sabato 29 maggio 2010


Omelia del giorno 30 Maggio 2010

Santissima Trinità (Anno C)

Nel Cuore della SS.ma Trinità

Il primo insegnamento che usciva dal cuore delle nostre mamme – un tempo e speriamo ancora oggi

era di educare la nostra mano ed il nostro cuore a farsi il segno della croce. Era il 'segno' che apriva e chiudeva la giornata, vissuta così nell'amore della SS.ma Trinità.

Eravamo ancora incapaci di camminare sicuri, ma la nostra manina si lasciava condurre da quella sicura di chi ci aveva donato la vita, e tracciava sulla nostra fronte, sul cuore e sulle spalle, fino a disegnarla con chiarezza, come segno di tutta l'esistenza, la croce, quella di Gesù, accompagnando il segno con le parole `Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo'.

Una brevissima professione di fede che avrebbe dovuto segnare ogni passo del nostro pellegrinare: ogni inizio di giornata, di lavoro, di sacrificio, dì riposo, vero distintivo e professione di ciò che siamo diventati con il Battesimo: figli di Dio.

Figli di un Padre, che si è donato gratuitamente e da cui siamo creati e a cui apparteniamo; un Fratello, il Figlio di Dio, Gesù, mandato dal Padre per salvarci e talmente vicino a noi da essere 'pane di vita'; 1' Amore stesso di Dio , lo Spirito Santo, effuso su di noi nella Cresima, che ci assiste e dà forza nella difficile nostra vita.

Tracciando il segno della croce, se siamo attenti, professiamo le principali verità di fede: Dio Uno e Trino, Padre, Figlio e Spirito Santo e la morte e resurrezione di Gesù, espressione concreta di quanto sia infinito l'Amore.

È tanto grande la verità contenuta nel Mistero della Santissima Trinità, da rimanere sbalorditi, non solo per ciò che è, ma per il Suo divino degnarsi di abbassarsi fino a farsi dono per noi!

Viene proprio da chiedersi quanto prega il Salmista:

"O Signore, nostro Dio, quanto è grande il Tuo Nome su tutta la terra.

Se guardo il cielo opera delle Tue dita, la luna e le stelle che Tu hai creato,

che cosa è mai l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli; di gloria e di onore l'hai coronato;

gli hai dato potere sulle opere delle Tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi". (Salmo 8)

C'è da confondersi, se pensiamo quanto l'uomo di oggi difficilmente sappia riferirsi a questa sua grandezza, che gli viene dalla Santissima Trinità. Difficilmente sappiamo volgere la nostra attenzione sul grande Amore, di cui siamo onorati e circondati.

Così Gesù ha annunciato ed continua ad annunciare questo grande Amore:

"In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: 'Molte cose ho da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito, e vi annuncerà le cose future Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede é mio, per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà". (Gv. 16, 12-15)

Cosi il nostro caro Paolo VI, descrive il grande Mistero della SS.ma Trinità:

"Il santo Natale non ci rivela soltanto Cristo, ma da Lui traspare la visione abbagliante e avvincente della Paternità di Dio e con quella il Mistero della stessa vita di Dio, il mistero della SS.ma Trinità. Dio è Padre eternamente generante, in se stesso, il Figlio, il suo proprio vivente Pensiero, il suo Verbo identico nella natura, cioè nell'essere al Dio unico principio assoluto e insieme, nell'identità di sostanza di Padre e del Figlio, spiranti l'Amore, lo Spirito Santo. Unico l'Essere divino, ma sussistente in Tre Persone uguali, distinte e coeterne, verità eccedente la nostra capacità di conoscenza; essa tratta della vita divina in se stessa e perciò ineffabile, ma non senza un minimo ma meraviglioso riflesso, che riscontreremo e che riscontriamo in S. Agostino: lo dico – scrive – queste tre cose, essere, conoscere, volere. Io sono, io conosco, io voglio... In queste tre cose quanto sia inseparabile la vita... quanto inseparabile la distinzione... veda chi può". (7 gennaio 1974)

Purtroppo sembra difficile vedere oggi gli uomini farsi il segno della croce, accompagnandolo con una vera professione di fede: o non lo sanno più fare o, ancora più triste, non ne conoscono il contenuto. E viene tanta nostalgia di quando le nostre famiglie, nella loro composta, a volte dura povertà, che non si vergognavano di manifestare, erano meravigliosamente illuminate da questo semplice segno di fede. Anzi era la 'croce', che papà e mamma piantavano, non solo al centro della famiglia, ma ancor più della nostra vita, come a ricordarci che 'il Padre ti ama, il Figlio ha dato la vita per questo amore, lo Spirito Santo è l'Amore, prezioso sale della vita'.

Quel 'segno della croce' raccoglieva le tante lacrime, che in Gesù acquistavano il sapore dell'amore. Le braccia aperte di Dio, costrette dai chiodi a non chiudersi mai, mettevano una gran voglia di abbandonarsi, come a voler affondare la testa su quelle spalle, che si offrivano per accogliere. E quel Cuore sempre aperto era come la porta di casa. Sentivi che ti introduceva in un infinito, desiderato Paradiso, la Casa di Dio, che Lui vuole, da sempre e per sempre, condividere con i Suoi figli.

Ma ora la gente pare che voglia camminare senza quella croce, con il senso di chi ha deciso, non se ne capisce la ragione, di sfrattare dalla propria vita il Mistero dell'Amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e così... finisce che ci si sente sfrattati dalla pace, dalla pietà, dalla compassione e dalla misericordia!

Così tanti si sentono come sul lastrico della vita a mendicare gioie che non ci sono, con nel cuore, al posto della Croce, voglia di ricchezza, dì gloria, svendita di vita, dignità e tentazione di violenza. Rimane l'amarezza di non percepire nella propria vita lo sguardo del Padre, che dal trono della croce del Figlio, pare ci dica: 'Sono qui a dirti che ti amo tanto, da darti come segno del mio amore questo stare sulla croce del mio Figlio; un amore che condividiamo pienamente, un amore che diventa Fuoco con lo Spirito."

Non è forse rassicurante e bello sapere di essere amati da Dio?

Nella nostra debolezza o ignoranza, amiamo a volte piccole cose che non hanno cuore e durano poco. Erano gli ultimi giorni della vita di mia mamma. Nella sua lunga vita, durata 99 anni, non si potevano contare i segni di croce che aveva fatto ed aveva aiutato i figli a fare. Tanti come i passi della sua vita, così come sono diventati l'alfabeto della mia vita su cui Dio ha composto la mia esperienza. Ed ogni segno di croce esprimeva tanta fede, che era come dire, anche in situazioni, che avrebbero fatto gridare di disperazione: 'Io ti amo, Signore, si faccia di me secondo il Tuo Cuore'. Anche quando vide morire –allora non vi erano le cure di oggi – un figlio piccolo, che si chiamava Francesco, e mi aveva preceduto nella nascita; o quando morì un'altra figlia, una bambina a cui aveva dato il nome di Maria Redenta, in onore dell'anno della Redenzione, il 1933; o quando seppe del terremoto nel Belice ed io ero là, senza poter comunicare con lei, per rassicurarla; o nominato vescovo ad Acerra, sotto scorta. Era sempre lo stesso abbandono all'amore del Padre, che la guidava, anche se spesso... faceva un gran male. Conoscevo molto bene quel suo muovere le mani come recitasse il 'Credo'. La contemplavo come si contempla il Mistero della Trinità. E conservo nel cuore l'ultima benedizione e la stessa solennità nel fare il segno di croce, l'ultimo giorno della vita, quando mi chiese di benedirla. Era la croce il suo incessante credo, che ornava e sosteneva la sua vita.

Quanto amore contiene la Trinità, quando la lasciamo 'incarnare' nel nostro vissuto!

Così scrive Paolo ai Romani:

"Fratelli, giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo: per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.

E non soltanto questo: ma ci vantiamo anche delle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.

La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato". (Rom. 5, 1-5)

E con Madre Teresa di Calcutta offriamo la preghiera:

"O Dio del cuore, tu che hai creato e dato la vita a tutti noi,

facci crescere in amore per Te e l'uno per l'altro.

Hai mandato Tuo Figlio, Gesù Cristo, per rivelarci che Tu ti prendi cura di noi tutti e che Tu ci ami. Donaci il Tuo Santo Spirito, affinché susciti in noi una fede forte, abbastanza forte per capire con profonda comprensione la vita degli altri popoli, in modo da saper scorgere

in ogni bicchiere d'acqua, offerto all'assetato, un bicchiere d'acqua offerto all'amato tuo Figlio".

Antonio Riboldi – Vescovo –

venerdì 21 maggio 2010


Omelia del giorno 23 Maggio 2010

Pentecoste (Anno C)

Pentecoste - grande ora della chiesa

“Grande ora della Chiesa”, così definisce Paolo VI la Solennità della Pentecoste, ossia il giorno in cui lo Spirito Santo, come a completare l'opera iniziata da Gesù, per riportare gli uomini alla nobiltà di figli di Dio, ci ha donato la forza ed energia, che solo Dio può dare e dà.

Così narrano quel giorno gli Atti degli Apostoli:

"Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso un rombo dal cielo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano gli Apostoli. Apparvero loro lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro ed essi furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito Santo dava loro di potere esprimersi.

Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore e dicevano: 'Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E come mai li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?

Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e della Libia, vicino a Curne, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio". (At. 2, 1-11)

Si ha come l'impressione che a Gerusalemme, quel giorno, si fosse radunato tutto il mondo, come a essere testimoni del grande evento, che era la 'nascita della Chiesa di Dio'. E sembra di assistere al racconto biblico della stessa creazione dell'uomo, quando Dio, dopo aver composto con il fango la sua creatura, la rese partecipe della sua stessa vita, infondendole il Suo Spirito.

Per questa sua natura spirituale, che viene direttamente da Dio, l'uomo non può stare solo. Ha profondamente bisogno di essere amato e di amare. Senza amore si sente paralizzato... menomato. Gli Apostoli, che conoscevano molto bene le debolezze e paure della natura umana, e ne avevano dato prova piena il giorno della passione di Gesù, quel giorno è come fossero rinati, riscoprendo e ritrovando in se stessi, per azione dello Spirito, la stessa energia di Dio, così da potersi esprimere ormai senza più paure, dando vita alla comunità cristiana.

Basta leggere gli Atti per toccare con mano il grande cambiamento interiore avvenuto in loro.

Lo Spirito Santo ormai li aveva trasformati, fino al punto da non temere più opposizioni, ma addirittura gioire, ogni volta venivano perseguitati, messi in carcere, flagellati, tornando sempre sulla piazza e nel tempio a 'lodare Dio' e continuare l'opera di evangelizzazione, che era stata loro affidata dal Maestro, la stessa a cui siamo chiamati tutti noi cristiani, oggi, sia pure in modi diversi.

C'è un giorno nella nostra vita in cui anche per noi accade l'Evento della Pentecoste, ossia il giorno in cui riceviamo il grande sacramento della Cresima: lo Spirito Santo diviene l'anima del nostro coraggio nel vivere e diffondere il Vangelo.

Ma è così?

Quante volte questa domanda mi viene sulle labbra, quando amministro agli adolescenti il sacramento. Esternamente è grande festa, ma pare si fermi lì, quando invece la vita cristiana dovrebbe da quel momento avere un inizio più incisivo e consapevole.

La mia vocazione alla vita religiosa è nata proprio il giorno della mia Cresima, quando il Cardinal Schuster mi 'lesse negli occhi' (ero chierichetto) forse il segno di una particolare vocazione. La forza dello Spirito mi aiutò a dire 'sì' e così ho potuto conoscere una discesa ancora più potente dello Spirito Santo, il giorno in cui il Vescovo stese le mani sopra di me, invocando lo Spirito Santo, nel ricevere il sacramento dell'Ordine. Ma fui come sconvolto quando, circondato da circa 30 vescovi, in piazza a Santa Ninfa, rispondendo alla chiamata di Paolo VI, che mi aveva voluto vescovo, sentii le mani del Cardinal Pappalardo stese sul mio capo, poi unto dall'olio crismatico. Compresi che qualcosa di nuovo, tutto interiore, sorprendente avveniva in me, come vescovo, pastore delle anime, affidatemi dal Maestro.

A distanza di anni, ogni volta do uno sguardo al mio servizio di parroco nel Belice e ancora dì più agli anni da vescovo nella non facile diocesi in cui vivo, mi è chiara 'la presenza dello Spirito Santo' al punto da chiedermi: chi ha agito? Chi ha dato energia e discernimento?

La risposta è sempre la stessa: lo Spirito ha operato ed io sono stato uno strumento.

Anche se in modi diversi, ogni cristiano nel giorno della Cresima, riceve lo stesso Spirito.

A volte lo si costringe a restare ininfluente, per impreparazione, - poiché lo Spirito opera sempre attraverso la nostra libera volontà – a volte rende davvero la nostra azione profetica. Penso ai grandi Pontefici che ci hanno accompagnato nel secolo scorso.

Chi non ricorda Giovanni XXIII? Non è forse stata ispirazione dello Spirito l'aver indetto il Concilio Vaticano II, da parte di questo Papa buono, considerato da molti, all'inizio, 'solo un Papa di transizione'? La sua stessa presenza sorridente e affabile, come se nulla fosse impossibile, non ha forse suscitato meraviglia, infuso ottimismo e coraggio?

Ricordate la sera dell'inizio del Concilio, quando con semplicità salutò i pellegrini in piazza S. Pietro, invitando tutti a dare una carezza ai bambini?

E che dire di Paolo VI, vero apostolo delle genti, che soffrendo seppe guidare il Concilio e la Chiesa in tempi tanto difficili? E del coraggio di Giovanni Paolo II, che fino alla fine ha testimoniato 'il vento gagliardo' dello Spirito?

Così come possiamo ricordare tanti vescovi che hanno lasciato la loro impronta di uomini dello Spirito, o sacerdoti che abbiamo ammirato per la loro profonda spiritualità e zelo apostolico.

Ma il pensiero corre anche ai tanti martiri, che non temono di andare incontro alla morte, a volte dopo tanti tormenti... anche oggi, in tante parti del mondo.

E viene da chiedersi: 'Ma chi dà la forza del martirio?'. Vi è una sola risposta: lo Spirito Santo.

Così come il pensiero va ai tanti fratelli e sorelle laici, che, in tante parti del nostro pianeta, devono ogni giorno mostrare grande forza d'animo per essere fedeli a Cristo, a cominciare dalla Cina, dove è facile essere arrestati e si deve ricorrere alla clandestinità per esercitare la fede, o nell'India dove si può avere la casa distrutta e perdere la vita per la fede in Cristo.

Sono davvero tanti i testimoni, oggi, dell'opera dello Spirito Santo. Anche tra la nostra gente.

Ne incontro in ogni parte d'Italia: giovani, uomini e donne, che sono stupendi testimoni che lo Spirito opera in modo incredibile e non ha certamente paura delle tante mode o contrasti. Qualcuno ha detto che è difficile essere cristiani coerenti, ossia testimoni veri dello Spirito, oggi. Credo invece che siano ancora tanti e ovunque ed in ogni categoria.

Come a dare ragione a quanto, scrisse S. Paolo ai Corinzi:

"Fratelli, nessuno può dire 'Gesù è il Signore' se non sotto l'azione dello Spirito Santo. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore Vi sono diversità di operazione, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei e Greci, schiavi o liberi, e tutti ci siamo abbeverai a un solo Spirito". (Cor. 12, 12)

Davvero grande il Dono dello Spirito Santo. Sapere che Lui è forza e luce dona coraggio nelle vicende della vita.

Per questo la Pentecoste è la 'grande ora' della Chiesa, che deve mostrare il suo vero volto. Paolo VI così commentava questa grande Solennità, il Dono per eccellenza:

"Grande ora è questa che offre la sorte di concepire la vita cattolica come una dignità e una fortuna, come una nobiltà e una vocazione.

Grande ora è questa che sveglia la coscienza dall'assopimento indolente in cui per moltissimi era caduta e la illumina a nuovi diritti e doveri.

Grande ora è questa che non ammette che uno possa dirsi cristiano e conduca una vita moralmente mediocre, isolata ed egoista, caratterizzata solo dalla osservanza stentata di qualche precetto religioso, e non piuttosto trasfigurata dal vivere la propria fede con pienezza dí convinzioni. Grande ora è questa che bandisce dal popolo cristiano il senso della timidezza e della paura, il demone della discordia e dell'individualismo.

Grande ora è questa in cui la Pentecoste invade di Spirito Santo il Corpo mistico di Cristo e gli dà un rinato senso profetico, come affermava Pietro nella prima predica cristiana che l'umanità ascoltava: Profeteranno i vostri figli e le vostre figlie, e i giovani vedranno visioni e i vostri vecchi sogneranno sogni. E sui miei servì e le mie ancelle in quei giorni effonderò il mio Spirito e profileranno'. (At. 2, 17-18): cioè godranno di interiore pienezza spirituale ed avranno capacità di darne stupenda testimonianza". (giugno 1957)

Tocca ora a noi lasciarci invadere dallo Spirito Santo.

Lo preghiamo con la sequenza della S. Messa del giorno di Pentecoste:

"Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, Padre dei poveri, vieni Datore dei doni, vieni luce dei cuori. Consolatore perfetto, dolce Ospite dell'anima, dolcissimo Sollievo. Nella fatica Riposo, nella calura Riparo, nel pianto Conforto. O Luce beatissima, invadi nell'intimo, il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua Forza, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato, Dona ai tuoi fedeli, che soli in Te confidano, i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen".

E a tutti, carissimi, BUONA PENTECOSTE!

Mons. Antonio Riboldi

domenica 9 maggio 2010

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui

Domenica 9 maggio 2010 VI Domenica di Pasqua Anno C

San Gregorio di Ostia

Gv 14,23-29

† Dal Vangelo secondo San Giovanni

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]:

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

Nelle incomprensioni, affidarsi ai lumi dello Spirito Santo. Nei turbamenti, riposare nella pace di Dio. Nelle prove, guardare l’eternità. Marciare come militi di Dio alla conquista eterna.

Gli apostoli si mostrarono un po’ disorientati alle parole di Gesù; non le comprendevano appieno e non sapevano come metterle in pratica. Gesù, però, non parlava perché avessero praticato tutto ciò che diceva allora stesso né parlava solo per loro: si rivolgeva a tutti gli uomini e alla sua Chiesa futura, della quale essi erano le primizie; non dovevano dunque turbarsi per la loro incomprensione attuale, ma aspettare con fiducia le illuminazioni dello Spirito Santo. La santità, infatti, non è un edificio morto che si eleva a via d’industrie, ma è come il germinare, il crescere, il fiorire e il fruttificare di una pianta che si compie sotto i raggi del sole, per vita interna. L’anima è istruita da chi la guida, ed ha l’impressione di dimenticare tutto ciò che ascolta né sa vedere come possa metterlo in pratica. Ciò che ascolta, però, non è una lezione ma una semina, non è uno studio arido di problemi spirituali o psicologici, ma è come l’aprirsi di un orizzonte e il delinearsi di una strada, a percorrere la quale occorre, poi, la guida e il veicolo.

L’anima, quasi sempre, come avveniva anche agli apostoli, dimentica ciò che ascolta o ciò che legge e, povera com’è, non sa come cominciare e proseguire il suo cammino di perfezione. Essa non deve disorientarsi, o stillarsi il cervello ma, offrendosi tutta a Dio, deve confidare nei lumi dello Spirito Santo. È proprio quello che Gesù disse agli apostoli: Queste cose vi ho detto mentre mi trovavo ancora in mezzo a voi; cioè, voleva dire, io vi ho detto molte cose per profittare del tempo nel quale sono con voi, ma voi non vi preoccupate di non ricordarle, o di ricordarle in parte; verrà poi lo Spirito Santo che il Padre manderà nel nome mio, ed Egli vi insegnerà ogni cosa, spiegandovi quello che non avete capito, e vi ricorderà, a mano a mano che vi occorrerà, tutto quello che vi ho detto, e che avete dimenticato.

Questa soave provvidenza nella formazione e nella perfezione dell’anima possiamo constatarla continuamente: noi ascoltiamo e leggiamo qualcosa di vitale, ne esultiamo, e poi dimentichiamo tutto o quasi tutto. Quel nutrimento spirituale non è perduto, ma è come la concimazione o l’innaffiamento della pianta: rimane in noi e, ai raggi salutari dell’azione dello Spirito Santo, affiora nelle parti avvizzite del cuore, e le vivifica. A volte si trasforma, diventa un pensiero che par che nasca da noi, ed è invece l’elaborazione venuta dalla grazia di un pensiero vitale, rendendolo come linfa appropriata alle nostre disposizioni particolari, e ai fini che il Signore vuol conseguire nella nostra vita. Quando l’anima si dona interamente a Dio nella soave schiavitù dell’amore, lungi dal preoccuparsi nel suo cammino di perfezione, deve rimettersi alla grazia dello Spirito Santo e confidare, con la ferma volontà di rispondere e di fare tutto ciò che Egli le ispira, nella luce di chi la guida nel cammino della santità1.
Bando agli estetismi dello spirito!

La preoccupazione, in questa via d’amore, può spegnere precisamente l’amore, diventare ansietà orgogliosa di vedersi buoni, diventare vanità di spirituale estetica, e togliere la pace dal cuore. È questa la ragione dell’agonia che tante anime hanno nel cammino spirituale: esse non si affidano alla grazia dello Spirito Santo ma alle loro attività, non cercano la gloria di Dio ma inconsciamente la loro gloria, e vanno cercando la pace nelle pieghe del loro cuore inquieto, anziché nel caldo soave e materno della divina volontà. Per questo Gesù, dopo aver parlato agli apostoli della futura azione dello Spirito Santo nella loro santificazione, soggiunge: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non ve la do come la dà il mondo. Il vostro cuore non si turbi né si sgomenti. La pace che dona Gesù è la tranquillità dell’anima data interamente a Dio, è la calma nelle prove che nasce dall’unione alla divina volontà, è l’intima gioia di sentirsi di Dio anche quando la povera natura agonizza, è il dolore stesso e la pena illuminati dalla luce della bontà divina, e dalla speranza dell’eterna gloria. Gli apostoli erano turbati e sgomenti perché Gesù aveva accennato loro alla sua prossima dipartita dal mondo; ebbene, neppure questo doveva turbarli, quando pensavano che Egli se ne andava al Padre, e che la sua umanità, minore del Padre, andava alla gloria. Come Dio, Egli era nel Padre e il Padre in Lui; era suo Verbo consustanziale e stava immutabilmente nella divina gloria; ma, come uomo, era minore del Padre, era pellegrino, angustiato, afflitto, e prossimo a subire l’estrema immolazione. Se essi l’amavano veramente, dovevano godere che la sua addolorata umanità andava ad immergersi nella gloria del Padre.
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace»

Dicendo questo, Gesù apriva alle anime desolate l’orizzonte eterno, e alle anime vittime la visuale della pace imperturbabile nell’eterna gloria. Certo, le pene della vita sono gravi, e a volte ci danno l’impressione di una fitta oscurità senza uscita e senza scampo. Ci accoriamo di noi, e ci sentiamo sgomenti; eppure basta pensare che l’angustia passa e che viene presto la pace eterna, per sentirsi rianimati. Basti a ciascun giorno il suo affanno; il domani mettiamolo interamente nelle mani di Dio, e orientiamo l’anima nostra al domani eterno che ci attende. Quando ci uniamo alla divina volontà e viviamo in questa soave speranza, i giorni amari diventano come una spinta maggiore verso gli eterni orizzonti, ci astraggono dal mondo, ci appartano dalle realtà umane, e ci uniscono a Dio in modo così profondo, e in un abbandono così completo che satana non può aver nulla di comune con noi né può esercitare in noi quel tristo dominio che ha sui peccatori, fonte di disperata agitazione.

Gesù accennò velatamente alla sua Passione e morte, riparlando della sua dipartita dal mondo, e l’accennò perché gli apostoli, vedendola avverata, non si fossero turbati; Egli, però, protestò che il principe di questo mondo, cioè satana, non aveva nulla in Lui, e che, quello che avrebbe fatto contro di Lui, Egli lo avrebbe permesso, per dimostrare al mondo il suo amore al Padre nell’immolazione, e per compiere il suo grande disegno della redenzione umana: Non parlerò ancora molto con voi – soggiunse –, perché me ne andrò vittima della macchinazione infernale di Giuda, mosso da satana; non vi turbate, però né crediate che io sia sotto il suo dominio quando sarò tormentato e posto a morte. Satana non può nulla senza il mio permesso, e non ha nulla in me, perché non può colpirmi e raccogliere da me neppure un’impazienza; quello che avverrà, e di cui vi prevengo, avverrà per l’amore infinito che porto al Padre e per il quale m’immolo, e sarà da parte mia il compimento pieno della sua volontà.

Dicendo queste parole, Gesù esortò gli apostoli ad alzarsi e a disporsi ad andar via, perché Egli voleva recarsi all’orto a pregare, e iniziare così la sua Passione. Non disse loro di uscire immediatamente, perché continuò a parlare né volle esortarli semplicemente a muoversi ma, essendo essi afflitti e timorosi, volle dir loro: Non vi accasciate, e non temete che, uscendo di qui, troviate subito qualche agguato; siate forti, seguitemi, e unitevi a me come soldati coraggiosi che seguono il capitano nel cammino della lotta. Siamo tutti di Dio, offriamoci a Lui come schiavi d’amore, nel pieno abbandono della sua volontà, e satana non avrà nulla di noi, quantunque egli muova contro di noi lotte gravi e atroci per sconcertarci.

Operiamo e soffriamo come vittime d’amore e non come vittime di fatalità, come esecutori del piano ammirabile della divina volontà in noi, e non come schiavi di eventi crudeli. C’immoli l’amore, non satana, e ci metta in croce il Signore per i suoi fini d’amore, non la perfidia diabolica per i suoi fini di rovina spirituale.

Come militi di Dio, pronti ai suoi amorosi ordini, marciamo verso le mete eterne, per conquistare la felicità eterna. Quando si delineano, nella nostra vita, delle contrarietà, non ci scoraggiamo né diamo luogo a satana, impazientendoci. Sorgiamo e, offrendoci a Dio in un pieno abbandono d’amore, diciamogli, in unione a Gesù: Voglio abbracciare la croce perché il mondo sappia che io ti amo sopra tutte le cose, e che compio la tua volontà: la volontà di Dio non è l’immolazione direttamente, ma la gloria e il premio che consegue l’immolazione; la prova è solo un mezzo per guadagnarsi il premio, e un breve cammino per giungere trionfanti alla Patria. Marciamo con coraggio verso la conquista eterna, e pensiamo che il dolore di un giorno equivale alla gioia di un’eternità.

Doniamoci a Dio, interamente, senza riserva e senza presumere di tracciare noi il cammino che deve condurci a Lui. Egli lo ha segnato con ammirabile precisione d’amore e, come stratega divino, ha ponderato le nostre forze e la meta che ciascuno di noi deve raggiungere. Abbandoniamoci a Lui, seguiamo la sua via, nella luce della sua verità, sostenuti da Lui, nostra vita; doniamoci a Gesù Cristo, nostra via, verità e vita e raggiungeremo la gloria eterna.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

1 Tante anime che spesso si trovano agitate o scoraggiate dovrebbero meditare questa pagina, di cui riscontreranno in se stesse una verifica e una conferma.

venerdì 7 maggio 2010


Santa eppure mescolata ai peccatori: la Chiesa del papa teologo

Divampa la polemica sui peccati della Chiesa. Ecco come Ratzinger, da giovane professore, spiegava perché "il divino si presenta così spesso in mani indegne". Una pagina scritta più di quarant'anni fa, ma attualissima






ROMA, 6 maggio 2010 – Il servizio di www.chiesa della scorsa settimana sul concetto di "Chiesa peccatrice" ha suscitato vivaci consensi e dissensi.

Tra chi dissente c'è Joseph A. Komonchak, sacerdote dell'arcidiocesi di New York, storico e teologo, curatore dell'edizione americana della "Storia del Vaticano II" diretta da Giuseppe Alberigo, firma di prestigio della rivista "Commonweal".

Egli ci ha scritto:

*

Caro Sandro Magister,

Nel suo recente post, lei ha affermato che l'attuale papa non ha mai fatta propria l'idea che la Chiesa possa essere definita peccatrice. Ma in realtà, nella sua "Introduzione al cristianesimo", naturalmente scritta prima di diventare papa, egli usa questa formula. Parla anzi del Vaticano II come "troppo timido" nel parlare non più soltanto della Chiesa santa ma della Chiesa peccatrice, "tanto profonda è nella coscienza di noi tutti la sensazione della peccaminosità della Chiesa" (p. 329 dell'ultima edizione italiana). Egli segue qui, credo, la visione di sant'Agostino, ripresa in san Tommaso d'Aquino, secondo cui la Chiesa non sarà "senza macchia o ruga" fino alla fine dei tempi. Entrambi i grandi santi citano la prima lettera di Giovanni 1, 8: "Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi". Ed ogni giorno ed ovunque la Chiesa prega: "Rimetti a noi i nostri debiti". Il cardinale Biffi è nel giusto circa l'uso della frase "casta meretrix", ma, naturalmente, la questione non si riduce a questo. In ogni caso, almeno in una occasione, in una visita a Fatima, papa Giovanni Paolo II parlò della Chiesa come "santa e peccatrice".

Sinceramente suo,

Joseph A. Komonchak

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Padre Komonchak ha ragione quando cita Giovanni Paolo II. Nel primo dei suoi tre viaggi a Fatima, quello del 1982, e nel primo dei sette discorsi da lui pronunciati in quella città, egli in effetti disse di essere arrivato lì "pellegrino tra pellegrini, in questa assemblea della Chiesa pellegrina, della Chiesa viva, santa e peccatrice".

Ma va notato che, nella mole sterminata dei discorsi di questo papa, questa è l'unica volta in cui si trova l'aggettivo "peccatrice" applicato direttamente alla Chiesa. Una prudenza tanto più rimarchevole in quanto adottata da un papa passato alla storia come colui che chiese ripetutamente e pubblicamente perdono per i peccati dei figli della Chiesa.

Sia per Giovanni Paolo II che per il suo prefetto di dottrina cardinale Joseph Ratzinger, infatti, la formula "Chiesa peccatrice" era ritenuta pericolosamente equivoca, per la sua non risolta contraddizione con la professione di fede del Credo nella "Chiesa santa".

La prova di questo timore è nella nota su "La Chiesa e le colpe del passato" pubblicata il 7 marzo 2000 dalla commissione teologica internazionale sotto l'egida di Ratzinger, a commento e chiarificazione delle richieste di perdono fatte da Giovanni Paolo II in quell'anno giubilare.

In essa, c'è un passaggio dedicato proprio a spiegare perché la Chiesa "è in un certo senso anche peccatrice" e a suggerire come esprimere questo concetto con parole non equivoche.

È il paragrafo iniziale della terza sezione della nota, dedicata ai "fondamenti teologici" della richiesta di perdono:

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"È giusto che, mentre il secondo millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell'arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di controtestimonianza e di scandalo. La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori" (Tertio millennio adveniente, 33). Queste parole di Giovanni Paolo II sottolineano come la Chiesa sia toccata dal peccato dei suoi figli: santa, in quanto resa tale dal Padre mediante il sacrificio del Figlio e il dono dello Spirito, essa è in un certo senso anche peccatrice, in quanto assume realmente su di sé il peccato di coloro che essa stessa ha generato nel battesimo, analogamente a come il Cristo Gesù ha assunto il peccato del mondo (cfr. Romani 8, 3; 2 Corinzi 5, 21; Galati 3, 13; 1 Pietro 2, 24). Appartiene peraltro alla più profonda autocoscienza ecclesiale nel tempo il convincimento che la Chiesa non sia solo una comunità di eletti, ma comprenda nel suo seno giusti e peccatori del presente, come del passato, nell'unità del mistero che la costituisce. Nella grazia, infatti, come nella ferita del peccato, i battezzati di oggi sono vicini e solidali a quelli di ieri. Perciò si può dire che la Chiesa – una nel tempo e nello spazio in Cristo e nello Spirito – è veramente "santa e insieme sempre bisognosa di purificazione" (Lumen gentium, 8). Da questo paradosso – caratteristico del mistero ecclesiale – nasce l'interrogativo su come si concilino i due aspetti: da una parte, l'affermazione di fede della santità della Chiesa; dall'altra, il suo incessante bisogno di penitenza e di purificazione.

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Nel paragrafo ora citato si richiama anche il passaggio nel quale il Concilio Vaticano II parla dei peccati dei figli della Chiesa. È nel paragrafo 8 della costituzione "Lumen gentium". Dove di nuovo si evita di definire "peccatrice" la Chiesa in quanto tale:

"Mentre Cristo, 'santo, innocente, immacolato' (Ebrei 7, 26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Corinzi 5, 21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Ebrei 2, 17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento".

E allora perché il teologo Ratzinger, nella sua "Introduzione al cristianesimo" del 1968 che è ancora oggi il suo libro di teologia più letto in tutto il mondo, lamentò – come ricorda Komonchak – che il Concilio Vaticano II fu "troppo timido" nel parlare della "peccaminosità della Chiesa", cioè di questa "sensazione tanto profonda nella coscienza di noi tutti"?

Per rispondere a questa domanda non resta che rileggere ciò che Ratzinger scrisse in quel suo libro, nell'ultimo capitolo, dedicato proprio a spiegare perché la Chiesa è "santa" pur essendo fatta di peccatori.

In effetti, è proprio nel suo rapporto con il peccato e la "sporcizia" del mondo che più risplende la santità della Chiesa. Scritte più di quarant'anni fa, queste argomentazioni di Ratzinger sono di un'attualità stupefacente. Anche nel richiamare il senso e il limite delle accuse portate contro la Chiesa, allora come oggi.

Eccone i passaggi principali, ripresi dalle pagine 330-334 dell'ultima edizione italiana di "Introduzione al cristianesimo", Queriniana, Brescia, 2005. Passaggi nei quali, ancora una volta, non compare mai la formula "Chiesa peccatrice".

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"CREDO LA SANTA CHIESA CATTOLICA"

di Joseph Ratzinger



La santità della Chiesa sta in quel potere di santificazione che Dio esercita malgrado la peccaminosità umana. Ci imbattiamo qui nella caratteristica propria della Nuova Alleanza: in Cristo, Dio si è spontaneamente legato agli uomini, si è lasciato legare da loro. La Nuova Alleanza non poggia più sulla mutua osservanza di un patto, ma viene invece donata da Dio come grazia, che permane anche a dispetto dell'infedeltà dell'uomo. Dio continua, nonostante tutto, a essere buono con lui, non cessa di accoglierlo proprio in quanto peccatore, si volge verso di lui, lo santifica e lo ama.

In virtù del dono del Signore, mai ritrattato, la Chiesa continua a essere quella che egli ha santificato, in cui la santità del Signore si rende presente tra gli uomini. Ma è sempre realmente la santità del Signore che si fa qui presente, e sceglie anche e proprio le sporche mani degli uomini come contenitore della sua presenza. Questa è la figura paradossale della Chiesa, nella quale il divino si presenta così spesso in mani indegne. [...] Lo sconcertante intreccio di fedeltà di Dio e infedeltà dell'uomo, che caratterizza la struttura della Chiesa, è la drammatica figura della grazia. [...] Si potrebbe dire addirittura che la Chiesa, proprio nella sua paradossale struttura di santità e di miseria, sia la figura della grazia in questo mondo.

Invece, nel sogno umano di un mondo salvato, la santità viene immaginata come un non essere toccati dal peccato e dal male, un non mescolarsi con esso. [...] Nell'odierna critica della società e nelle azioni in cui essa sfocia, questo tratto spietato, che molto spesso contraddistingue gli ideali umani, è anche troppo evidente. Ciò che veniva percepito come scandaloso della santità di Cristo, già agli occhi dei suoi contemporanei, era proprio il fatto che ad essa mancava del tutto questo aspetto di condanna: il fatto che egli non faceva scendere il fuoco su chi era indegno, né permetteva agli zelanti di strappare dal campo la zizzania che vi vedevano crescere. Al contrario, la santità di Gesù si manifestava proprio come mescolarsi con i peccatori, che egli attirava a sé; un mescolarsi fina al punto di farsi egli stesso "peccato", accettando la maledizione della legge nel supplizio capitale: piena comunanza di destino con i perduti (cfr. 2 Corinzi 5, 21; Galati 3, 13). Egli ha preso su di sé il peccato, se ne è fatto carico, rivelando così che cosa sia la vera santità: non separazione ma unificazione; non giudizio ma amore redentivo.

Ebbene, la Chiesa non è forse semplicemente la prosecuzione di questo abbandonarsi di Dio alla miseria umana? Non è forse la continuazione della comunione di mensa di Gesù con i peccatori, del suo mescolarsi con la povertà del peccato, tanto da sembrare addirittura di affondare in esso? Nella santità della Chiesa, ben poco santa rispetto all'aspettativa umana di assoluta purezza, non si rivela forse la vera santità di Dio che è amore, amore però che non si tiene arroccato nel nobile distacco dell'intangibile purezza, ma si mescola con la sporcizia del mondo per così ripulirla? Tenendo presente questo, la santità della Chiesa può mai essere qualcosa di diverso dal portare gli uni i pesi degli altri, che ovviamente scaturisce per tutti dal fatto che tutti vengono sorretti da Cristo? [...]

In fondo, è sempre all'opera un malcelato orgoglio quando la critica alla Chiesa assume quel tono di aspra amarezza che oggi incomincia ormai a diventare un gergo usuale. A essa, purtroppo, si aggiunge poi sin troppo sovente un vuoto spirituale, in cui non si scorge assolutamente più lo specifico della Chiesa, sicché essa viene considerata soltanto come una formazione politica che persegue i suoi interessi, e se ne percepisce l'organizzazione come miseranda o brutale, quasi che la peculiarità della Chiesa non stia oltre l'organizzazione: nella consolazione della Parola di Dio e dei sacramenti che essa assicura nei giorni lieti e tristi. I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa sia realmente la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede, che diviene per loro fonte di vita. [...]

Ciò non vuol dire che bisogna lasciare sempre tutto così com'è e sopportarlo così com'è. Il sopportare può essere anche un processo altamente attivo, un lottare per far sì che la Chiesa sempre più diventi essa stessa capace di sorreggere e sopportare. La Chiesa, infatti, non vive che in noi, vive della lotta di chi non è santo per la santità, come del resto tale lotta vive, a sua volta, del dono di Dio, senza il quale non sarebbe nemmeno possibile. Ma la lotta risulterà fruttuosa, costruttiva, soltanto se sarà animata dallo spirito del sopportare, da un autentico e reale amore.

Eccoci così arrivati anche al criterio al quale deve sempre commisurarsi la lotta critica per una migliore santità: questa lotta non solo non è in contrasto con il sopportare, ma è da esso esigita. Questo criterio è il costruire. Una critica amara, capace solo di distruggere, si condanna da sé. Una porta violentemente sbattuta può sì essere un segnale che scuote coloro che sono dentro, ma l'illusione che si possa costruire più nell'isolamento che attraverso la collaborazione è appunto un'illusione, esattamente come l'idea di una Chiesa "dei santi" invece di una Chiesa "santa", la quale è santa perché il Signore elargisce in essa il dono della santità, senza alcun merito da parte nostra.

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Il servizio di www.chiesa che ha dato origine alla disputa:

> Chiesa peccatrice? Una leggenda da sfatare (26.4.2010)

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Il testo integrale della nota della commissione teologica internazionale del 7 marzo 2000:

> Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato

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Nell'illustrazione: Rembrandt van Rijn, Il ritorno del figliol prodigo, 1666, San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage.

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6.5.2010