentico significato.
 
Se partiamo dalla constatazione che, per raggiungere l’unione di vita con Cristo, basta la fede nella sua parola, giustamente ci chiediamo: perché è necessario accostarsi a ricevere anche il sacramento? Perché Gesù ha aggiunto una richiesta tanto difficile da comprendere: mangiare la sua carne e bere il suo sangue nei segni del pane e del vino?
Sappiamo che, per mancanza di presbiteri, la domenica la maggioranza delle comunità cristiane non si raduna attorno alla mensa del pane eucaristico, ma attorno alla parola di Dio e siamo certi che, da quest’unico cibo per loro disponibile, esse ricevono abbondanza di vita.
 È significativo che, al v. 54, Gesù dica che chi mangia la sua carne e beve il suo sangue ha la vita eterna, esattamente come al v. 47 afferma che lo stesso risultato è conseguito da coloro che credono nella sua parola. Perché allora l’eucaristia?
Anzitutto bisogna sottolineare che questo sacramento – che rende realmente presente il Risorto – non sostituisce la fede nella parola di Cristo. Accostarsi a ricevere la comunione non equivale a compiere un rito magico e l’ostia non è una specie di pillola che agisce automaticamente e guarisce il malato, anche se dorme o ha perso conoscenza.
Non basta fare molte comunioni per ricevere la grazia del Signore. Gesù non ha detto di fare molte comunioni, ma di “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.
Ecco la ragione per cui, prima di ricevere il pane eucaristico, è necessario ascoltare e meditare un brano evangelico. La lettura della parola di Dio è la premessa imprescindibile.
Quando si firma un contratto, quando si stipula un’alleanza, si devono prima conoscere e valutare attentamente tutte le clausole. Chi accetta di divenire una sola persona con Cristo nel sacramento, deve essere cosciente della proposta che gli viene fatta e prendere la ferma decisione di accoglierla. È il senso dell’accorata raccomandazione di Paolo: “Ciascuno esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice”, per non mangiare e bere la propria condanna (1 Cor 11,28-29).
Il gesto di stendere la mano per ricevere il pane consacrato è il segno della disposizione interiore ad accogliere Cristo e a far sì che i suoi pensieri divengano i nostri pensieri, le sue parole le nostre parole, le sue scelte le nostre scelte. Nel segno dell’eucaristia, la sua persona viene assimilata, come accade con il pane.
Il cambiamento, la metamorfosi avverranno molto lentamente, il processo sarà segnato da successi e fallimenti, ma l’umile ascolto della Parola e la comunione con il corpo di Cristo compiranno il miracolo. Un giorno, il discepolo gioirà della trasformazione attuata in lui dallo Spirito che opera nel sacramento e giungerà ad esclamare, come Paolo: Ora “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20) .
 
Padre Fernando Armellini Biblista

sabato 18 giugno 2011

La Santissima Trinità


Nutriamoci della Parola di Dio di domenica 19 giugno 2011
 Vangelo (Gv 3,16-18)
In quel tempo Gesù disse a Nicodemo: 16 “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
17 Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

Sono solo tre versetti, ma molto densi, quelli che costituiscono il brano evangelico di oggi. Basterebbero da soli a correggere l’immagine distorta di Dio che è ancora presente nella mente di tanti cristiani – quella del giudice severo e inflessibile – e a spalancare il cuore alla fiducia nel suo amore.
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (v. 16). Può essere considerato il vertice raggiunto dalla rivelazione biblica sul senso del creato, della vita, del destino dell’uomo.
Contemplando, stupito, lo svelarsi del progetto di Dio, Giovanni scopre che all’origine di tutto c’è il suo amore gratuito. A differenza di quanto afferma nella sua prima lettera – dove vede questo amore riversarsi sulla comunità cristiana (1 Gv 4,7-12) – qui l’evangelista assiste al dischiudersi di orizzonti sconfinati: l’amore di Dio si espande, incontenibile, inarrestabile, e riempie “il mondo” intero. Siamo agli antipodi della famosa affermazione: “Il mondo in cui viviamo può intendersi come il risultato del disordine e del caso; ma se esso è l’esito di un intento deliberato, questo dev’essere stato l’intento di un diavolo”.
Per quanto possa sembrare strano, l’immagine di Dio che ama l’uomo ha faticato a imporsi in Israele. Si è dovuto attendere il profeta Osea (VIII secolo a.C.) per trovarla una prima volta. Questa reticenza era dovuta al fatto che, nelle religioni pagane, il rapporto di amore con la divinità aveva delle connotazioni equivoche di carattere sessuale.
Giovanni, che ha visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani il Verbo della vita (1 Gv 1,1), giunge ad affermare: “Dio è amore” (1 Gv 4,8), amore che si è manifestato nel dono che ha fatto al mondo del Figlio suo unigenito. Non lo ha donato solo nell’incarnazione, lo ha consegnato nelle mani degli uomini sulla croce. Lì egli ha mostrato il suo vero volto, senza più alcun velo.
Paolo mostra di aver compreso questo prodigio di amore quando, scrivendo ai Romani, dichiara: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
Di fronte a questo dono cos’è richiesto all’uomo? Una cosa soltanto: che si fidi, che si abbandoni fra le sue braccia – come fa la sposa con lo sposo – che si consegni a lui, immenso amore, nella certezza di incontrare la vita.
Quando pensiamo a Dio fattosi uno di noi in Gesù di Nazaret, commettiamo a volte l’errore di considerare questo fatto un episodio, una parentesi triste della sua esistenza: è venuto tra noi, è rimasto trentasette anni, ha sofferto ed è morto in croce, poi se n’è tornato in cielo, lontano, felice di aver ripreso la condizione di prima.
Non è così, il nostro Dio si è fatto uomo e rimane per sempre uno di noi, non si è tirato fuori dal nostro mondo, è e rimane per sempre l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Mt 28,20).

Uno degli articoli più saldi della fede giudaica era il Dio giudice dell’operato di ogni uomo. Lo stesso messia era atteso non come colui che aiuta a vincere il peccato, ma come l’esecutore del giudizio divino. Questa convinzione trapela anche da molti testi del NT: il Battista annuncia un incombente giudizio dal quale nessuno potrà sentirsi al riparo (Mt 3,7-10); Paolo predica il “giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rm 2,5-6); lo stesso Gesù impiega a volte l’immagine del tribunale: “Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7,23).
Nel vangelo di Giovanni, né il Padre né Gesù compaiono come giudici che condannano, ma solo come salvatori dell’uomo: “Dio non ha inviato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (v. 17); “Io non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47).
Sembrano testi contradditori; in realtà, pur impiegando linguaggio e immagini diversi, affermano la stessa verità: il giudizio di Dio è sempre e solo salvezza. Non è una sentenza pronunciata al termine della vita, ma è la preziosa valutazione che il Signore mette oggi davanti ad ogni uomo, affinché le sue scelte siano guidate dalla vera sapienza, non quella di questo mondo che conduce alla morte, ma quella di Cristo.

In questa prospettiva va letto e interpretato il terzo ed ultimo versetto del brano di oggi, in cui viene evidenziata la responsabilità di ognuno di fronte all’amore di Dio: “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato” (v.18).
Il giudizio non viene pronunciato da Dio alla fine dei tempi, ma è attuale: è l’uomo che, fidandosi di Cristo e della sua parola sceglie la vita; rifiutando la sua proposta di amore, decreta invece la propria condanna.
Oggi siamo chiamati ad accogliere la gioia che Dio offre, ma possiamo anche commettere l’insensatezza di ritardare o addirittura di rifiutare questo suo abbraccio. Dall’uomo egli si attende un “sì” immediato, perché ogni momento trascorso nel peccato, nel rifiuto del suo amore, è un’opportunità sprecata.
Qual è il criterio, quale il punto di riferimento indicato da Dio, per avere un giudizio sapiente e retto sulle scelte da fare nella vita?
Troviamo la risposta in un gruppo di testi che, nel vangelo di Giovanni, presentano Gesù giudice: “Io sono venuto nel mondo per il giudizio” (Gv 9,39); “Il Padre ha affidato al Figlio ogni giudizio” (Gv 5,22). È sulla sua persona, sulla sua proposta di vita, sui valori da lui predicati che il Padre valuterà l’esistenza di ogni uomo e ne decreterà la riuscita o il fallimento.
Non si afferma che alla fine egli rifiuterà per sempre chi ha sbagliato, chi ha seguito altri criteri, altri giudizi. Dio non scaccia nessuno, egli “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) . L’assurdità di una sua condanna è presentata da Paolo con una serie di domande retoriche: “Chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio che rende giusti? Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?” (Rm 8,31-34). La conclusione è scontata: “Nessuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,39).
Tuttavia, al termine della vita, quando Dio “proverà col fuoco la qualità dell’opera di ognuno” (1 Cor 3,13), appariranno chiare la conformità o la difformità delle azioni di ognuno con la persona di Cristo. Dio allora accoglierà certamente tutti fra le sue braccia, anche se qualcuno sarà costretto ad ammettere di aver gestito male, di avere irrimediabilmente sprecato l’opportunità unica che gli era stata offerta. L’opera di costui – ammonisce Paolo – “finirà bruciata; anche se egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Cor 3,15).
 
Fernando Armellini (biblista)
 

sabato 11 giugno 2011

12 giugno 2011: Domenica di Pentecoste



DOMENICA DI PENTECOSTE

Lo Spirito: la fantasia al potere

I fenomeni naturali che più impressionano la fantasia dell’uomo – il fuoco, la folgore, l’uragano, il terremoto, i tuoni (Es 19,16-19) – sono impiegati nella Bibbia per raccontare le manifestazioni di Dio.
Anche per presentare l’effusione dello Spirito del Signore gli autori sacri sono ricorsi ad immagini. Hanno detto che lo Spirito è soffio di vita (Gn 2,7), pioggia che irrora la terra e trasforma il deserto in un giardino (Is 32,15; 44,3), forza che ridona vita (Ez 37,1-14), rombo dal cielo, vento che si abbatte gagliardo, fragore, lingue come di fuoco (At 2,1-3). Tutte immagini vigorose che suggeriscono l’idea di un’incontenibile esplosione di forza.
Dove giunge lo Spirito avvengono sempre sconvolgimenti e trasformazioni radicali: cadono barriere, si spalancano porte, tremano tutte le torri costruite dalle mani dell’uomo e progettate dalla “sapienza di questo mondo”, scompaiono la paura, la passività, il quietismo, si sviluppano iniziative e si fanno scelte coraggiose.
Chi è insoddisfatto e aspira al rinnovamento del mondo e dell’uomo può contare sullo Spirito: nulla resiste alla sua forza.
Un giorno il profeta Geremia si è chiesto sfiduciato: “Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura? Allo stesso modo, potrete fare il bene voi abituati a fare il male?” (Ger 13,23). Sì – gli si può rispondere – ogni prodigio è possibile là dove irrompe lo Spirito di Dio.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Lo Spirito del Signore riempie l’universo e rinnova la faccia della terra”.

Prima Lettura (At 2,1-11)

1 Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2 Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. 3 Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; 4 ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi.
 5 Si trovavano allora in Gerusalemme giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua.
7 Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti galilei? 8 E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, 11 Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”.

Gesù ha promesso ai suoi discepoli che non li avrebbe lasciati soli e che avrebbe inviato lo Spirito (Gv 14,16.26). Oggi celebriamo la festa di questo dono del Risorto.
Leggendo il brano degli Atti rimaniamo stupiti di fronte ai numerosi “prodigi” accaduti nel giorno di Pentecoste: tuoni e vento impetuoso, fiamme che scendono dal cielo, gli apostoli che parlano tutte le lingue.
Ci domandiamo anche per quale ragione Dio ha atteso cinquanta giorni prima di mandare sui discepoli il suo Spirito.
Per comprendere questa pagina di teologia (non di cronaca) dobbiamo addentrarci un poco nel linguaggio simbolico impiegato dall’autore.
Luca colloca la discesa dello Spirito nel giorno di Pentecoste. Eppure, proprio nel vangelo di oggi, Giovanni racconta che Gesù ha comunicato lo Spirito il giorno stesso della risurrezione (Gv 20,22). Come si spiega questo mancato accordo sulla data?
Diciamo subito con chiarezza: il mistero pasquale è unico. Morte, Risurrezione, Ascensione e dono dello Spirito sono avvenuti nel medesimo istante, nel momento della morte di Gesù. Raccontando ciò che è accaduto sul Calvario in quel venerdì santo, Giovanni dice che, chinato il capo, Gesù diede lo Spirito (Gv 19,30).
Perché allora quest’unico, sublime, ineffabile mistero pasquale è stato presentato da Luca come se fosse accaduto in tre momenti successivi? Lo ha fatto per aiutare a comprenderne i molteplici aspetti.
Giovanni ha posto l’effusione dello Spirito nel giorno di Pasqua per mostrare che lo Spirito è dono del Risorto. Ora vediamo per quale ragione Luca la colloca nel contesto della festa di Pentecoste.
La Pentecoste era una festa ebraica molto antica, celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua: commemorava l’arrivo del popolo di Israele al monte Sinai. Tutti ricordiamo cosa è accaduto in quel luogo: Mosè è salito sul monte, ha incontrato Dio ed ha ricevuto la Legge da trasmettere al suo popolo.
Gli israeliti erano molto orgogliosi di questo dono: dicevano che, prima che a loro, Dio aveva offerto la Legge ad altri popoli, ma questi l’avevano rifiutata, preferendo continuare con i loro vizi e sregolatezze. Per ringraziare Dio di questa predilezione, gli israeliti avevano istituito una festa: la Pentecoste.
Dicendo che lo Spirito era sceso sui discepoli proprio nel giorno di Pentecoste, Luca vuole insegnare che lo Spirito ha sostituito l’antica legge ed è divenuto la nuova legge per il cristiano.
Per spiegare cosa intende dire ricorriamo a un paragone. Un giorno Gesù ha detto: “Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi?” (Mt 7,16). Sarebbe insensato immaginare che circondando di premure un rovo, potandolo, creandogli attorno un clima più mite potrebbe arrivare a produrre uva. Tuttavia, se – con un prodigio d’ingegneria genetica – si riuscisse a trasformarlo in una vite, allora non sarebbe più necessario alcun intervento esterno. Il rovo produrrebbe spontaneamente uva.
Prima di ricevere l’effusione dello Spirito, il mondo era come un grande rovo. Dio aveva dato agli uomini ottime indicazioni – un decalogo, dei precetti, tanti consigli – e si aspettava frutti, opere di giustizia e di amore (Mt 21,18-19), ma questi non sono arrivati perché l’albero rimaneva cattivo e “nessun albero cattivo dà frutti buoni... l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male” (Lc 6,43.45).
Che cosa ha fatto allora Dio? Ha deciso di cambiare il cuore degli uomini. Con un cuore nuovo – ha pensato – essi non avrebbero più avuto bisogno di alcuna legge esterna, avrebbero compiuto il bene seguendo gli impulsi venuti dal loro intimo.
Ecco cos’è la legge dello Spirito: è il cuore nuovo, è la vita di Dio che, quando entra nell’uomo, lo trasforma e da rovo lo fa divenire un albero fecondo, capace di produrre spontaneamente le opere di Dio.
Quando l’uomo è riempito dello Spirito, in lui accade qualcosa di inaudito: ama con l’amore stesso di Dio. Da quel momento “non ha più bisogno che alcuno lo ammaestri” (1 Gv 2,27), non gli occorre altra legge. Giovanni arriva a dire che l’uomo animato dallo Spirito diviene addirittura incapace di peccare: “Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché in lui dimora un germe divino, e non può peccare perché è nato da Dio” (1 Gv 3,9).

E i tuoni, il vento, il fuoco? Ma è chiaro: andiamo a vedere nel libro dell’Esodo quali fenomeni hanno accompagnato il dono dell’antica legge: “Al mattino presto ci furono tuoni, lampi, una nube densa sopra il monte e un suono fortissimo di tromba e tutto il popolo ebbe paura” (Es 19,16). “Tutto il popolo vedeva le voci, i tuoni, il suono della tromba e vedeva il monte che fumava” (Es 20,18).
I rabbini dicevano che sul Sinai, nel giorno di Pentecoste, quando Dio aveva dato la Legge, le sue parole avevano preso la forma di settanta lingue di fuoco, per indicare che la Torah era destinata a tutti i popoli (che in quel tempo si pensava fossero appunto settanta).
Se l’antica legge era stata data in mezzo a tuoni, lampi, fiamme di fuoco... come avrebbe potuto Luca presentare in modo diverso il dono dello Spirito – nuova legge? Se voleva farsi capire doveva impiegare le medesime immagini.

E le molte lingue parlate dagli apostoli?
Probabilmente Luca si richiama ad un fenomeno molto comune nella chiesa primitiva: dopo aver ricevuto lo Spirito, i credenti cominciavano a lodare Dio in uno stato di esaltazione e, come in estasi, pronunciavano parole strane in altre lingue.
Luca ha utilizzato questo fenomeno in un senso simbolico per insegnare l’universalismo della Chiesa. Lo Spirito è un dono destinato a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Di fronte a questo dono di Dio crollano tutte le barriere di lingua, razza e tribù. Nel giorno di Pentecoste succede il contrario di quanto è accaduto a Babele (Gn 11,1-9).
Là gli uomini hanno cominciato a non capirsi e ad allontanarsi gli uni dagli altri; qui lo Spirito mette in atto un movimento opposto: riunisce coloro che si sono dispersi.
Chi si lascia guidare dalla parola del vangelo e dallo Spirito parla una lingua che tutti comprendono e che tutti unisce: il linguaggio dell’amore. È lo Spirito che trasforma l’umanità in un’unica famiglia dove tutti si capiscono e si amano.


Seconda Lettura (1 Cor 12,3b-7.12-13)

Fratelli, 3 nessuno può dire “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo.
 4 Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5 vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; 6 vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7 E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune.
12 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo.
13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.

Da che cosa hanno origine le divisioni all’interno delle nostre comunità? Dalle invidie, dalle gelosie reciproche. Coloro che hanno belle qualità (sono intelligenti, forti, hanno buona salute, hanno studiato...), invece di porre umilmente le loro doti a servizio dei fratelli, cominciano a pretendere titoli onorifici, esigono maggior rispetto, sono convinti di avere diritto a privilegi, vogliono occupare i primi posti. È così che i ministeri della comunità, da occasioni per servire, divengono opportunità per imporsi, per affermare se stessi, il proprio potere, il proprio prestigio.
Nella comunità di Corinto i cristiani non erano migliori di quelli di oggi, commettevano gli stessi peccati, avevano gli stessi difetti. Concretamente, erano divisi a causa dei diversi carismi (cioè dei diversi doni) che ciascuno aveva ricevuto da Dio.
Paolo scrive a questi cristiani per ricordare loro che i molti doni, le molte qualità che ciascuno di loro ha, non sono stati dati per creare divisioni, ma per favorire l’unità: “A ciascuno, dice Paolo, è data una manifestazione dello Spirito, per l’utilità comune” (v. 7). E questo perché l’origine di tutti i doni è unica: lo Spirito. Dice Paolo: “C’è poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito” (v. 4).
Per chiarire meglio quest’idea dell’unità e del servizio reciproco, Paolo utilizza il paragone del corpo.
I cristiani costituiscono un solo corpo, fatto di molte membra. Ogni parte deve svolgere la sua funzione per il bene di tutto l’organismo. Così accade con i diversi doni di cui è arricchito ogni membro della comunità: servono affinché ognuno possa manifestare agli altri il suo amore, mediante un’umile disponibilità al servizio.


Vangelo (Gv 20,19-23)

19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”.
20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.
22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; 23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

Per i primi cristiani, è un giorno importante il primo della settimana perché è il giorno del Signore (Ap 1,10), è quello in cui la comunità è solita riunirsi per spezzare il pane eucaristico (At 20,7; 1 Cor 16,2).
 È sera. L’indicazione temporale con cui inizia il brano evangelico è preziosa: forse indica l’ora tarda in cui i primi cristiani erano soliti ritrovarsi per la loro celebrazione.
Le porte sono sbarrate per paura dei giudei (v. 19). Gesù non aveva certo annunciato trionfi e vita facile ai suoi discepoli; “nel mondo avrete tribolazione” – aveva detto (Gv 16,33). Tuttavia la ragione principale per cui si insiste sulle porte chiuse (Gv 20,26) è teologica: Giovanni vuole far capire che il Risorto è lo stesso Gesù che gli apostoli hanno visto, conosciuto, ascoltato, toccato, ma si trova in una condizione diversa. Non è ritornato alla vita di prima (come ha fatto Lazzaro), è entrato in un’esistenza completamente nuova.
Il suo corpo non è più fatto di atomi materiali, è impercettibile alla verifica dei sensi.
La risurrezione della carne non equivale alla rianimazione di un cadavere. È il misterioso sbocciare di una vita nuova da un essere che è finito. Paolo spiega questo fatto mediante l’immagine del seme. Dice che “da un corpo corruttibile risorge uno incorruttibile”, da “un corpo ignobile risorge un corpo glorioso”, da “un corpo debole risorge uno potente”, da “un corpo animale risorge uno spirituale” (1 Cor 15,42-44).
Quando Gesù mostra le mani e il costato, i discepoli gioiscono. Una reazione sorprendente: dovrebbero rattristarsi vedendo i segni della sua passione e morte. Si rallegrano invece, non perché si ritrovano davanti il Gesù che hanno accompagnato lungo le strade della Palestina, ma perché vedono il Signore (v. 20), si rendono conto che il Risorto che si sta rivelando loro è lo stesso Gesù, colui che ha donato la vita.
Collocando le manifestazioni del Risorto nel contesto della sera del primo giorno della settimana, Giovanni intende dire ai cristiani delle sue comunità che anch’essi possono incontrare il Signore – non Gesù di Nazareth, con il corpo materiale che aveva in questo mondo – ma il Risorto, ogni volta che si ritrovano insieme “nel giorno del Signore”.

Dopo aver rivolto per la seconda volta l’augurio: Pace a voi! (vv. 19.21) Gesù dona ai discepoli il suo Spirito e conferisce loro il potere di rimettere i peccati (vv. 21-23).
I discepoli sono inviati a compiere una missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.
Quando era nel mondo, Gesù rendeva presente il volto e l’amore del Padre (Gv 12,45), ora, lasciato questo mondo, egli continua la sua opera attraverso i discepoli ai quali consegna il suo Spirito.
Accogliere lui era accogliere il Padre che lo aveva mandato, ora accogliere i suoi inviati è accogliere lui (Gv 13,20).
Per comprendere la missione affidata agli apostoli, il perdono dei peccati mediante l’effusione dello Spirito dobbiamo rifarci alle concezioni religiose del popolo d’Israele e alle parole dei profeti.
Al tempo di Gesù era diffusa l’idea che gli uomini agivano male, si contaminavano con gli idoli, erano impuri perché erano mossi da uno spirito cattivo. Ci si chiedeva quando Dio sarebbe intervenuto per liberarli e per infondere in loro uno spirito buono.
Nella lettera ai romani Paolo fa una descrizione drammatica della condizione infelice dell’uomo che si trova in balia dello spirito del male: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,15-19).
Per bocca dei profeti Dio promise il dono di uno spirito nuovo, del suo Spirito: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36,25-27).
Questa effusione dello Spirito del Signore avrebbe rinnovato il mondo. Lo inonderà – disse il profeta Ezechiele – come un torrente d’acqua impetuoso che, quando entra nel deserto, lo feconda e lo trasforma in giardino. “Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno, i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina” (Ez 47,1-12). Sono immagini deliziose che descrivono in modo mirabile l’opera vivificante dello Spirito.
Nel giorno di Pasqua si compiono queste profezie. Con un gesto simbolico – Gesù alitò su di loro – viene consegnato lo Spirito. Questo soffio richiama il momento della creazione, quando “il Signore Dio formò l’uomo dalla polvere della terra e respirò dentro le sue narici il respiro della vita” (Gn 2,7). Il soffio di Gesù crea l’uomo nuovo, l’uomo che non è più vittima delle forze che lo portano al male, ma è animato da un’energia nuova che lo spinge al bene.
Dove giunge questo Spirito il male è vinto, il peccato è perdonato – cancellato, distrutto – e nasce l’uomo nuovo modellato sulla persona di Cristo.
La missione che il Risorto affida ai suoi discepoli è di rimettere i peccati, continuando così la sua opera di “Agnello di Dio, venuto per togliere i peccati del mondo” (Gv 1,29).
Che significa rimettere i peccati? Queste parole sono state interpretate – in modo giusto, ma riduttivo – come il conferimento agli apostoli del potere di assolvere dai peccati. Non è questo però l’unico modo per rimettere, cioè, per neutralizzare, per sconfiggere il peccato. La potestà conferita da Gesù è molto più ampia e riguarda tutti i discepoli che sono animati dal suo Spirito: è quella di purificare il mondo da ogni forma di male.
I poteri non sono due – rimettere o ritenere – a discrezione del confessore che valuta caso per caso. Il potere è uno solo, quello di annientare, in tutti i modi, il peccato. Ma questo può anche essere non rimesso: se il discepolo non si impegna a creare le condizioni affinché tutti aprano il cuore all’azione dello Spirito, il peccato non viene rimesso.
Di questo fallimento della missione, il discepolo è responsabile.


Padre Fernando Armellini, biblista

sabato 4 giugno 2011

Ascensione del Signore

Nutriamoci della Parola di Dio 05 giugno 2011


Vangelo (Mt 28,16-20)

16 Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. 17 Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. 18 E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. 19 Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, 20 insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Matteo non descrive l’ascensione di Gesù come fanno gli Atti degli Apostoli, ma, servendosi di immagini diverse, propone il medesimo messaggio.
A differenza di Luca e Giovanni, egli colloca l’incontro con il Risorto non a Gerusalemme ma in Galilea. Questa ambientazione geografica ha un valore teologico: l’evangelista vuole affermare che la missione degli apostoli inizia là dov’era cominciata quella del loro Maestro.
La Galilea era una regione disprezzata. A causa delle frequenti invasioni dal nord e dall’est, era abitata da una popolazione eterogenea, derivata da una mescolanza di razze. Isaia la designa come “il territorio dei Gentili”, cioè, dei pagani (Is 9,1) e i giudei ortodossi la guardavano con sospetto e diffidenza. A Nicodemo che timidamente cercava di difendere Gesù, i farisei di Gerusalemme obiettarono: “Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea” (Gv 7,52).
È proprio a questi semi-pagani – vuole dire Matteo – che ora è destinato il vangelo. Gerusalemme, la città che ha rifiutato il messia di Dio, ha perso il suo privilegio di essere il centro spirituale di Israele.

L’incontro del Risorto con i discepoli avviene sul monte (v. 16).
Commentando il vangelo della seconda domenica di Quaresima abbiamo chiarito il significato biblico del monte: era il luogo delle manifestazioni di Dio; in cima al monte egli si era manifestato a Mosè ed Elia.
Matteo impiega spesso questa immagine: colloca Gesù sul monte ogni volta che insegna o compie qualche gesto particolarmente importante.
Se si tiene presente questo fatto, si comprende il significato della scena narrata nel brano di oggi: l’invio dei discepoli nel mondo è un avvenimento decisivo. Non solo, ma è abilitato a svolgere questa missione solo chi, sul monte, ha fatto l’esperienza del Risorto e ha assimilato il suo messaggio.
L’annotazione che “alcuni degli apostoli ancora dubitavano” (v. 17) è sorprendente. Come potevano avere ancora dei dubbi se avevano già incontrato il Risorto a Gerusalemme il giorno di Pasqua?
Dal punto di vista della catechesi, questo particolare è indicativo. Per Matteo la comunità cristiana non è composta da gente perfetta, ma da persone in cui continuano ad essere presenti il bene e il male, la luce e la tenebra. Fra i primi discepoli riscontriamo questa situazione: hanno fede, ma permangono ancora dubbi e incertezze.
È possibile credere in Cristo ed avere dubbi. Impossibile è il contrario: non può esistere la fede assieme all’evidenza. Non si può “credere” che il sole esista: c’è la certezza, lo si può vedere, sono scientificamente verificabili gli effetti della sua luce e del suo calore. Nel campo della fede questa evidenza è impossibile. Come gli apostoli, anche noi abbiamo la convinzione profonda della verità della risurrezione di Cristo, ma non la si può dimostrare.

Nella seconda parte del brano (vv. 18-20) c’è l’invio degli apostoli ad evangelizzare il mondo intero.
Durante la sua vita pubblica, Gesù li aveva mandati ad annunciare il regno dei cieli con queste istruzioni: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5-6). Dopo la Pasqua la loro missione si amplia, diviene universale.
La luce si era accesa in Galilea quando Gesù, lasciata Nazaret, si era stabilito a Cafarnao. Il popolo immerso nelle tenebre aveva visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte, una luce si era levata (Mt 4,16). Ora la sua luce deve splendere in tutto il mondo. Come hanno annunciato i profeti, Israele diviene “luce delle genti” (Is 42,6).
Il momento è decisivo e Gesù si richiama alla sua autorità: è stato inviato dal Padre a portare il messaggio della salvezza; ora egli affida questo compito alla comunità dei discepoli, conferendo loro i suoi stessi poteri.
La chiesa è chiamata a rendere presente Cristo nel mondo. Mediante il battesimo genera nuovi figli che vengono inseriti nella comunione di vita della trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito. Missione sublime, ma ardua; suscita sgomento e trepidazione in chi è chiamato a svolgerla.
Ogni vocazione è sempre accompagnata dalla paura dell’uomo e da una promessa del Signore che assicura: “Non temere, io sono con te”. A Giacobbe in viaggio verso una terra ignota Dio garantisce: “Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, non ti abbandonerò” (Gn 28,15); a Israele deportato a Babilonia dichiara: “Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo. Non temere perché io sono con te” (Is 43,4-5); a Mosè che obietta: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire gli israeliti dall’Egitto?”, risponde: “Io sarò con te” (Es 3,11-12); a Paolo che a Corinto è tentato di scoraggiarsi, il Signore dice: “Non aver paura, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male” (At 18,9-10).
La promessa del Risorto ai discepoli che stanno per muovere i primi, timidi passi, non può essere diversa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Si chiude così, com’era iniziato, il vangelo di Matteo: con il richiamo all’Emmanuele, al Dio con noi – nome con il quale il messia era stato annunciato dai profeti (Mt 1,22-23).

Fernando Armellini (biblista)