Vangelo (Mt 21,28-32)
28 “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. 29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.
30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”.
E Gesù disse loro: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.
La terra promessa da Dio al suo popolo non è solo quella “dove scorre latte e miele”, ma anche quella in cui abbondano frumento, olio… e vino (Dt 8,6,10). “Invitare il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico” era il sogno coltivato da ogni israelita (Zc 3,10).
In un tempo come il nostro in cui tutto è meccanizzato, si bada soltanto alla quantità dei prodotti e al loro valore commerciale, parlare di un rapporto affettivo con la propria vigna suonerebbe ingenuo e un po’ patetico. Non era così in Israele. Mentre potava, il contadino accarezzava, con lo sguardo commosso dell’innamorato, la propria vite, le rivolgeva parole dolci e tenere. I poeti hanno cantato spesso questo amore e Dio se n’è servito per descrivere la passione che lo lega al suo popolo (Is 5,1-7). Israele è “la vigna deliziosa: cantatela! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).
Gesù ha ripreso più volte questa immagine: ha parlato di operai inviati, in ore diverse, a lavorare nella vigna (Mt 20,1-15), di vignaioli omicidi che non vogliono consegnare i frutti (Mt 21,33-40) e soprattutto ha presentato se stesso come “la vera vite” (Gv 15,1-8).
La parabola del vangelo di oggi mette in scena tre personaggi: un padre e due figli.
Gli ascoltatori di Gesù intuiscono subito che il padre rappresenta Dio, ma certo rimangono sorpresi dal fatto che egli abbia due figli. Il figlio di Dio è uno solo, Israele; per bocca del profeta Osea il Signore ha detto: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1) e al faraone ha dichiarato: “Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4,22). La Scrittura afferma che solo “i giudei sono figli del Dio Altissimo” (Est 8,12q), “figli che non deluderanno” (Is 63,8). Sentir parlare di due figli di Dio è sconcertante per un israelita; ma è solo l’inizio, il seguito della parabola è ancora più provocatorio.
All’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna, il primogenito rispose zelante, con prontezza: Sì, signore (letteralmente: Io, signore!; come dire: non pensare ad altri, ci sono io!), ma poi non andò (v. 29). Non si dice che, per svogliatezza o sedotto da una proposta allettante degli amici, “cambiò idea”; no, egli, anche quando aveva detto sì, non era per nulla d’accordo con il programma del padre, aveva soltanto pronunciato parole, parole vuote.
Il richiamo è a un altro detto di Gesù: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).
Questo primogenito rappresenta evidentemente gli israeliti che già Mosè aveva definito “figli degeneri, generazione perversa”, “figli infedeli” (Dt 32,5.20). Non tutti gli israeliti, naturalmente, ma quelli che, a parole, si erano assunti gli impegni dell’alleanza e poi li avevano ridotti a riti esteriori, a cerimonie senza valore, convinti di essere a posto con il Signore perché gli offrivano sacrifici, olocausti, preghiere. Questa, al tempo di Gesù, era la religione praticata dai sacerdoti del tempio e dai notabili del popolo. Non produceva i frutti voluti da Dio: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, si attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,7). Le solenni liturgie erano foglie, non frutti (Mt 21,18-22).
Le provocazioni della parabola non sono finite. Il padre rivolse anche al secondo figlio la richiesta di andare a lavorare nella vigna e la risposta fu: “Non ne ho voglia”. Poi però, preso dal rimorso, ci andò (v. 30).
L’allusione agli odiati pagani – che ora sono elevati al rango di figli – è esplicita. Essi non hanno dato alcuna adesione formale alla volontà del Signore, ma sono entrati per primi nel regno di Dio.
Quando Matteo scrive questo brano sono passati cinquant’anni dalla morte e risurrezione di Cristo e la profezia si è già realizzata: le comunità cristiane sono composte soprattutto da ex-pagani, mentre la maggioranza dei figli di Abramo non ha riconosciuto in Gesù il messia di Dio, non è entrata nella vigna.
Questa constatazione potrebbe ingenerare la pericolosa illusione che questi due figli siano dei personaggi preistorici, che non hanno nulla a che vedere con noi. I cristiani sarebbero il “terzo figlio”, quello che dice di sì e fa la volontà del Padre. Professano una fede chiara e immune da errori teologici, si impegnano a osservare comandamenti e precetti e lodano il Signore con canti e preghiere.
Ma proviamo a chiederci quale incidenza hanno nella vita di ogni giorno (Va’ oggi a lavorare nella vigna!) le nostre formule, le nostre dichiarazioni, le nostre formali prese di posizione, i nostri riti. Pongono fine agli odi, alle guerre, ai soprusi? Pur continuando a professarci cristiani, non ci rassegniamo facilmente a una vita di compromessi? Non ci adeguiamo spesso ai criteri di questo mondo e al buon senso degli uomini? Non conviviamo forse con le ingiustizie, le disuguaglianze, le discriminazioni?
Il terzo figlio esiste, ma non siamo noi. Solo “il Figlio di Dio, Gesù Cristo – scrive Paolo – non fu “sì” e “no”, ma in lui ci fu solo il “sì”. Tutte le promesse di Dio in lui divennero “sì” (2 Cor 1,19). Egli è l’unico che ha sempre detto: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,26).
La conclusione della parabola (vv. 31b-32) contiene quella che è forse l’affermazione più provocatoria di Gesù: “I pubblicani e le prostitute stanno passandovi avanti nel regno di Dio”. Il verbo è al presente; si tratta di una constatazione: i pubblici peccatori che non hanno alcun paravento religioso dietro il quale nascondersi, coloro che non possono fingere perché la loro condizione è palese a tutti, anche a loro stessi, si trovano avvantaggiati rispetto a coloro che si ritengono giusti. Questi si sentono sicuri e protetti dalle pratiche religiose che adempiono fedelmente e non si rendono nemmeno conto della propria lontananza dalla vigna del Signore.
“I pubblicani e le prostitute” che sanno di essere lontani da Dio non si illudono di compiere la sua volontà, sono coscienti di avere detto di no, non tentano di ingannare se stessi adempiendo precetti da loro inventati, non tranquillizzano la coscienza con pratiche che nulla hanno in comune con la vera religione. La loro consapevolezza di essere poveri, deboli, peccatori bisognosi di aiuto, li predispone a ricevere per primi il dono di Dio.
L’altro fratello entrerà nella vigna quando smetterà di ritenersi giusto, quando rinuncerà all’orgoglio di quelle che ritiene le sue opere buone, quando riconoscerà la propria ipocrisia e ne proverà disgusto, quando abbandonerà le sicurezze che gli derivano dal fatto di aver sempre detto di sì a parole e gioirà nel sentirsi salvato dall’amore gratuito del Padre.
Padre Fernando Armellini (biblista)