sabato 30 ottobre 2010

Solo l'amore e il dono sono fonte di gioia







XXXI DOMENICA DEL TEMPO COMUNE- 31 ottobre
Anno C

 Scrutati dagli uomini, contemplati da Dio

Su una tela bianca il nostro sguardo nota subito il puntino nero o lo spruzzo di fango. Per uno strano automatismo i nostri occhi sono immediatamente richiamati dal particolare che deturpa.
Accade: un difetto, una manchevolezza, una menomazione divengono spunti per soprannomi, allusioni e battute, a volte innocenti, altre sarcastiche.
Lo sguardo dell’uomo è crudele: si sofferma soprattutto sulle macchie, sui limiti, sugli aspetti deteriori.
È così anche lo sguardo di Dio? Se sì, sono guai per tutti perché “i cieli non sono puri ai suoi occhi; quanto meno un essere abominevole e corrotto, l’uomo che beve l’iniquità come acqua” (Gb 15,15-16).
Dobbiamo avere paura dello sguardo di Dio?
Dio ti vede! Ricordiamo questo richiamo usato spesso dagli educatori e dai catechisti del passato come deterrente per prevenire comportamenti errati.
Quel triangolo con al centro l’occhio di Dio che ci scrutava incuteva riverenza e timore.
Il pensiero che forse ci ha sfiorato più volte è che avremmo fatto volentieri a meno di questo Dio “poliziotto”.
È corretto – anche se per ottenere comportamenti buoni – presentare Dio così?
Il suo sguardo è quello dell’investigatore che cerca i motivi per condannare o è l’abbraccio tenero del Padre che comprende, scusa, coglie sempre e solo ciò che è bello e amabile nei suoi figli?
La risposta a queste domande ci riguarda.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Quando venivo formato nel grembo di mia madre, i tuoi occhi mi hanno contemplato, o Signore”.


Prima Lettura (Sap 11,22-12,2)

Signore, 22 tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia,
 come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
 23 Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
 non guardi ai peccati degli uomini,
 in vista del pentimento.
 24 Poiché tu ami tutte le cose esistenti
 e nulla disprezzi di quanto hai creato;
 se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
 25 Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
 O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?
 26 Tu risparmi tutte le cose,
 perché tutte son tue, Signore, amante della vita,
1 poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
12,2 Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli
 e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,
 perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore.

La preghiera del mattino d’ogni pio israelita comincia con le parole: “Ricorda Israele!...”.
Israele è un popolo che non dimentica. Ricorda ciò che i suoi padri hanno sofferto in Egitto: sono stati percossi, umiliati, sottoposti a duri lavori; poi il Signore li ha liberati colpendo i loro oppressori con duri castighi.
Quest’articolo fondamentale del Credo israelita sembrerebbe un invito a detestare per sempre gli Egiziani.
Invece, sia nella Bibbia sia nella tradizione giudaica gli egiziani non sono mai esecrati e maledetti.
Non tutti hanno sempre condiviso questi sentimenti nobili. Molti si sono chiesti invece per quale ragione il Signore non li abbia annientati. Perché non li ha colpiti con piaghe ancora più dure? Perché tanta moderazione nei loro confronti?
La lettura riferisce la risposta che un pio israelita, vissuto ad Alessandria d’Egitto pochi anni prima di Cristo, dà a questo interrogativo. A coloro che considerano eccessiva, ingiustificata la pazienza del Signore egli cerca di far capire le ragioni del suo comportamento.

Ricorda anzitutto che egli ha occhi diversi dai nostri.
Contemplando il cielo stellato e gli astri del firmamento, l’uomo rimane stupito di fronte all’immensità del creato. Dio invece vede “tutto il mondo come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra” (Sap 11,21-22).
Egli è paziente perché è forte, perché è grande e può tutto (v.23a).
I deboli aggrediscono con violenza i loro avversari perché hanno paura. Chi è forte non si preoccupa, tollera tutto, non si sente minacciato.
Dio ha uno sguardo indulgente e misericordioso perché nulla lo spaventa.
Lascia che gli uomini agiscano con libertà, mantiene sempre la calma, non si spaventa se li vede commettere errori perché è certo che il gioco non gli sfuggirà di mano.
L’intolleranza nei confronti di chi commette peccati, l’aggressione contro chi pensa o si comporta in modo diverso, nascono dall’insicurezza, dalla paura, dalla sensazione che le forze del male possano divenire incontrollabili.

La seconda ragione della moderazione di Dio nei confronti degli Egiziani: egli non considera, non vede i peccati degli uomini, in vista del pentimento (v.23b).
Se castiga non lo fa per distruggere il peccatore, ma per ricuperarlo, per condurlo al pentimento.
Egli non conosce la vendetta, la rappresaglia, la punizione, ma solo l’amore e la salvezza.
Non desidera la morte del peccatore, ma che desista dalla sua cattiva condotta e viva (Ez 18,23).
Un profeta anonimo, vissuto un centinaio d’anni prima, ha annunciato un evento inaudito: la conversione degli assiri e degli egiziani destinati a formare, insieme con Israele, un unico popolo. Il Signore degli eserciti – dice – li benedirà così: “Benedetto sia l’egiziano mio popolo, l’assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19,25).
L’autore del libro della Sapienza ha assimilato questa mentalità universalistica che il Signore cercava pazientemente di inculcare nel suo popolo Israele.

La terza ragione: Il Signore osserva con amore tutto il creato perché tutto ciò che esiste è opera sua.
Egli non disprezza nulla di quanto ha fatto. Non odia nessuno, ama tutti: buoni e cattivi, perché tutti sono sue creature e tutti, per il fatto stesso di esistere, portano in sé qualcosa di buono.
Egli è il Signore “amante della vita” (vv.24-26). I suoi occhi non sono mai accecati dal desiderio di vendetta, come avviene spesso per quelli dell’uomo.
Raccontavano i rabbini che, dopo il passaggio del Mar Rosso, gli angeli avrebbero voluto unire le loro voci a quelle degli israeliti che inneggiavano perché il faraone e la sua armata erano stati sommersi dalle acque. Ma il Signore intervenne e disse: “Come potete cantare mentre i miei figli stanno morendo? I flutti stanno inghiottendo le mie creature e voi volete intonare un cantico?”.

La lettura si chiude con l’interpretazione teologica dei castighi che Dio ha inflitto agli Egiziani: non si tratta di castighi, ma di medicine (12,1‑2). Come si fa con le medicine, ha impiegato le piaghe in piccole dosi. Non voleva distruggere, ma ammonire i colpevoli, farli rinsavire, far loro comprendere che erano usciti dal retto cammino, spingerli a rinnegare le loro malvagità e condurli alla fede.


Seconda Lettura (2 Ts 1,11-2,2)

Fratelli, 11 preghiamo di continuo per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene e l’opera della vostra fede; 12 perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
2,1 Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, 2 di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente.

I cristiani di Tessalonica stanno attraversando un momento piuttosto difficile: nella loro comunità si sono infiltrati alcuni visionari che annunciano come imminente la fine del mondo.
Per diffondere più facilmente le loro insane farneticazioni, questi predicatori affermano di riferire il pensiero di Paolo e, come prova, mostrano alcune lettere che giurano di avere ricevuto da lui (2,2).
L’Apostolo raccomanda ai cristiani di Tessalonica di stare attenti, di non farsi influenzare da questi fanatici che, invece di annunciare il Vangelo, diffondono “visioni” e “ispirazioni personali”.
I momenti difficili costituiscono il terreno ideale in cui trovano credito gli allucinati che predicano le loro fantasticherie. Si tratta di gente che vuole sfuggire alle difficoltà della vita.
Paolo prega Dio affinché i tessalonicesi giungano a capire dove sta la verità e chiede che il Signore sia glorificato non mediante chiacchiere di gente illusa, ma dalla testimonianza d’amore concreto di cui danno prova i membri della comunità.


Vangelo (Lc 19,1-10)

1 Entrato in Gerico, attraversava la città. 2 Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. 5 Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. 6 In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”. 8 Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. 9 Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; 10 il Figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.

Al tempo di Gesù, la gente del popolo prendeva un solo pasto al giorno, la sera: è comprensibile che gli israeliti abbiano immaginato il regno di Dio come una cena eterna dove tutti finalmente avrebbero mangiato a sazietà. La profezia cui facevano riferimento era stata proferita da Isaia: “Il Signore preparerà un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6).
Siccome poi i banchetti di questo mondo erano un’immagine del mondo futuro, riunire attorno alla stessa mensa giusti e peccatori era ritenuta una bestemmia contro la santità di Dio che li voleva separati. L’esclusione doveva costituire per i malvagi un perentorio richiamo alla conversione.
Questa convinzione era condivisa da tutti in Israele, ciò spiega la sorpresa suscitata dal comportamento di Gesù.

Il brano inizia presentando il Maestro che entra in Gerico e attraversa la città accompagnato dalla folla e dai discepoli (v.1).
All’entrata della città ha appena curato un mendicante cieco che lo supplicava: “Signore, che io riabbia la vista” (Lc 18,35-43). L’accostamento di questi due fatti non è casuale. La guarigione del cieco e il “recupero” di Zaccheo si richiamano e si illuminano a vicenda.
Sia il cieco che Zaccheo desiderano vedere e Gesù che compie per loro un prodigio, capovolge la loro condizione ritenuta irrecuperabile.
In ambedue i racconti si parla di una folla che segue il Maestro, ma che non lo comprende, lo critica, si oppone alle sue scelte e alla sua opera salvifica.
Ambedue i racconti infine si chiudono ricordando gli effetti sconvolgenti – la visione nuova del mondo e della vita – prodotti dall’incontro con la luce donata da Gesù.
Nel brano di oggi chi cerca di vedere è un pubblicano ricco che si chiama Zaccheo.
Per una strana beffa del destino il nome che porta significa il puro, il giusto. I pubblicani sono considerati da tutti – e con ragione – dei ladri e Zaccheo non solo è un pubblicano, ma è un capo dei pubblicani. Luca inventa addirittura un vocabolo per definirlo meglio: lo chiama arcipubblicano – un termine che in greco non esiste – come dire arciladro. Altro che puro!
Oltre al nome, l’evangelista nota un altro particolare: era piccolo di statura. Non si tratta di una banale informazione sul fisico di Zaccheo. È l’immagine di come egli appare agli occhi di tutti: uno sgorbio insignificante, un fastidioso puntino nero in una società immacolata, uno degli esclusi dal banchetto del regno di Dio.
Zaccheo è ben cosciente della sua condizione, ma l’esclusione dal consesso dei giusti non lo amareggia più di tanto.
È convinto che l’essere accomunato a persone che osservano scrupolosamente la legge, ma che sono ipocrite, supponenti, compiaciute della loro giustizia, non lo avvantaggerebbe di molto.
Da un lato vorrebbe, sì, prendere le distanze dal gruppo dei peccatori fra i quali sa di essere giustamente catalogato, ma quale sarebbe l’alternativa? L’adesione alla setta dei farisei? Non troverebbe la risposta ai suoi tormenti, alle sue inquietudini.
Ha avuto tutto dalla vita, eppure è profondamente insoddisfatto.
Ha partecipato a tanti banchetti, ma è ancora alla ricerca del cibo che sazia. Il bisogno che prova è così impellente, così incoercibile che per soddisfarlo è disposto a sfidare i lazzi divertiti di una folla che non l’ha in simpatia.
Vuole vedere Gesù perché – pensa – è forse lui l’unico in grado di capire le sue angosce e il suo dramma interiore e, per poterlo vedere sale su un sicomoro (v.3).
Stupisce il fatto che si sia arrampicato su un sicomoro. Perché non è salito sul terrazzo di una delle tante case che si affacciano sulla via principale? Forse perché nessuno ha accettato di ospitarlo; non solo non gli è stata aperta alcuna porta, ma non gli è stato nemmeno permesso di calpestare i gradini della scala che, dall’esterno, sale fin sul terrazzo.
Eccolo Zaccheo: l’immondo, il peccatore che tutti rifiutano.
Cerca disperatamente Gesù perché ha sentito parlare di lui. Conosce i giudizi pesanti che ha pronunciato sulla ricchezza, ma sa anche che è “l’amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34). Gli è stato riferito che egli “non è venuto a chiamare giusti, ma peccatori a convertirsi” (Lc 5,32), per questo vuole sapere “chi è”. Anche Erode si è chiesto: “chi è costui?” e voleva vederlo (Lc 9,9), ma con una disposizione d’animo completamente diversa: lo cercava in modo distaccato, solo per avere un chiarimento riguardo alla sua identità. Zaccheo invece è pronto a lasciarsi coinvolgere, aspira a un cambiamento radicale della sua esistenza.

In questa ricerca affannosa interviene la folla di coloro che accompagnano Gesù. Come è accaduto con il cieco di Gerico (Lc 18,39), invece di favorire l’incontro con il Maestro si frappone, diviene un impedimento. Non capisce che sono proprio “i piccoli”, “gli impuri”, gli emarginati che Gesù sta cercando.
La ragione di questo atteggiamento è un difetto di vista.
In Zaccheo anche coloro che seguono Gesù non scorgono che il pubblicano, il peccatore, lo strozzino, null’altro; non riescono a scoprire in lui nulla di buono e di positivo. Lo rifiutano, ma, non potendolo eliminare fisicamente, lo isolano, lo disprezzano, non gli rivolgono nemmeno la parola e questo è il loro modo di ucciderlo. Il loro atteggiamento è discriminatorio come quello dei farisei.
La vista di queste persone “pure” è tanto difettosa che vede il male ovunque, anche dove non c’è: in Gesù.
Criticano e condannano anche lui perché – pensano – andando “ad alloggiare da un peccatore”, è divenuto impuro (v.7).

Osserviamo ora come sono invece limpidi e puri gli occhi di Gesù.
Quando giunge sul luogo, egli alza lo sguardo e dice: “Zaccheo scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (v.5). Nessuno della folla ha pronunciato questo nome perché Zaccheo è “l’impuro”. Solo Gesù lo chiama: “Zaccheo-puro!”. Per lui egli è “puro”, è anch’egli un figlio di Abramo! (v.9).
Dall’alto egli cercava di vedere Gesù, ma ora è Gesù che, dal basso, lo vede per primo. Di fronte al peccatore Gesù alza sempre lo sguardo, perché la sua posizione è quella del servo che ha umiliato se stesso “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-8). Anche quando rimane solo con l’adultera Gesù alza il capo verso di lei (Gv 8,10), la guarda dal basso perché chi ama non si atteggia mai a giudice, si abbassa, sceglie l’ultimo posto, si inchina davanti alla persona amata per lavarle i piedi. 
A Gerico Gesù si trova in mezzo ai “giusti” che lo seguono, che ascoltano la sua parola, che lo applaudono. Eppure, per istinto, non appena egli scorge un “piccolo”, distoglie immediatamente lo sguardo dal gruppo dei “fedeli” e dirige la sua attenzione al peccatore.
Non si preoccupa delle “convenienze sociali” né delle “sante disposizioni” impartite dai capi religiosi. Sente un bisogno incoercibile di stare con colui che è isolato e disprezzato. “Io devo – dice – fermarmi a casa tua”. Devo, è per me una necessità interiore: se questa sera non sto con te, non riuscirò a prendere sonno.
Cos’hanno ottenuto coloro che guardavano Zaccheo dall’alto in basso? Nulla. Con le loro condanne senza appello non hanno fatto altro che incattivirlo.
Gli sguardi severi e truci dei censori, dei giudici, degli accusatori impediscono soltanto di incontrare l’unico sguardo che salva, quello tenero di Cristo!

Il racconto si conclude con una cena.
La corsa in avanti di Zaccheo (v.4) e i verbi di movimento (entrare, attraversare, correre, salire, scendere in fretta) che caratterizzano la prima parte del racconto (vv.1-7) hanno come meta la casa del peccatore dove Gesù è diretto e “prende dimora” (v.7).
Con la sua venuta ha inizio la festa e il banchetto del regno di Dio annunciato da Isaia.
Osserviamo chi è dentro e chi è fuori, chi fa festa e chi è triste.
Dentro dovrebbero esserci i “giusti”, invece essi sono tutti fuori a mormorare, a rodersi dalla rabbia perché non concordano con il tipo di invitati con cui Gesù ha voluto che fosse riempita la sala.
Dentro ci sono gli “impuri” per i quali Gesù è venuto. C’è Zaccheo, il capo dei peccatori, colui per il quale con c’era speranza di salvezza perché pubblicano e ricco (v.2). Gesù stesso ha appena detto che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli” (Lc 18,25). Eppure, ciò che è impossibile per gli uomini è divenuto possibile per l’intervento di Dio (Lc 18,27).
La salvezza non è avvenuta in modo automatico: è stata offerta, sì, gratuitamente, ma Zaccheo ha dovuto accoglierla nella sua casa. Solo così ha finalmente scoperto quella gioia vera che andava disperatamente cercando.
A questo punto ecco che l’amore genera altro amore: Zaccheo, amato gratuitamente, si rende conto che esistono altre persone che hanno bisogno di amore. Si ricorda dei poveri. “Signore, – dice a Gesù – io dò la metà dei miei beni ai poveri e, se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (v.8).
A differenza di quello che ha fatto con il notabile ricco (Lc 18,18-23), a Zaccheo Gesù non ha chiesto di “vendere tutto e di distribuire i suoi beni ai poveri”. Non gli ha rivolto alcun rimprovero, non ha posto alcuna condizione. Gli ha chiesto solo di essere accolto.
Zaccheo non è stato ammesso al banchetto del Regno perché era buono, è diventato buono dopo, quando si è trovato coinvolto nella festa.
Si è convertito quando ha scoperto che Dio gli voleva bene malgrado fosse un impuro, un povero, un piccolo, anzi, proprio perché era piccolo.
La scoperta di questo amore gratuito è stata la luce che ha dissipato le tenebre che avvolgevano la sua vita e che gli ha fatto capire che solo l’amore e il dono sono fonte di gioia.
Testo preso dal libro
del biblista
Fernando Armellini-Ed. Messaggero, Padova, pp. 578-587

venerdì 22 ottobre 2010

Omelia di domenica 24 ottobre 2010


Omelia del giorno 24 Ottobre 2010
XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Ottobre è il mese che la Chiesa dedica alla missione


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 18,9-14.
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato

È necessario continuare ad evangelizzare, ripetendo che ogni uomo, nessuno escluso, non è 'totalmente uomo', creatura di Dio, se non è illuminato e sostenuto dalla stupenda verità che Gesù ha condiviso con i Suoi, cioè la Buona Novella del Vangelo: siamo tutti amati dal Padre e Lui attende il nostro amore.
Una verità che non è solo conoscenza, ma deve diventare esperienza di vita. È il Volto di Dio che vuole diventare volto dell'uomo, o, ancora meglio, la vita che diviene Sua trasparenza. Ma tanti - anche tra di noi, che ci chiamiamo cristiani, superficialmente, troppo superficialmente -non sanno afferrare l'urgenza "di questo Annuncio, dell'evangelizzazione per l'umanità e... anche per la nostra Italia.
In questo mese è doveroso pensare ai tanti nostri missionari che senza badare ai sacrifici, condividendo la povertà di tanti, mettendo in conto il pericolo di sacrificare la vita, portano l'amore di Dio in terre lontane e spesso pericolose.
Ma proprio il ricordarli ci deve spingere ad altrettanta generosità, iniziando la missione evangelizzatrice nelle nostre famiglie, nelle comunità, ovunque.... senza false paure! Scrive il Santo Padre per questo mese:
"Una fede adulta, capace di affidarsi totalmente alla Parola di Dio e allo studio delle verità della fede, è condizione per poter promuovere un umanesimo nuovo, fondato sul Vangelo di Gesù. Vogliamo vedere Gesù' è la richiesta che alcuni greci...presentano all'apostolo Filippo. Essa risuona anche nel nostro cuore in questo mese di ottobre, che ci ricorda come l'impegno e il compito dell'annuncio evangelico spetti a tutta la Chiesa, missionaria per sua natura e ci invita a farci promotori della novità della vita, fatta di relazioni autentiche, in comunità fondate sul Vangelo. In una società multietnica che sempre più presenta e sperimenta forme di solitudine e di indifferenza preoccupanti i cristiani devono imparare ad offrire segni di speranza e divenire fratelli universali".
La Parola di Dio di questa domenica indica la via maestra per diventare davvero portatori della Gioia del Vangelo, facendone partecipi i nostri fratelli - vera essenza della missione – e cioè
l'umiltà: "CHIUNQUE SI ESALTA SARÀ UMILIATO E CHI SI UMILIA SARÀ ESALTATO"
La Parola di Gesù pare diretta al nostro tempo in cui si assiste alla follia dell'uomo che si esalta.
facile notare come nei discorsi il pronome che più si evidenzia sia 'io', con la voglia di mettersi in mostra, di 'contare', senza più la capacità di 'guardarsi dentro' e riconoscere il 'poco' che siamo. Sembra ripetersi all'infinito, nella storia dell'uomo, la tentazione che in origine portò i nostri progenitori a disobbedire a Dio, per... diventare come Lui.
È da quel momento che è iniziata la storia nefanda dell'uomo, che ha perso la misura della propria condizione di semplice creatura, facendo di tutto per 'sentirsi onnipotente'.... senza più pensare che è ben altra la 'vera immagine divina', che deve coltivare dentro di sé e davanti agli occhi di Dio. Così oggi Dio ci parla attraverso il Libro del Siracide:
"Il Signore è giudice e per Lui non c'è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano, né della vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finchè non sia arrivata; non desiste finchè l'Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l'equità". (Sir. 35, 15b-17.20-22a)
E se c'è qualcosa che provoca naturalmente fastidio è proprio quel darsi delle arie, o superbia, che incontriamo sulle nostre strade. Doveva dare 'fastidio' anche a Gesù, sempre tanto umile in tutto –ed era Figlio di Dio! – avere a che fare con tanti che, come oggi, cercavano di esibire ciò che non è certamente la vera grandezza dell'uomo, l'esteriorità.
Più una persona è davvero interiormente 'grande' e più tace o cerca di nascondersi, come a non farsi notare. Chi è davvero umile non si dà arie, ma anzi ha la netta percezione di essere l'ultimo.
Quanta gente umile, che non ha 'mostrato' la sua importanza o posizione, ho avuto modo di conoscere ed ammirare. La loro modestia, questo quasi sentirsi 'inferiori' a tutti li corazzava di un grande silenzio, che però illuminava, senza che loro stessi se ne accorgessero.
Gesù, oggi, evidenzia con chiarezza i due atteggiamenti dell'umile e del superbo. Così parla:
"In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 'Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: 'O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo'.
Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: 'O Dio, abbi pietà di me peccatore'.
Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato". (Lc. 18, 9-14)
Tutto nel fariseo indica una sorta di colloquio alla pari con Dio: la posizione eretta del corpo, e soprattutto la preghiera snocciolata tra sé e sé, come incensasse... se stesso! Quest'uomo non solo non sta pregando Dio, ma potremmo dire che... non sta proprio pregando!!!
Semplicemente sta esaltando se stesso a se stesso, s'inchina all'idolo della sua presunta giustizia: il suo io. Si autoconvince della propria 'superiorità' e, come avvallo di tutto, considera il 'suo' digiunare e fare l'elemosina. Un quadro che sa di molto narcisismo.
Ben diverso è l'atteggiamento del pubblicano: il suo quasi non osare di alzare gli occhi al cielo e le scarne parole, in cui vi è tutta la consapevolezza di essere peccatore, quindi... nessuno! Ma è proprio questa preghiera che commuove il Cuore di Dio.
Gesù davvero dipinge un'immagine della differenza tra colui che è pieno di se stesso, incapace di `perdersi', guardando la santità di Dio, e di chi, avendo coscienza della sua realtà di peccatore agli occhi di Dio, 'si abbandona' a Lui.
Diceva il nostro caro Paolo VI:
"Non abbiamo la sapienza - e si chiama umiltà - di chiamarci creature. Perciò manchiamo di senso religioso e morale, di timor di Dio. Manchiamo di capacità e spesso di volontà di riconoscere la trascendenza divina che darebbe a tutto il nostro pensiero la visione della proporzione, dei valori, la voglia di pregar e sperare, la gioia vera di vivere.
Noi parliamo di noi stessi come fossimo padroni della nostra vita e non soltanto responsabili del suo impegno. Ci chiudiamo nell'ambito della nostra esperienza domestica, sociale, senza avvertire che tutto il nostro essere, il nostro vivere ha e deve avere un'apertura verso il divino. E così il senso che abbiamo di noi stessi ci appaga, anche se è privo dei rapporti con l'universo, con Dio.
Siamo egoisti e perciò orgogliosi e presuntuosi. Se avessimo il senso delle proporzioni vere e totali del nostro essere, avremmo maggiore entusiasmo di ciò che siamo realmente, e saremmo meravigliati di tutto dovere a Dio, Datore di ogni bene.
La piccolezza nostra e la grandezza di Dio formerebbero i poli del nostro pensiero e, sospesi tra il nulla della nostra origine e il tutto del nostro fine, comprenderemmo qualche cosa del grande e drammatico poema della nostra vita". (15-08-1957)
Meditando sulla grande virtù dell'umiltà, sfilano nei ricordi della mia vita tanti esempi di 'grandi santi', la cui grandezza appariva proprio dalla loro semplicità.
Voglio solo ricordare l'incontro con Madre Teresa di Calcutta.
Un giorno, un giovane, ammirato dalla sua 'notorietà', le chiese press'a poco così: 'Madre, cosa si sente nel vedersi ammirata per la sua grandezza spirituale?'.
`Mi sento quello che veramente sono davanti a Dio, un nulla di fronte a Lui. Quello che opero non sono mie opere, ma Sue. Io sono solo la matita tra le mani di Dio, di cui Lui si serve per compiere grandi cose'.
Era come risentire il cantico di Maria SS.ma, nella sua visita a S. Elisabetta, dopo l'annuncio dell'Angelo, chiamata a essere madre del Figlio dì Dio: 'Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, perché ha guardato all'umiltà della Sua serva, Santo è il Suo Nome.'
Cosi pregava S. Francesco di Sales, per chiedere l'umiltà:
"Ricordati, dolcissima Vergine, che tu sei mia Madre e io tuo figlio,
che tu sei potente e che io sono un misero uomo.
Ti supplico, dolcissima Madre, di assistermi e di difendermi in tutto ciò che faccio. O Vergine bella,,davanti al tuo incanto, Dio non resiste
Perché il tuo amatissimo Figlio ti ha dato ogni potere in cielo e in terra.
Non dirmi che non devi, perché sei la Madre comune di tutti gli uomini fragili e sei la mia in modo singolare.
Vergine dolcissima, perché tu sei mia Madre e sei potente,
come potrei scusarti se tu non mi offrissi il tuo aiuto e la tua tenerezza?
Per l'onore e per la gloria del tuo Figlio divino
accettami come tuo figlio senza considerare i miei peccati e le mie miserie. Libera la mia anima e il mio corpo da ogni male:
donami tutte le virtù, soprattutto l'umiltà.
Arricchiscimi di tutte le virtù e di tutte le grazie,
nel nome del tuo Diletto Figlio, Gesù Cristo. Amen."
Antonio Riboldi – Vescovo –

venerdì 15 ottobre 2010

Pregate, pregate, pregate

Se non si è un' anima di orazione non piaci a Dio e la tua vita spirituale nn porta frutto, per arrivare alla luce si deve pregare perchè la preghiera è più possente della ragione.
La preghiera è onnipotente e ...ottiene tutto. Gesù ci dice: "chiedete e riceverete". Ad ogni modo non bisogna dimenticare che per essere sentiti bisogna chiedere nel modo giusto. Sono molti che chiedono, ma pochi che ricevono, perché non chiedono come dovrebbero: con umiltà, con fede, con perseveranza. Dio si rifiuta di ascoltare i superbi.
Ave Maria! 
Maria Maistrini

Omelia del giorno 17 ottobre 2010
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 18,1-8. 
Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 
«C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 
In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. 
Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, 
poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». 
E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 
E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? 
Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». 
 
Pregate sempre, senza stancarvi!
Quello che ci offre la Chiesa, oggi, da meditare, per dare 'senso' alla nostra vita, è proprio la preghiera. E ci offre subito un esempio di concreta preghiera nella lettura dell'Esodo: "In quei giorni Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: `Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio. Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l'altro dall'altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo" (Es. 17, 8-13).
Sappiamo tutti che la preghiera è davvero il modo di dialogare addirittura con Dio. Incredibile solo a pensarci! ...noi che conosciamo per esperienza quanto sia difficile trovare 'un potente' che ci ascolti. Non hanno mai tempo o, forse, siamo poca cosa aì loro occhi... contiamo niente. Non così per Dio, l'Onnipotente!
La preghiera è, a volte, contemplare e ascoltare Dio, a volte aprire il nostro cuore a Lui, a volte depositare nel Suo Cuore chi o ciò che ci sta davvero a cuore.... è, insomma, un 'vivere insieme' la nostra esperienza di vita.
Per pregare non intendo certamente un 'ripetere' formule o parole, senza la partecipazione della fede e dell'amore. Quando il nostro è solo un 'parlare a Dio' senza confidenza e amore, sentendoci davvero alla Sua Presenza, non possiamo sicuramente ritenere di pregare, nel senso più vero e profondo del termine. Una vera preghiera è un 'modo di essere', di 'stare davanti a Dio', come Mosè: richiede anzitutto silenzio interiore, che faccia strada alla parola e ancor più all'ascolto.
Lo sanno bene le persone di fede quanto sia importante la preghiera, per vivere alla Presenza di Dio in continuità... come se non ci fosse stacco tra la vita concreta e i 'momenti' propri della preghiera, tanto che tutto diventa preghiera, anche il lavoro.
Così oggi Gesù parla a noi:
"Gesù disse ai discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarci. 'C'era in una città un giudice che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova che andava da lui e gli diceva: 'Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo, egli non volle, ma poi disse tra sé: 'Anche se non temo Dio e non ho rispetto per nessuno, poiché questa vedova è così molesta, le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: 'Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano ogni giorno verso di Lui e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?" (Lc. 19, 1-8).
Il Signore ci offre un'indicazione di vita: 'Pregate sempre, senza stancarvi!'
un richiamo, che ci fa meditare, se diamo uno sguardo a come oggi si vive, per lo più con poca o nessuna fede e rapporto con il Padre: 'Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?'.
Dobbiamo interrogarci: Preghiamo? Quanto preghiamo? Quale contenuto ha la nostra preghiera? Mi ricordo che un giorno, incontrando quel grande vescovo di Torino, che era il Cardinal Ballestrero, mi chiese a bruciapelo: 'Quanto tempo date alla preghiera?'.
`Abbastanza' risposi. 'Un vescovo, se vuole davvero fare bene la sua missione deve dare alla preghiera almeno tre ore al giorno'. Può sembrare un tempo lungo, ma, quando si esperimenta il valore dello stare davanti a Dio e dialogare o lodare o intercedere o, semplicemente, 'stare', il tempo scorre veloce.
"Naturalmente non si può giungere a Dio fisicamente, ma rivolgendogli le forze dell'anima: la mente, la volontà e le percezioni del cuore, mediante la purificazione della coscienza e la pratica dell'incessante preghiera, senza la quale non esiste nessun altro mezzo e nessun'altra possibilità reale per entrare nella regione della luce di Dio" (Schimonaco Ilarion).
Chi ama non conta mai il tempo che ha per stare insieme alla persona cara e trasmettere il suo cuore. Non pesano, non danno fastidio le ore che si trascorrono insieme, anzi. Quando ci si lascia, pare sia trascorso un minuto e si prova con la gioia anche un poco di tristezza e il desiderio di incontrarsi di nuovo presto.
È quello che vivono non solo i santi, ma quanti hanno imparato a pregare e sanno contemplare o parlare con Dio.
Madre Teresa di Calcutta, per esempio, nonostante la grande fatica che affrontava ogni giorno nel recuperare i moribondi nelle vie di Calcutta, per portarli a casa, pulirli e curarli, dava ampio spazio alla preghiera e chiese alle consorelle di dedicare ogni giorno almeno un'ora di adorazione a Gesù Eucaristia, perché solo così... la fedeltà agli ultimi era assicurata!
Pregare è davvero l'arte di chi 'vede', 'incontra' Dio nella vita, non si stancherebbe mai dal trovare felicità, forza di sperare di fronte ad ogni ostacolo, nel fissare gli occhi sul Suo Volto, come facciamo noi quando vogliamo bene, ma veramente bene a qualcuno.
Tante volte mi chiedo quale potrebbe essere il senso della vita quotidiana senza preghiera, senza la Presenza del Padre. Penso sia l'infelicità o l'amarezza di troppi.
Dobbiamo, ripeto, imparare non tanto e solo le formule delle preghiere, ma vivere la parola con parole nostre, con le nostre emozioni, pensieri, preoccupazioni: lasciare che il nostro cuore parli a Dio. Così ci interpella Paolo VI:
"Si prega oggi? Si avverte quale significato abbia l'orazione nella nostra vita? Se ne sente il dovere? Il bisogno? La consolazione? La funzione nel quadro del pensiero e dell'azione? Quali sono i sentimenti spontanei che accompagnano i nostri momenti di preghiera? La fretta? La noia? La fiducia? L'interiorità? L'energia morale? Ovvero anche il senso del mistero? Luci e tenebre? L'amore finalmente?
Dovremmo innanzitutto tentare, ciascuno per conto nostro, di fare questa esplorazione, e di coniare per uso personale una definizione della preghiera. E potremmo proporcene una molto elementare: è un dialogo, una conversazione con Dio.
E subito dipende dal senso di presenza di Dio che noi riusciamo a rappresentare al nostro spirito, sia per un istinto naturale, sia per un atto di fede. Il nostro è un atteggiamento come quello di un cieco che non vede ma sa di essere davanti a un Essere reale, personale, infinito, vivo, che osserva, ascolta, ama l'orante. Allora la conversazione nasce. Un Altro è qui e quest'altro è Dio. Se mancasse questa avvertenza che Dio è qui, la nostra preghiera si effonderebbe in un monologo. Ma non deve essere così per noi, che sappiamo che la preghiera è l'incontro con Dio, una comunicazione possibile ed autentica". (14.02.1973)
Restano infine da meditare le dure e dolorose parole di Gesù: 'Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?:
Se guardiamo all'ondata di materialismo oggi trionfante, ci viene da pensare che forse ne troverebbe poca, di fede. Ed è naturale, logico: quando tutta la nostra 'fede' è riposta nelle cose senza vita, nei beni materiali, è molto difficile lasciare 'spazio' a Dio. Che non sia così per noi! Vorrei saper pregare con le parole di Charles De Foucauld:
"Padre mio, io mi abbandono a Te, fa' di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa Tu faccia di me, io Ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto, perché la Tua volontà sia fatta in me e in tutte le creature. Non desidero altro mio Dio.
Ed è per me una necessità d'amore, donarmi e rimettermi nelle Tue mani, senza misura e con infinita fiducia, perché Tu sei mio Padre".
Antonio Riboldi – Vescovo –

sabato 9 ottobre 2010

I dieci lebbrosi

Il cammino dell'anima
Wilma Chasseur  
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/10/2010)
Vangelo: Lc 17,11-19  

 Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. 
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, 
alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». 
Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati. 
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; 
e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. 
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? 
Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: 
«Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!
». 
 
Clicca per vedere le Letture (Vangelo: Lc 17,11-19)

E' ancora questione di fede! L'altra volta ci eravamo chiesti: a che serve la fede? Il Vangelo di oggi, ci dà la risposta: la fede serve all'anima. Per far che? Per camminare! Vi sembra strano?

- 1) L'anima cammina?

E invece è proprio ciò che è successo ai dieci lebbrosi; quanta strada ha fatto la loro anima grazie alla fede: ha ottenuto addirittura la guarigione del corpo! E quanta strada farebbe la nostra anima se
avessimo più fede; giungerebbe fino al cuore di Dio. E varcherebbe la soglia dell'impossibile.
La lebbra, come sappiamo tutti, era quella terribile malattia che isolava completamente la persona che ne era affetta; questa veniva considerata impura e relegata fuori dalle mura della città, col divieto di avvicinare altre persone.

- 2) Regole infrante, guarigione ottenuta!

Ebbene, i dieci lebbrosi infrangono tutte queste regole: si mettono in cammino, entrano nella cittadina, si avvicinano a Gesù, di cui avevano sentito parlare e lo implorano a gran voce: "Gesù Maestro, abbi pietà di noi". E credono veramente che Lui può guarirli. Quando svanisce la speranza nei rimedi umani, nasce la fede nel miracolo, o perlomeno, ci si rivolge a Colui che solo, può tutto.
Ma il cammino dei dieci lebbrosi non finisce lì, perché Gesù, senza averli ancora guariti, li rimette in cammino e li manda dai sacerdoti. Questa prescrizione sembra tanto più strana
quanto era riservata a coloro che erano già guariti, mentre loro erano ancora malati. Ma ci vanno lo stesso, cioè credono veramente nella guarigione, anche se non la vedono ancora. E' questo la fede:
credere prima di vedere! Ed ecco che durante il cammino, di colpo si ritrovano guariti.
Ma uno solo, che non era neppure giudeo, ma era samaritano, cioè straniero, torna indietro a ringraziare Gesù. E non solo a ringraziarlo, ma si getta ai suoi piedi per adorarlo. E lui solo, si sente
dire: "Và la tua fede ti ha salvato". Gli altri sono stati solo guariti, ma questo è stato salvato, cioè ha riconosciuto in Gesù il Salvatore e non solo il dispensatore della guarigione. Non gli è bastata la guarigione, ha voluto rivolgere il suo sguardo e il suo grazie al donatore di ogni grazia.
E Gesù rimprovera gli altri nove, che siamo poi tutti noi, perché non hanno saputo rimettersi in cammino per venire a riconoscere il Salvatore: Si sono fermati su loro stessi, guardando solo il dono
ricevuto e disinteressandosi del donatore.
Quante volte anche noi, ci ricordiamo del Signore, solo per chiedere grazie, e una volta ottenute,
non andiamo oltre. Mentre il Signore vuole che alziamo lo sguardo fino a Lui, che non ci accontentiamo di meno. Le grazie sono solo un segno -come pure i miracoli- per invitarci a
rimetterci in cammino e puntare verso la meta che è Lui, non la guarigione o la grazia in sé.

- 3) Qual è la nostra lebbra?

Ma per questo dobbiamo purificarci anche noi dalla nostra lebbra -il peccato- che incrosta la nostra anima e la rende opaca, scura, dissomigliante. E come? Andando, come i dieci lebbrosi, dai
sacerdoti. Gesù vuole guarirci, e lo fa attraverso due grandi sacramenti: uno è la confessione. Perché
dobbiamo dire i peccati al ministro che rappresenta Gesù? Perché siano distrutti, cancellati, inondati dai fiumi d'acqua viva che sgorgano dal Suo Cuore. Solo il male non detto non può essere sanato.
Nessun medico può curare un malato che dice di essere sano e nessuno va dal medico per dirgli che non è malato! "On demande des pécheurs" diceva P. Bro. Non temiamo di riconoscere il nostro
peccato, perché è allora che ne saremo guariti definitivamente.
L'altro grande "sacramento" è la sofferenza accettata e vissuta come riparazione. Questa fa volare (non solo camminare) l'anima. La sofferenza e il sacrificio sono le due grandi forze... disarmate,
che possono salvare il mondo. E' con queste che Gesù ha salvato l'umanità. La più grande grazia da
chiedere dunque -più grande anche dei miracoli- è proprio la purificazione del cuore che, distruggendo ogni dissomiglianza dovuta al peccato, ricostruirà in noi l'immagine e somiglianza originaria. E allora rifletteremo di nuovo, come un puro cristallo, gli splendori della luce divina. E la irradieremo tutt'attorno.