venerdì 31 dicembre 2010

Nutriamoci della Parola di Dio di sabato 1 gennaio 2011


Vangelo (Lc 2,16-21)

16 Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
 20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
 21 Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

Il vangelo di oggi è la continuazione del brano letto nella notte di Natale. Accanto alla culla di Gesù compaiono nuovamente i pastori (vv. 16-17).
Seguendo l’annuncio ricevuto dal cielo, essi vanno a Betlemme e trovano Giuseppe, Maria e il bambino che giace nella mangiatoia.
Si noti: non trovano nulla di straordinario. Vedono solo un bambino con suo padre e sua madre. Eppure, in quell’essere debole, bisognoso di aiuto e di protezione, essi riconoscono il Salvatore. Non hanno bisogno di segni straordinari, non verificano miracoli e prodigi. I pastori rappresentano tutti i poveri, gli esclusi che, quasi per istinto, riconoscono nel bambino di Betlemme il Messia del Cielo.
Nelle raffigurazioni i pastori compaiono in genere in ginocchio davanti a Gesù. Ma il vangelo non dice che essi si sono prostrati in adorazione, come hanno fatto i magi (Mt 2,11). Sono rimasti semplicemente ad osservare – stupiti, estasiati – l’opera meravigliosa che Dio aveva operato in loro favore, poi hanno annunciato ad altri la loro gioia e quanti li ascoltavano rimanevano essi pure meravigliati (v. 18).
Nei primi capitoli del suo vangelo, Luca rileva spesso lo stupore e la gioiaincontenibile delle persone che si sentono coinvolte nel progetto di Dio. Elisabetta, scoprendo di essere incinta, ripete a tutti: “Ecco cos’ha fatto per me il Signore!” (Lc 1,25); Simeone e la profetessa Anna benedicono Dio che ha concesso loro di vedere la salvezza preparata per tutte le genti (Lc 2,30.38); anche Maria e Giuseppe rimangono meravigliati, stupefatti (Lc 2,33.48).
Tutti costoro hanno gli occhi e il cuore del bambino che accompagna con lo sguardo ogni gesto del padre, rimane rapito di fronte ad ogni suo gesto e sorride, sorride perché in tutto ciò che il padre fa coglie un segno del suo amore. “Il regno di Dio appartiene a chi è come loro – dirà un giorno Gesù – e chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).
La prima preoccupazione dei pastori non è di tipo etico: non si chiedono che cosa dovranno fare, quali correzioni dovranno apportare alla loro vita morale non sempre esemplare, quali peccati dovranno impegnarsi ad evitare… Si fermano a gioire per ciò che Dio ha fatto. Dopo, solo dopo essersi sentiti amati sono in grado di ascoltare i consigli, le proposte di vita nuova rivolti loro dal Padre. Solo così si verranno a trovare nella condizione giusta per accordargli fiducia.

Nella seconda parte del vangelo (v. 19) viene sottolineata la reazione di Maria al racconto dei pastori: “Conservava tutte queste cose nel suo cuore e le meditava” (letteralmente: le metteva insieme).
Luca non intende dire che Maria “teneva a mente” tutto ciò che accadeva, senza dimenticare alcun particolare. E nemmeno vuole – come qualcuno ha sostenuto – indicare in Maria la sua fonte di informazioni sull’infanzia di Gesù. La portata teologica della sua affermazione è ben maggiore. Egli dice che Maria metteva insieme i fatti, li collegava tra loro e ne sapeva cogliere il senso, ne scopriva il filo conduttore, contemplava il realizzarsi del progetto di Dio. Maria (ragazzina di dodici-tredici anni) non era superficiale, non si esaltava quando le cose andavano bene e non si abbatteva di fronte alle difficoltà. Meditava, osservava con occhio attento ogni avvenimento, per non lasciarsi condizionare dalle idee, dalle convinzioni, dalle tradizioni del suo popolo, per essere recettiva e preparata alle sorprese di Dio.
Una certa devozione mariana l’ha allontanata dal nostro mondo e dalla nostra condizione umana, dalle nostre angosce, dai nostri dubbi e incertezze, dalle nostre difficoltà a credere. L’ha avvolta in un nimbo di privilegi che – secondo i casi – l’hanno fatta ammirare o invidiare, ma non amare.
Luca la presenta nell’ottica giusta, come la sorella che ha compiuto un cammino di fede non diverso dal nostro.
Maria non capisce tutto fin dall’inizio: si stupisce di ciò che Simeone dice del bambino, è quasi colta di sorpresa (Lc 2,33). Si stupisce come rimarranno stupiti gli apostoli e tutto il popolo di fronte alle opere di Dio (Lc 9,43-45). Non comprende le parole di suo figlio che ha scelto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,50), come i Dodici avranno difficoltà a capire le parole del Maestro: “Non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18,34).
Maria non capisce, ma osserva, ascolta, medita, riflette e, dopo la Pasqua (non prima!) capirà tutto, vedrà chiaramente il senso di ciò che è accaduto.
Luca la ripresenterà, per l’ultima volta, all’inizio del libro degli Atti degli apostoli. La collocherà al suo posto, nella comunità dei credenti: “Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Lei, la beata perché ha creduto (Lc 1,45).

Il vangelo di oggi si conclude con il ricordo della circoncisione. Con questo rito Gesù entra ufficialmente a far parte del popolo d’Israele. Ma non è questa la ragione principale per cui Luca ricorda il fatto. È un altro il particolare che gli interessa, è il nome che viene dato al bambino, nome che non era stato scelto dai genitori, ma che era stato indicato direttamente dal Cielo.
Per i popoli dell’antico Oriente il nome non era solo un mezzo per indicare le persone, per distinguere gli animali, per identificare gli oggetti. Era molto di più, esprimeva la natura stessa delle cose, formava un tutt’uno con chi lo portava. Abigail dice di suo marito: “Egli è esattamente ciò che indica il suo nome. Si chiama Nabal (lett.: “folle”) ed in lui non c’è che follia” (1Sam 25,25). Essere chiamati con il nome di un altro voleva dire impersonarlo, renderlo presente, avere la sua stessa autorità, richiamarne la protezione (Dt 28,10).
Tenendo presente questo contesto culturale, siamo in grado di capire l’importanza che Luca attribuisce al nome dato al bambino. Si chiama Gesù che significa: Il Signore salva. Matteo spiega: fu chiamato così perché salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).
Nel commento alla prima lettura dicevamo che il nome di Dio – YHWH – non poteva essere pronunciato. Ma senza nome si rimane nell’anonimato. Chi non conosce il nostro nome non può che instaurare un rapporto superficiale con noi.
Se Dio voleva entrare in dialogo con l’uomo doveva dirgli come voleva essere chiamato, doveva indicare il suo nome, rivelare la sua identità.
Lo ha fatto. Scegliendo il nome di suo Figlio, Dio ha detto chi egli è.
Ecco la sua identità: colui che salva, colui che non fa altro che salvare. Nei vangeli questo nome è ripetuto per ben 566 volte, quasi a ricordarci che le immagini di Dio incompatibili con questo nome devono essere cancellate.
Ora comprendiamo la ragione per cui nell’AT Dio non permetteva che fosse pronunciato il suo nome: perché solo in Gesù ci avrebbe detto chi era.
È interessante notare chi sono, nel vangelo di Luca, coloro che chiamano Gesù per nome. Non sono i santi, i giusti, i perfetti, ma solo gli emarginati, coloro che sono in balia delle forze del male. Sono gli indemoniati (Lc 4,34); i lebbrosi: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13); il cieco: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18,38) e il criminale che muore in croce accanto a lui: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).
Lo ricorderà Pietro ai capi religiosi del suo popolo: “Nessun altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini, per il quale possano essere salvati”.

Fernando Armellini (biblista)

venerdì 24 dicembre 2010

La Parola della notte di Natale

Vangelo (Gv 1,1-18)

1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
4 In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.
6 Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10 Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
11 Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
12 A quanti però l’hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13 i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli rende testimonianza
e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me”.
16 Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
17 Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.

Tutti gli autori curano con particolare impegno la prima pagina dei loro libri perché costituisce il foglio di presentazione di tutta l’opera. Deve essere non solo piacevole e accattivante, ma è bene che accenni anche ai temi essenziali che verranno trattati in seguito. È un modo per stuzzicare l’interesse e la curiosità del lettore.
Per introdurre il suo vangelo, Giovanni compone un inno così sublime, così elevato da meritargli, giustamente, il titolo di “aquila” fra gli evangelisti. In questo prologo, come nell’“ouverture” di una sinfonia, è possibile cogliere i motivi che saranno poi ripresi e sviluppati nei capitoli successivi: Gesù inviato del Padre, sorgente di vita, luce del mondo, pieno di grazia e di verità, Unigenito nel quale si rivela la gloria del Padre.

Nella prima strofa (vv. 1-5) Giovanni sembra spiccare il volo da un’immagine cara alla letteratura sapienziale e rabbinica: la “Sapienza di Dio” raffigurata come una donna incantevole e deliziosa. Ecco come la “Sapienza” si autopresenta nel libro dei Proverbi: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando stabiliva al mare i suoi limiti, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui” (Prv 8,22-29).
Si tratta di una personificazione ripresa anche nel libro del Siracide, dove si afferma che la Sapienza si è come incarnata nella Toràh, nella Legge, e ha fissato la sua tenda in Israele (Sir 24,3-8.22).
Giovanni conosce bene questi testi e – forse anche con un filo di polemica nei confronti del giudaismo – li riprende e li applica a Gesù.
È lui – dice – la Sapienza di Dio venuta a porre la sua tenda in mezzo a noi, è lui, e non la legge mosaica, che rivela agli uomini il volto di Dio e la sua volontà. Egli è il Verbo, la Parola ultima e definitiva di Dio, è quella stessa Parola mediante la quale Dio, in principio, ha creato il mondo.
Non solo. A differenza della Sapienza personificata (Sir 24,9), la Parola di Dio – che in Gesù si è fatta carne – non è stata creata, ma “era” presso Dio, esisteva dall’eternità ed era Dio.
Per Israele la Sapienza è “un albero di vita per chi ad essa si attiene” (Prv 3,18). Giovanni chiarisce: la Sapienza di Dio si è manifestata pienamente nella persona storica di Gesù. È lui, non più la Legge, la sorgente della vita.
La venuta di questa Parola nel mondo divide la storia in due parti: prima e dopo Cristo, tenebre senza di lui, luce dove c’è lui. Parola che, come una spada, penetra nell’intimo di ogni uomo e separa in lui ciò che è “figlio della luce” da ciò che è “figlio della tenebra”. La tenebra cercherà di sopraffare questa luce, ma non vi riuscirà. Anche la risposta negativa dell’uomo non potrà soffocarla e alla fine la luce avrà la meglio nel cuore di ognuno di noi.

La seconda strofa (vv. 6-8) è un primo intermezzo narrativo che introduce la figura del Battista. Di lui non si dice che “era presso Dio”. Giovanni è un semplice uomo suscitato da Dio per una missione. Doveva essere il testimone della luce. Il suo ruolo è tanto importante che viene sottolineato per ben tre volte.
Egli non era la luce, ma seppe riconoscere la luce vera e indicarla a tutti.

La terza strofa (vv. 9-13) sviluppa il tema di Cristo-luce e la risposta degli uomini di fronte al suo apparire nel mondo.
L’inno si apre con un grido di gioia: “Veniva nel mondo la luce vera”. Gesù è la luce autentica, in contrapposizione ai luccichii illusori, ai fuochi fatui, ai miraggi, ai bagliori ingannevoli proiettati dalla sapienza degli uomini.
A questo grido entusiastico si contrappone però subito un lamento: “il mondo non lo riconobbe”. È il rifiuto, l’opposizione, la chiusura alla luce. Gli uomini preferiscono l’oscurità perché affezionati alle loro opere malvagie (Gv 3,19).
Neppure gli israeliti – “la sua gente” – la accolgono. Eppure avrebbero dovuto riconoscere in Gesù la manifestazione ultima, l’incarnazione della “Sapienza di Dio”, di quella Sapienza che “fra tutti i popoli aveva cercato un luogo di riposo nel quale stabilirsi” e proprio in Israele aveva trovato la sua dimora. Il Creatore dell’universo le aveva dato quest’ordine: “Fissa la tua tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele” (Sir 24,7-8).
Sorprende il rifiuto della luce e della vita da parte degli uomini, anche dei più preparati e ben disposti. Anche Gesù si meraviglierà un giorno dell’incredulità dei suoi stessi conterranei (Mc 6,6). Questo significa che la luce che viene dall’alto non si impone, non fa violenza, lascia liberi, ma pone di fronte ad una decisione ineludibile: bisogna scegliere fra “benedizione e maledizione” (Dt 11,27), fra “ vita e morte” (Dt 30,15).
La strofa si conclude con la visione gioiosa di coloro che hanno creduto nella luce. Credere non significa dare il proprio assenso intellettuale ad un pacchetto di verità, ma accogliere una persona, la Sapienza di Dio che si identifica con Gesù.
A coloro che si fidano di lui viene concesso “un diritto” inaudito: divenire figli di Dio. È la rinascita dall’alto di cui Gesù parlerà a Nicodemo (Gv 3,3), rinascita che non ha nulla a che vedere con la nascita naturale che è legata alla sessualità, al volere dell’uomo. La generazione da Dio è di un altro ordine, è opera dello Spirito.

La quarta strofa (v. 14): “E il Verbo si fece carne e fissò la sua tenda in mezzo a noi”. È il punto culminante di tutto il prologo e sono le parole del vangelo che oggi ascolteremo in ginocchio. Sono ancora cariche dell’ammirazione gioiosa e stupita dei cristiani delle prime comunità di fronte al mistero di Dio che per amore si spoglia della sua gloria, annienta se stesso e prende dimora sotto la nostra tenda.
“Carne” nel linguaggio biblico indica l’uomo nel suo aspetto di essere debole, fragile, perituro. Si percepisce qui la drammatica contrapposizione fra “carne” e “Parola di Dio” espressa in modo così efficace nel famoso testo di Isaia: “Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come il fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Is 40,6-8).
Quando Giovanni dice che la “Parola” divenne carne non afferma semplicemente che prese un corpo mortale, che si rivestì di muscoli, ma che divenne uno di noi, che si fece in tutto simile a noi (compresi i sentimenti, le passioni, le emozioni, i condizionamenti culturali, la stanchezza, la fatica, l’ignoranza – sì, anche l’ignoranza – e poi le tentazioni, i conflitti interiori…). In tutto simile a noi fuorché nel peccato.
“E noi vedemmo la sua gloria”. L’uomo biblico era cosciente che l’occhio umano è incapace di vedere Dio. Di lui si può solo contemplare la “gloria”, cioè, i segni della sua presenza, le sue opere, i suoi gesti di potenza in favore del suo popolo: “Dimostrerò la mia gloria sul faraone e su tutto il suo esercito, i suoi carri e i suoi cavalieri” (Es 14,17).
Si sentono riecheggiare in questa frase del prologo le espressioni colme di intensa commozione della prima lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,1-4).
Giovanni parla al plurale perché intende riferire l’esperienza dei cristiani delle sue comunità che, con lo sguardo della fede, sono riusciti a cogliere, al di là del velo della “carne” di Gesù umiliato e crocifisso, il volto di Dio.
Il Signore ha manifestato spesso la sua gloria con segni e prodigi, ma mai si era rivelato in modo così chiaro e palese come nel suo “Unigenito, pieno di grazia e di verità”. “Grazia e verità” è un’espressione biblica che significa “amore fedele”. La troviamo nell’AT quando il Signore si presenta a Mosè come “il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). In Gesù è presente la pienezza dell’amore fedele di Dio. Egli è la dimostrazione inconfutabile che nulla potrà mai sopraffare la benevolenza di Dio.

La quinta strofa (v. 15) è il secondo intermezzo. Ricompare il Battista e questa volta egli parla al presente: “rende testimonianza” in favore di Gesù. “Grida” agli uomini di tutti i tempi che egli è unico.

La sesta strofa (vv. 16-18) è un canto di gioia dal quale trabocca la riconoscenza a Dio della comunità per il dono ricevuto. Dono incomparabile. Anche la legge di Mosè era un dono di Dio, ma non era definitiva. Le disposizioni esterne che essa conteneva non erano in grado di comunicare “la grazia e la verità”, cioè, la forza che permette all’uomo di corrispondere all’amore fedele di Dio. La “grazia e la verità” sono state donate per mezzo di Gesù. Compare qui, per la prima volta, il suo nome.
Dio nessuno l’ha mai visto. È un’affermazione che Giovanni richiama spesso (5,37; 6,46; 1 Gv 4,12.20). La si ritrova già nell’AT: “Tu non potrai vedere il mio volto – dice Dio a Mosè – perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).
Le manifestazioni, le apparizioni, le visioni di Dio raccontate nell’AT non erano delle visioni materiali, erano un modo umano di descrivere le rivelazioni dei pensieri, della volontà, dei progetti del Signore.
Ora invece è possibile vedere realmente, concretamente Dio osservando Gesù. Per conoscere il Padre non si devono fare ragionamenti filosofici o perdersi in sottili disquisizioni. Basta contemplare Cristo, osservare quello che fa, cosa dice, cosa insegna, come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, da chi va a cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende. Basta, soprattutto, contemplarlo nel momento più alto della sua “gloria”, quando viene innalzato sulla croce. In quella manifestazione somma di amore il Padre ha detto tutto.

Fernando Armellini (biblista)

sabato 18 dicembre 2010

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo



Vangelo (Mt 1,18-24)

18 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 20 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 21 Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23 “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”, che significa Dio con noi. 24 Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

“Ecco come avvenne la nascita di Gesù”. Così inizia il brano evangelico di oggi, ma invece di parlare della nascita, racconta l’annuncio a Giuseppe della maternità verginale della sua sposa.
Luca, a differenza di Matteo, narra l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria e ricorda solo marginalmente Giuseppe.
La tentazione di fondere i due racconti, come se fossero reportage di due giornalisti, è grande, ma è pericolosa: ci colloca inevitabilmente di fronte a interrogativi cui è arduo, se non impossibile, dare una risposta, come tra poco vedremo.
Sia Luca, sia Matteo fanno riferimento a fatti reali, anche se difficilmente definibili nei dettagli, ma non scrivono pagine di cronaca, fanno teologia: presentano Gesù come, dopo la Pasqua e alla luce dello Spirito, le comunità cristiane della fine del I secolo sono giunte a conoscerlo.
Vediamo come Matteo struttura il suo racconto e quale messaggio vuole dare.
Al tempo di Gesù il matrimonio avveniva in due tappe. La prima consisteva nel contratto stipulato fra i due sposi davanti ai genitori e a due testimoni; dopo questa firma, il ragazzo e la ragazza erano marito e moglie, ma non andavano a convivere, lasciavano trascorrere ancora un anno, durante il quale non si potevano incontrare.
Questo intervallo serviva alle due famiglie per una migliore conoscenza e ai due sposi per maturare: ci si sposava infatti molto giovani, 12-13 anni la ragazza, 15-16 il ragazzo. Questa doveva essere l’età di Maria e Giuseppe.
Passato l’anno di attesa, veniva organizzata una festa, la sposa era condotta alla casa del marito e i due iniziavano la vita in comune.
Fu durante questo intervallo che ebbe luogo l’annunciazione a Maria e la sua gravidanza per opera di spirito santo.
Matteo mette in risalto questo fatto fin dall’inizio del suo racconto, per evitare che si insinui il dubbio che Gesù sia stato generato per l’intervento di un uomo.
Lo spirito, in questo racconto, non rappresenta l’elemento maschile (ruah- spirito in ebraico è femminile), indica una forza, un soffio divino creatore. “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” – dice il salmista (Sal 104,30) che pensa probabilmente allo spirito di Dio che aleggiava sulle acque all’inizio del mondo (Gn 1,2).
Il concepimento verginale, che è ricordato esplicitamente anche da Luca (Lc 1,26-39), non ha lo scopo di sottolineare la superiorità morale di Maria, né, ancor meno, costituisce un deprezzamento della sessualità. È introdotto per “rivelare” una verità fondamentale per il credente: Gesù non è unicamente uomo, egli viene dall’alto, è lo stesso Signore che ha assunto forma umana. Per farci comprendere questa verità, affermano concordi Matteo e Luca, Dio è ricorso a un atto creativo.

Ciò che è successo in seguito non è facile da stabilire e solleva parecchi interrogativi. Appare incredibile che Giuseppe, nonostante la sua rettitudine, pensi di prendere provvedimenti drastici nei confronti di Maria, senza neppure averla consultata. Come poteva sospettare che gli fosse stata infedele? In che senso Giuseppe era “giusto”: forse perché voleva separarsi da Maria? Non c’era alcuna legge che obbligasse a divorziare dalla moglie infedele. Del resto non sarebbe stato un bel gesto quello che Giuseppe stava per fare, anche se veniva compiuto “in segreto”. Come mai Maria non ha detto nulla a Giuseppe dell’annuncio che aveva avuto dall’arcangelo Gabriele? Oppure, se glielo ha detto, perché Giuseppe non le ha creduto?
A queste domande qualcuno risponde: Maria deve aver detto al suo sposo che il figlio che aspettava veniva da Dio; non avrebbe avuto alcun motivo di mantenere il segreto su un fatto che egli era in diritto di sapere. Il dubbio di Giuseppe allora non verterebbe sulla fedeltà o infedeltà della sposa, ma sul suo ruolo in questo avvenimento straordinario. Come avrebbe potuto dare il nome a un figlio non suo? Non sarebbe stata un’intromissione indebita nel progetto di Dio? Non sapendo come comportarsi, aveva pensato di tirarsi in disparte e attendere che Dio gli facesse conoscere la sua volontà.
Mentre egli andava meditando queste cose, il Signore gli rivelò il suo progetto e la missione alla quale lo chiamava: doveva dare il nome a Gesù; così il figlio di Maria sarebbe entrato di diritto nella sua famiglia, sarebbe divenuto discendente di Davide “secondo la carne”, come ha detto Paolo nella seconda lettura.
Questa spiegazione è interessante e contiene elementi sicuramente accettabili – come, per esempio, il fatto che Giuseppe sia chiamato “giusto”, perché aveva deciso di farsi da parte per non frapporre ostacoli al piano di Dio che non riusciva a capire – ma ha il limite di essere una supposizione alla quale il testo evangelico dà solo un fragile fondamento.
È meglio non tentare di trovare nel vangelo risposte a interrogativi, che noi legittimamente ci poniamo, ma che a Matteo non interessavano.
Egli non era preoccupato di darci informazioni o di soddisfare le nostre curiosità. L’unica cosa che gli premeva era che ci rendessimo conto che il figlio di Maria era l’erede del trono di Davide, promesso dai profeti.

La conclusione del racconto è solenne. Tutto il brano sembra sia stato scritto per dimostrare l’adempimento di ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (vv. 22-23).
Abbiamo già visto qual era il significato letterale di questa profezia: l’annuncio della nascita del figlio di Acaz, Ezechia. Egli fu realmente un “Emmanuele”, cioè un segno che Dio proteggeva il suo popolo e la dinastia di Davide, ma non rispose a tutte le attese che erano state riposte in lui e nemmeno realizzò le promesse di felicità, di benessere e di pace descritte da Isaia. Non fu “un prodigio di consigliere, un guerriero invincibile, un padre per sempre, un principe della pace…” (Is 9,5-6).
Ecco cosa intende dire Matteo: è Gesù colui che ha adempiuto queste profezie, è lui il figlio della vergine annunciato dal profeta. Egli è realmente l’“Emmanuele” il “Dio con noi”. A lui sarà dato un regno eterno e in lui si compiranno tutte le speranze di Israele.
Siamo all’inizio del vangelo di Matteo. Il tema dell’“Emmanuele” torna anche alla fine del libro. Nell’ultimo capitolo si dice che, dopo la risurrezione, Gesù si manifestò ai suoi discepoli sul monte della Galilea, li inviò nel mondo intero a far discepole tutte le nazioni e aggiunse: “Ecco, io sono con voi (...Ecco io sono l’“Emmanuele”) tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il richiamo al “Dio con noi” apre e chiude tutta l’opera di Matteo perché – ci dice l’evangelista – in Gesù, Dio si è messo, e rimane per sempre, a fianco dell’uomo.

In questa conclusione del brano ritorna il tema della “vergine”. Abbiamo già spiegato il significato del concepimento verginale di Maria. Vogliamo ricordare altre implicazioni bibliche di questo termine.
Per noi “vergine” significa “ammirevole, degna di stima”. Nella Bibbia invece ha un diverso significato. La verginità di una donna era apprezzata prima del matrimonio, ma colei che rimaneva vergine per tutta la vita mostrava solo l’incapacità di attirare su di sé lo sguardo di un uomo. Degna di lode in Israele era la donna sposata che aveva figli; la vergine era considerata un albero senza frutti, meritevole di commiserazione (Is 56,3-6).
Questo termine ricorre spesso nella Bibbia, in senso figurato, per indicare una condizione spregevole. L’espressione vergine Sion non vuol dire: “Gerusalemme pura, immacolata, senza macchia”, ma “povera, disprezzata, priva di vita” (Ger 31,4; 14,13). La terra d’Israele annientata dagli assiri è paragonata da Amos alla vergine che non ha potuto realizzare il suo sogno di essere madre: “ È caduta, non si alzerà più, la vergine d'Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare” (Am 5,2). Anche Babilonia, la sanguinaria, viene maledetta dal profeta: “Sarai ridotta in polvere, vergine Babilonia” (Is 47,1).
E Maria?... Parla di sé come se fosse la “vergine Sion”, disprezzata e senza valore (“...ha guardato la bassezza, la povertà della sua serva”) e riconosce che tutto quanto è avvenuto in lei è opera del “Potente” che ha fatto in lei grandi cose (Lc 1,48-49).
Maria vergine è la prova della grandezza e della forza dell’amore di Dio, il solo che dall’utero sterile sa trarre la vita.
Quando celebriamo la “verginità” di Maria, ci rallegriamo perché verifichiamo in lei ciò che il Signore sa fare con i “vergini”, con chi non ha valore, con chi può presentargli solo la propria indigenza e la propria semplicità. Da Maria il Signore ha tratto un capolavoro. Un artista come lui sa fare solo capolavori, indipendentemente dalla pochezza e dalla povertà del materiale che ha a disposizione. Ogni uomo è destinato a divenire un suo capolavoro.
In questo tempo di Avvento, Maria vergine invita a contemplare ciò che il Signore ha compiuto in lei e a credere nella vittoria della vita, anche dove si vedono solo segni di morte.
Il termine vergine nella Bibbia assume anche un altro significato metaforico: indica la persona che ama con cuore indiviso.
L’infedeltà di Israele è paragonata a una prostituzione (Ger 5,7); la sua contaminazione con gli idoli è considerata un adulterio, una divisione del cuore fra il Signore, l’unico sposo, e gli idoli delle nazioni, i suoi amanti (Os 2).
La verginità è il simbolo dell’amore totale per il Signore.
È in questo senso che Paolo impiega il termine quando scrive ai corinti: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2).
Maria ha certamente realizzato alla perfezione anche questo ideale di verginità.
È, per ogni cristiano, il modello sommo di amore totale e indiviso a Dio

sabato 11 dicembre 2010

“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”.



III DOMENICA D'AVVENTO

Vangelo (Mt 11,2-11)


...
2 Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: 3 “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. 4 Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: 5 I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, 6 e beato colui che non si scandalizza di me”.

7 Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8 Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! 9 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. 10 Egli è colui, del quale sta scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”.

11 In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.




Non è facile riconoscere il messia di Dio.

Educato dai profeti, Israele lo ha atteso per secoli, eppure, quando è giunto, persino le persone spiritualmente più preparate e ben disposte hanno fatto fatica a capirlo e ad accoglierlo. Lo stesso Battista è rimasto disorientato.

Ma un messia che non stupisce, che non suscita meraviglia ed incredulità non può venire da Dio; sarebbe troppo conforme alla nostra logica e alle nostre attese e Dio la pensa in modo ben diverso da noi.




Nella prima parte del vangelo di oggi (vv. 2-6) viene presentato il dubbio che è sorto un giorno anche nella mente del precursore e la risposta che Gesù gli ha dato.

Giovanni si trova in prigione e la ragione è narrata in Mt 14,1-12: ha denunciato il comportamento immorale di Erode che si è preso la moglie di suo fratello. Nella fortezza di Macheronte dove, secondo lo storico Giuseppe Flavio, era stato rinchiuso, è trattato con rispetto, può ricevere le visite dei discepoli e, desideroso di assistere all’avvento del regno di Dio, si mantiene informato su come si sta comportando quel Gesù di Nazareth che egli ha additato come il messia.

In questo intervallo, tuttavia, la sua fede comincia a vacillare.

Qualcuno sostiene che i dubbi non sono di Giovanni, ma dei suoi discepoli. Non è così. Dal vangelo risulta chiaro che egli stesso ha dubitato che Gesù fosse il messia. Per questo ha mandato a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (v. 3).

Come mai sono sorte in lui delle perplessità?

La risposta è abbastanza semplice. Basta tener presente l’immagine di messia che, fin da piccolo, Giovanni aveva assimilato dalle guide spirituali del suo popolo.

È in prigione e, conscio di quanto hanno preannunciato i profeti, si aspetta il “liberatore” (Is 61,1), l’incaricato di ristabilire nel mondo la giustizia e la verità. Non capisce perché Gesù non si decida a intervenire in suo favore.

Attende un messia giudice rigoroso che si scaglia contro i malvagi. Ecco invece la sorpresa: Gesù non solo non condanna i peccatori, ma mangia con loro e si gloria di essere loro amico (Lc 7,34). Raccomanda di non spegnere il lucignolo che ancora fumiga e suggerisce di prendersi cura della “canna incrinata”. Non distrugge nulla, ricupera e aggiusta ciò che è rovinato. Non brucia i peccatori, cambia il loro cuore e li vuole ad ogni costo felici, ha parole di salvezza per coloro che non hanno più speranza e che tutti evitano come lebbrosi. Non si scoraggia di fronte a nessun problema dell’uomo, non si arrende nemmeno davanti alla morte.

Agli inviati del Battista Gesù si presenta come messia, elencando i segni desunti da alcuni testi di Isaia (Is 35,5-6; 26,19; 61,1), il profeta della speranza che aveva predetto: “Nessuno nella città dirà più: io sono malato” (Is 33,24).

Il Battista è invitato a prendere atto di sei nuove realtà: la guarigione dei ciechi, dei sordi, dei lebbrosi, degli storpi, la risurrezione dei morti e l’annuncio del vangelo ai poveri. Sono tutti segni di salvezza, nessuno di condanna.

Il mondo nuovo è dunque sorto: chi camminava al buio e aveva perso l’orientamento della vita, ora è illuminato dal vangelo; chi era storpio e non riusciva a muovere un passo verso il Signore e verso i fratelli, ora cammina spedito; chi era sordo alla parola di Dio, ora l’ascolta e si lascia guidare da essa; chi provava vergogna di se stesso per la lebbra del peccato che lo teneva lontano da Dio e dai fratelli, ora si sente purificato; chi compiva solo opere di morte ora vive in pienezza la sua esistenza; chi si riteneva un miserabile e senza speranza ha udito la bella notizia: “Anche per te c’è salvezza”.

Il messia di Dio non ha nulla a che fare con il personaggio energico e severo che Giovanni si aspettava. Il suo modo di procedere ha scandalizzato il precursore e continua a scandalizzare anche noi oggi. C’è ancora qualcuno che chiede al Signore di intervenire per castigare gli empi; c’è ancora chi interpreta come castighi di Dio le disgrazie che colpiscono chi ha fatto il male. Ma potrà Dio adirarsi o provare piacere nel vedere i suoi figli (anche se cattivi) soffrire?

Gesù conclude la sua risposta con una beatitudine, la decima che si incontra nel vangelo di Matteo: “Beato chi non si scandalizza di me”. Un dolce invito al Battista a rivedere le sue convinzioni teologiche.

Un Dio buono con tutti contraddiceva la convinzione che Giovanni si era fatta. Come noi, anche il Battista immaginava un Dio forte e se lo ritrovava di fronte debole; si aspettava interventi clamorosi, invece gli eventi continuavano a svolgersi come se il messia non fosse venuto.

Beato chi accoglie Dio così com’è, non come vorrebbe che fosse!

La fede nel Dio che si rivela in Gesù non può che accompagnarsi a dubbi, incertezze, difficoltà a credere.

Il Battista è la figura del vero credente: si dibatte fra tante perplessità, si pone delle domande, ma non rinnega il messia perché non corrisponde ai suoi criteri; rimette in causa le proprie certezze.

Non preoccupa chi ha difficoltà a credere, chi si sente smarrito di fronte al mistero e agli enigmi dell’esistenza, chi dice di non capire i pensieri e l’agire di Dio; preoccupa chi confonde le proprie certezze con la verità di Dio, chi ha la risposta pronta per tutte le domande, chi ha sempre qualche dogma da imporre, chi non si lascia mai mettere in discussione: una simile fede a volte sconfina nel fanatismo.




Partiti i discepoli di Giovanni, Gesù pronuncia il suo giudizio su di lui con tre interrogativi retorici. È la seconda parte del vangelo di oggi (vv. 7-11).

Le risposte alle prime due sono ovvie: il Battista non è come le canne palustri che crescono lungo il Giordano, simboli della volubilità perché si piegano secondo la direzione del vento. Giovanni non è un opportunista che si adegua a tutte le situazioni e si inchina di fronte al potente di turno. Al contrario, è uno che si oppone risolutamente agli stessi capi politici, che affronta a viso aperto il re e non ha paura di dire quello che pensa.

Giovanni non è un corrotto, che pensa al proprio interesse, che accumula denaro senza scrupoli e lo sperpera in divertimenti, vestiti eleganti e raffinati. I corrotti – dice Gesù – sono i re e i loro cortigiani, i ricchi, i capi che lo hanno imprigionato.

La terza domanda richiede una risposta positiva: Giovanni è un profeta, anzi è più che un profeta. Nessuno nell’AT ha svolto una missione superiore alla sua. Più di Mosè, egli è “un angelo” inviato a precedere la venuta liberatrice del Signore.

È significativa l’aggiunta finale: “Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (v. 11).

Gesù non stabilisce una graduatoria basata sulla santità e sulla perfezione personale, ma invita a verificare la superiorità della condizione del discepolo. Chi appartiene al regno dei cieli è in grado di vedere più lontano del Battista. Chi ha colto il volto nuovo di Dio, chi ha capito che il messia è venuto incontro all’uomo per perdonarlo, accoglierlo, amarlo comunque, è entrato nella prospettiva nuova, nella prospettiva di Dio.

Ciò che noi oggi, indipendentemente dalla nostra santità personale, possiamo vedere e capire, il Battista lo ha soltanto intuito perché è rimasto sulla soglia dei tempi nuovi.



Fernando Armellini (biblista)

martedì 7 dicembre 2010

Mercoledì 8 dicembre Immacolata Concezione

 

Maria segno della vittoria sul serpente


C’è un modo di presentare la figura di Maria che scoraggia invece di animare.
È indicata come la donna assolutamente inimitabile, esentata dal peccato originale e dalle sue drammatiche conseguenze – e questo non per merito suo, ma per un singolare privilegio divino – confermata in grazia, preservata dal commettere errori, benedetta in ogni sua opera… Ci chiediamo cos’abbia in comune con noi questa donna meravigliosa?
Noi, poveri discendenti di Adamo, costretti a sopportare, senza averne colpa, le pene di un peccato che non abbiamo commesso, possiamo provare invidia nei suoi confronti, ma difficilmente amore. È troppo lontana dalla nostra condizione, non è nostra compagna di viaggio nel cammino di fede che, con fatica, percorriamo; non condivide con noi dubbi, incertezze, tentazioni e anche momenti di smarrimento di fronte alla volontà di Dio.
Questa immagine della madre di Gesù – derivata dall’affetto più che dalla meditazione approfondita dei testi sacri – divide i fratelli di fede, invece di unirli, costituisce un motivo di attrito nel dialogo ecumenico, soprattutto con i protestanti e gli ortodossi.
La festa di oggi ci offre l’opportunità di accostarci alla figura autentica di Maria, quella che traspare nitida dai racconti evangelici, libera dalle incrostazioni di una devozione non sempre sana che ha dato adito anche a parecchi equivoci.
Il dogma dell’Immacolata Concezione – definito da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 – è stato formulato con un linguaggio legato alle categorie filosofiche e teologiche del tempo, linguaggio che all’uomo del ventunesimo secolo risulta difficile da comprendere. Se si vuole che abbia qualcosa da dire a noi oggi, dobbiamo rileggerlo alla luce della rivelazione biblica.
La Maria del Vangelo ci è molto vicina: ragazza nata fra i monti della Bassa Galilea, innamorata del giovane Giuseppe con il quale ha progettato una famiglia secondo la tradizione del suo popolo, poi madre, donna di fede che si è dovuta confrontare ogni giorno con difficoltà e tentazioni non dissimili dalle nostre. Non è un’eccezione, ma una persona particolare in cui Dio ha trovato la piena disponibilità alla realizzazione del suo piano di salvezza.
Dio non elargisce i suoi doni per suscitare in chi è stato favorito il piacere narcisistico di sentirsi un privilegiato, ma per affidargli una missione da svolgere. Maria è stata colmata di grazia perché noi dovevamo divenire ricchi di grazia. In lei il Signore ha manifestato la sua benevolenza perché voleva colmare noi di ogni benedizione.
Si è inserita perfettamente in questo disegno e tutti i doni che gratuitamente ha ricevuto da Dio li ha impiegati affinché noi potessimo giungere alla salvezza. Con gioia ha accolto la parola del Signore  e ha portato a compimento la sua difficile vocazione.
I vangeli ci ricordano le sue perplessità, i suoi interrogativi, il suo commovente cammino di fede.
Come noi, come suo figlio, è stata tentata, ma in ogni momento ha saputo dire, come Gesù (2 Cor 1,19), sempre “sì” a Dio.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Non eri diversa da noi, sorella Maria. Sei beata perché hai creduto e sei rimasta fedele.


Prima lettura (Gn 3,9-15.20)


9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. 10 Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.
 11 Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”.
 12 Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. 13 Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.
 14 Allora il Signore Dio disse al serpente:
 “Poiché tu hai fatto questo,
 sii tu maledetto più di tutto il bestiame
 e più di tutte le bestie selvatiche;
 sul tuo ventre camminerai
 e polvere mangerai
 per tutti i giorni della tua vita.
 15 Io porrò inimicizia tra te e la donna,
 tra la tua stirpe
 e la sua stirpe:
 questa ti schiaccerà la testa
 e tu le insidierai il calcagno”.
 20 L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.

Maria fu preservata immune da ogni macchia della colpa originale. Così si è espresso Pio IX quando ha formulato il dogma dell’Immacolata Concezione.
Come tutti al suo tempo, questo papa riteneva che il racconto del “peccato originale” riferisse la storia sciagurata di due individui – il signor Adamo e la signora Eva – ed era convinto che la loro trasgressione avesse avuto conseguenze drammatiche per i loro discendenti ai quali era stata trasmessa.
Gli studi biblici oggi hanno appurato, senza ombra di dubbio, che questo brano della Genesi non è il resoconto di un fatto accaduto all’inizio del mondo, ma una pagina di teologia, redatta per rispondere, con immagini e linguaggio mitici, al più inquietante degli enigmi dell’uomo: perché esiste il male nel mondo?.
Non narra la storia del peccato di un certo Adamo e una certa Eva, ma spiega la dinamica secondo cui, da sempre, gli uomini giungono a rifiutare Dio, a commettere il male e a decretare la propria rovina.
Noi non siamo gli sventurati discendenti di Adamo ed Eva – costretti a portare le conseguenze del peccato dei progenitori – ma siamo noi gli Adamo ed Eva, posti di fronte a Dio e alla responsabilità delle scelte che siamo chiamati a fare nella vita.
Se questa è l’interpretazione del racconto della Genesi, anche la verità contenuta nel dogma dell’Immacolata Concezione richiede di essere approfondita e compresa in modo nuovo.

Dio aveva fatto bene ogni cosa, il mondo era uscito “buono” dalle sue mani. Per sette volte l’autore sacro ripete, come un ritornello: “E Dio vide che era buona” l’opera da lui realizzata.
C’era armonia fra l’uomo e Dio, armonia rappresentata nel libro della Genesi dall’immagine squisita del Signore e dell’uomo che passeggiano nel giardino di Eden, accarezzati dalla brezza della sera (Gn 3,8)
C’era armonia fra l’uomo e la natura: il mondo era amato, rispettato e curato come un giardino.
C’era armonia fra uomo e donna: nessun dominio, nessuna sopraffazione, nessuna strumentalizzazione egoistica, solo la gioia di sentirsi ciascuno un dono per l’altro.
È a questo punto che – fin dall’inizio del mondo – entra in scena il serpente che convince l’uomo a infrangere i limiti impostigli dalla sua condizione di creatura, a mettere da parte il progetto del Creatore e a sostituirlo con un proprio progetto, a seguire i propri capricci e astuzie, illudendosi di raggiungere così la piena realizzazione di sé e la felicità.
Chi è il serpente? Proviamo a decodificare questa figura mitica.
Contrariamente a quello che forse pensiamo, in tutto l’Antico Testamento questo misterioso personaggio non compare più. Solo al tempo di Gesù gli autori giudei, per influsso del pensiero persiano ed ellenistico, hanno cominciato a vedere nel serpente il diavolo; ma il testo della Genesi non orienta verso questa spiegazione, dichiara piuttosto che il serpente è la più astuta delle creature di Dio.
Chi può essere?
Scorriamo i primi due capitoli della Genesi, passiamo in rassegna gli esseri viventi creati dal Signore e giungeremo alla conclusione: è l’uomo, non può essere che lui il più astuto.
Sì, il serpente è l’uomo stesso che, colto da un folle delirio di onnipotenza, si solleva contro Dio, pensa di potersi sostituire a lui e proclama la propria autonomia nel decidere ciò che è bene e ciò che è male.
Questa tentazione dell’autosufficienza seduce in modo subdolo, penetra impercettibile, insidiosa come un serpente, nella mente e nel cuore dell’uomo e lo induce a fare scelte di morte.
Il peccato causa la rottura di tutte le armonie e il brano che ci viene proposto nella lettura di oggi ne presenta, con immagini, le drammatiche conseguenze.
L’uomo che si lascia sedurre dal “serpente” che è in lui finisce fuori posto.
Dio lo cerca, lo chiama: “Dove sei?”, ma non lo trova (vv. 8-10), perché non è più dove dovrebbe essere.
Come un padre, il Signore è addolorato del male che il figlio si è fatto; è preoccupato e, per ricuperarlo, lo invita a prendere coscienza dell’accaduto.
“Dove sei?” significa: “Dove sei andato a finire? Cos’hai fatto della tua vita? Come ti sei ridotto agendo di testa tua?”.
La risposta dell’uomo: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (v. 10).
È il rifiuto della presenza di Dio, considerato non più come un amico, ma come un avversario da evitare, come un tiranno che minaccia l’indipendenza e toglie la libertà.
Nascondersi dal Signore significa abbandonare la preghiera, disinteressarsi dell’ascolto della parola di Dio, prendere le distanze dalla vita della propria comunità per non essere rimessi in discussione, per non sentirsi intralciati nelle proprie scelte.
L’uomo ha paura di Dio perché teme che egli lo privi della felicità. In realtà, chi si stacca da lui precipita nel baratro della più completa confusione.
La seconda conseguenza della decisione di smarcarsi da Dio nelle scelte morali è l’allontanamento dai fratelli (vv. 12.16).
Adamo accusa Eva, questa attribuisce la colpa al serpente, ambedue rinfacciano a Dio di aver creato un mondo sbagliato. Sei stato tu – insinua Adamo – a mettermi accanto una persona che, invece di condurmi a te, mi ha distolto dal tuo progetto. Io mi sono fidato di lei perché tu me l’avevi posta al fianco.
Questa reazione rappresenta il tentativo di scaricare le responsabilità del male commesso su capri espiatori che possono essere la famiglia in cui si è nati, la società, l’educazione ricevuta e, in ultima analisi, Dio che ha voluto che l’uomo non potesse realizzarsi che nell’incontro con i propri simili, i quali però spesso, invece di sollevarlo in alto, lo trascinano verso il basso.
La donna, interrogata a sua volta, dà la colpa al serpente e, siccome il serpente non è che l’altra faccia della nostra umanità, le sue parole costituiscono una nuova accusa nei confronti di Dio: Tu hai fatto male le cose creando l’uomo così com’è, capace di compiere follie e crimini. Perché non l’hai fatto diverso, perfetto? Perché in lui c’è questo “serpente” insidioso che inietta veleno mortale?
Dopo essersi rivolto all’uomo e alla donna, ci aspetteremmo che Dio interroghi il serpente, invece non lo fa, perché il serpente non è una creatura distinta dall’uomo, ma è la controparte dell’uomo, quella che si oppone a Dio.
Il serpente – il male che è nell’uomo – avrà sempre la meglio?
Dal nostro punto di vista la condizione umana pare disperata e Paolo la descrive in toni drammatici: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto, quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,15-24).
La disfatta dell’uomo sarà dunque definitiva?
Nell’ultima parte del brano (vv. 14-15) Dio risponde a questa inquietante domanda.
La lotta fra “il serpente” e l’uomo continuerà fino alla fine del mondo, ma viene anticipato l’esito del confronto.
“Il serpente” è dichiarato maledetto, cioè privo di forza soprannaturale e quindi non irresistibile; può essere vinto e difatti lo sarà.
Servendosi di immagini vive ed efficaci, Dio assicura che lambirà la polvere, andrà incontro a una disfatta umiliante (Sl 72,9); striscerà per terra, come sono costretti a fare i nemici sconfitti di fronte al vincitore (Sl 72,11); avrà la testa schiacciata e, anche se, fino alla fine, tenterà di mettere in atto le sue insidie mortali, non riuscirà nel suo intento.
È la promessa della salvezza universale.

Alla luce di questa lettura, la proclamazione dell’Immacolata Concezione di Maria acquista un chiaro significato nuovo e stimolante.
È l’invito a rivolgere lo sguardo verso colei che, fin dal suo concepimento, ha realizzato quell’armonia perfetta che Dio aveva sognato il primo mattino del mondo.
È immacolata fin dal suo concepimento, cioè, nella totalità della sua esistenza.
 In lei la vittoria sul serpente è stata completa perché in lei lo Spirito divino che ha animato suo figlio ha potuto operare le sue meraviglie.
È il segno più nitido del trionfo di Dio sul male.

Seconda lettura (Ef 1,3-6.11-12)


3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
 che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
 4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
 per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
 5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi
 per opera di Gesù Cristo,
 6 secondo il beneplacito della sua volontà.
 E questo a lode e gloria della sua grazia,
 che ci ha dato nel suo Figlio diletto.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
 essendo stati predestinati secondo il piano di colui
 che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria,
 noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.

La festa di oggi è solo un invito a contemplare l’Immacolata, a rallegrarci per le meraviglie operate in lei o Dio ci vuole in qualche modo coinvolgere nella sua luminosa storia?
A questa domanda risponde il brano che ci è proposto nella lettura.
È un inno commovente, sgorgato dal cuore di un cristiano dell’Asia minore, cantato durante le celebrazioni liturgiche delle comunità del I secolo e conservatoci dall’autore della lettera agli efesini.
Esordisce con una benedizione a Dio che non è più chiamato “Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe”, ma Padre del Signore nostro Gesù Cristo (v. 3).
È benedetto perché, avendoci inseriti in Cristo, ci ha resi partecipi di ogni benedizione spirituale.
Le benedizioni promesse ai patriarchi erano materiali. Dio si mostrava benevolo verso il suo popolo quando donava messi abbondanti, moltiplicava greggi e armenti, faceva crescere i figli come virgulti d’ulivo e rendeva le figlie splendide “come colonne d’angolo” (Sl 144,12).
Ora egli ci colma di benedizioni spirituali, che non sono in contrapposizione con quelle materiali, ma costituiscono una realtà nuova, un’offerta di beni imperituri, di una vita che va oltre gli orizzonti di questo mondo.
Dopo questa esclamazione gioiosa, l’inno presenta, nella prima strofa, il progetto d’amore ideato da Dio (vv. 4-6). Rivela la sorpresa che Dio aveva in serbo per noi prima ancora della creazione del mondo: egli ci ha scelti per essere santi e immacolati.
Si tratta di un messaggio inatteso.
Ritenevamo che solo Maria fosse santa e immacolata, invece Paolo ci assicura che questa è la vocazione alla quale siamo chiamati tutti. Anche in noi il male è destinato a subire la disfatta che si è registrata in modo totale in Maria.
Quest’opera meravigliosa il Signore la realizza predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo.
Il destino che attende l’intera umanità non è, dunque, la rovina, ma la gioia senza fine, a lode e gloria della sua grazia.
A questo punto l’inno introduce un’affermazione densa di significato e che, purtroppo, la nostra traduzione non riesce a rendere: “grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto”.
Il testo originale impiega qui il verbo greco kharitoo che significa colmare gratuitamente di ogni dono. Nel suo Figlio diletto Dio ci ha ricolmati gratuitamente, senza alcun nostro merito, dei suoi doni.
 Ora, la cosa sorprendente è che questo verbo è usato solo un’altra volta nella Bibbia. Ricorre nell’annuncio che Gabriele rivolge a Maria: Rallegrati o ricolmata da Dio di ogni suo dono, il Signore è con te (Lc 1,28).
Si riteneva che in questo saluto dell’angelo fosse contenuta la prova biblica della pienezza di grazia di Maria.
È vero: in Maria nessuno dei doni di cui è stata colmata è andato perduto.
L’inno della Lettera agli efesini annuncia però anche a noi il lieto messaggio: Dio ha ricolmato anche noi di tutti i suoi doni e ci invita a disporci per accoglierli e lasciarli fruttificare sull’esempio di Maria.


Vangelo (Lc 1,26-38)


26 Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27 a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.
28 Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”.
29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. 30 L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
 34 Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”.
 35 Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. 36 Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: 37 nulla è impossibile a Dio”.
38 Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.
E l’angelo partì da lei.

Numerosi pittori hanno raffigurato questa scena per cui è quasi inevitabile che la si visualizzi e che qualcuno tenti anche di completarla ricorrendo – come hanno fatto molti artisti – ai tratti leggendari tramandati dai vangeli apocrifi.
Le emozioni suscitate da questa pagina di Luca possono aiutare ad accostarsi al mistero, a condizione che si vada subito oltre, che si comprenda il genere letterario impiegato dall’evangelista e si giunga a cogliere il messaggio che vuole comunicare.
Se la si interpreta in modo superficiale, l’incantesimo finisce presto perché sorgono domande cui non si trova risposta o che non hanno senso. Ci si chiede perché non ci venga detto dove Maria si trovava, cosa stesse facendo, quali le ragioni del suo turbamento (si era sposata per avere figli, perché si meraviglia che le si annunci una maternità?), quale aspetto aveva assunto l’angelo e come si era introdotto nella casa della Vergine, dov’era Giuseppe, perché non è stato subito informato e, soprattutto, perché Dio ha voluto complicare tanto la vicenda, al punto di mettere a repentaglio l’onorabilità di Maria.
Chi si pone questi interrogativi non ha capito che non siamo di fronte a un resoconto fedele fin nei dettagli, ma a una pagina di teologia scritta a tavolino da un biblista molto preparato, profondo conoscitore dell’Antico Testamento, degli oracoli dei profeti, delle immagini e delle forme letterarie impiegate nella Bibbia.
Non sapremo mai se l’annunciazione sia stata un evento materiale verificabile o una rivelazione interiore avvenuta in Maria. Non sapremo mai come e quando Maria ha preso coscienza della sua missione di madre del Messia. Questo interessa a noi, non all’evangelista cui preme invece  far comprendere ai suoi lettori chi è il figlio di Maria e che cosa abbia rappresentato per la storia dell’umanità il momento in cui, nel grembo di Maria, è sbocciata la vita umana del Figlio di Dio. 
Fatta questa premessa veniamo al testo evangelico.
L’ambientazione (vv. 26-27) del misterioso evento dell’incarnazione è molto realistica. È indicato il luogo, Nazaret, minuscolo villaggio della Galilea, tanto insignificante da non essere neppure nominato nell’Antico Testamento, abitato da gente semplice, poco istruita. A Filippo che, infervorato, dichiarava la sua ammirazione per Gesù di Nazaret, Natanaele rispose irridente: “Ma da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46). L’intera Galilea era ritenuta una regione infedele, semipagana, lontana dalla pratica religiosa pura della Giudea.
Dopo l’accenno al luogo viene introdotta sulla scena una vergine sposata con Giuseppe della dinastia di Davide. Infine è indicato il nome della ragazza, quello con cui è da tutti conosciuta: a Nazaret la chiamano Maria, che significa “l’eccelsa, colei che è elevata in alto”. Di nuovo l’evangelista, nel ricordarne il nome, la designa come “vergine”.
Come mai tanta insistenza?
La verginità per noi è segno di dignità e motivo di onore, ma in Israele era apprezzata prima del matrimonio, non dopo. Per una ragazza era un’infamia rimanere vergine per tutta la vita, era il segno della sua incapacità di attirare su di sé gli sguardi di un uomo. La donna senza figli era un albero secco che non dava frutti. Al termine vergine era legata una connotazione dispregiativa; significava: priva di vita, senza futuro, senza posterità. Nei momenti più drammatici della sua storia, Gerusalemme sconfitta e umiliata è chiamata vergine Sion (Ger 31,4; 14,13), perché in lei la vita si era interrotta, era incapace di generare.
La verginità di Maria non va intesa solo in senso biologico – come la chiesa insegna – ma soprattutto in senso biblico. Luca vuole presentarla come la vergine Sion che diviene feconda perché il suo sposo, il Signore, la colma d’amore.
 Nel suo cantico Maria mostrerà di essere ben cosciente della sua “verginità” quando dichiara: “Ha guardato alla bassezza (alla tapinità – dice il testo greco) della sua serva” (Lc 1,48).
Non è l’ammirazione per la sua integrità morale che l’evangelista vuole suscitare nei cristiani delle sue comunità, ma far loro contemplare le “grandi cose” che in lei – povera e priva di qualunque merito – ha operato colui che è “Potente” e “Santo è il suo nome” (Lc 1,49).
Chiunque consideri le meraviglie compiute dal Signore nella “sua serva” non potrà più abbattersi per la propria indegnità, tutti infatti sono chiamati a divenire, nelle mani di Dio, capolavori della sua grazia.
Luca ha aperto il suo vangelo con un dittico, con due annunciazioni. Nel primo quadro ha presentato la vecchia e sterile Elisabetta (immagine della sposa Israele incapace di generare e della condizione dell’umanità priva di prospettive di vita). Nel secondo quadro ha introdotto una giovane, “vergine” infeconda personificazione di Sion, ma grembo pronto ad accogliere la vita.
Rendendo feconde la sterile Elisabetta e la vergine Maria, il Signore ha mostrato che non c’è condizione di morte che non possa essere colmata di vita. Anche i cuori aridi come il deserto egli ha deciso di trasformare in lussureggianti giardini e, irrigati dall’acqua del suo Spirito, i giardini diverranno foreste (Is 32,15).
Dopo aver esaminato i due versetti introduttori, analizziamo la parte cen­trale del brano.
Rallegrati, o amata da Dio, il Signore è con te (v. 28).
È questo il saluto del messaggero celeste a Maria. Non si tratta dell’espressione formale e cortese che le persone che si incontrano per la prima volta sono solite rivolgersi. Non equivale a “Salve, ti saluto o Maria” e non è neppure l’abituale “Shalom”; è una espressione solenne, composta con cura. A qualunque israelita essa subito richiama alcuni testi dell’Antico Testamento.
Rallegrati è il ben noto invito alla gioia e al giubilo che i profeti hanno rivolto alla vergine Sion o alla Figlia di Sion – il quartiere più povero di Gerusalemme, la zona più malridotta, quella in cui risiedevano gli immigrati e gli sfollati.
A questa città disperata Sofonia e Zaccaria hanno annunciato un messaggio di consolazione: “Gioisci, o fi­glia di Sion, esulta Israele, rallegrati con tutto il cuore o figlia di Gerusalemme... Il Signore è in mezzo a te, non vedrai più la sventura… Esulta, giubila… Ecco a te viene il tuo re” (Sof 3,14-18; Zc 9,9-10; 2,14).
Riprendendo questi oracoli, il messaggero celeste mostra di rivolgere il suo saluto non solo a Maria come persona, ma a tutto Israele, anzi, all’intera umanità, invitandola a gioire, a non angosciarsi per la propria miseria e la propria indegnità: il Signore sta per venire in lei.
O amata da Dio.
Se scorriamo la Bibbia, verifichiamo che, quando Dio si rivolge a qualcuno, in genere lo chiama per nome. Nel nostro racconto il nome di Maria è sostituito da un epiteto: Amata da Dio. È il secondo nome che viene dato alla Vergine nel nostro racconto.
Maria era il nome con cui era conosciuta a Nazaret, Amata da Dio è quello con cui è conosciuta in Cielo, è la sua vera identità. In questo nome è contenuta la sua missione nel mondo: attraverso di lei Dio manifesterà tutto il suo amore per l’uomo.
Amata da Dio non è solo il nome celeste di Maria, è quello dell’intera umanità.
Il Signore è con te.
Quando Dio affida a qualcuno una missione importante e difficile, questi è colto da timore ed è tentato di sottrarsi. Mosè deve liberare il popolo, si sente inadeguato e si schermisce; il Signore lo rassicura: “Io sarò con te” (Es 3,12); Giosuè è incaricato di introdurre Israele nella terra promessa e Dio lo incoraggia: “Come sono stato con Mosè, così sarò con te” (Es 1,5.9); Gedeone deve salvare il suo popolo dagli oppressori e l’angelo: “Il Signore è con te” (Gdc 6,12).
Il compito di Maria – e della vergine Israele che lei raffigura – è più straordinario di tutti quelli che sono stato affidati ai servi di Dio che l’hanno preceduta. Gabriele la incoraggia con parole a lei ben note: “Il Signore è con te”.
Il turbamento di Maria permette all’angelo di chiarire il mistero che sta per realizzarsi in lei: nel suo grembo l’Altissimo sta per assumere forma umana, l’eterno sta per entrare nel nostro tempo, il Creatore dell’universo sta per farsi creatura.
Il figlio che nascerà da lei – spiega l’angelo – “sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (vv. 32-33).
Ognuna di queste parole – che non sono un resoconto stenografico, ma una composizione teologica postpasquale, posta da Luca sulla bocca dell’angelo – allude a testi dell’Antico Testamento.
Sono un richiamo alla profezia di Isaia: “Un bimbo è nato per noi… ed è chiamato consigliere prodigioso, Dio di guerriero, Capo per sempre, Principe di pace. Il suo principato sarà glorioso e la pace non avrà fine nella dinastia di Davide e nel suo regno” (Is 9,5-6) e soprattutto all’oracolo di Natan: “Io ti farò grande… Renderò stabile il trono del suo regno in eterno… Egli sarà mio figlio… E sarà stabile la tua casa e il tuo regno in eterno” (2 Sam 7,12-17).
Con questi riferimenti l’evangelista voleva presentare ai suoi lettori la vera identità del figlio di Maria. Identità difficile da cogliere: infatti è sempre rimasta nascosta agli occhi dei potenti, dei ricchi, dei sapienti e degli intelligenti (Mt 11,25) che sono soliti giudicare il valore delle persone con i criteri di questo mondo, non con quelli di Dio.
Servendosi dei richiami alle Scritture, Luca ha esposto ai suoi lettori la scoperta che Maria e i discepoli hanno fatto alla luce della Pasqua: benché concepito nel totale anonimato di un villaggio della Galilea dei pagani (Mt 4,15), Gesù non era un bambino qualsiasi, era l’atteso messia destinato a regnare in eterno. In lui si sono adempiute tutte le profezie.
Il racconto continua con la domanda di Maria: “Come avverrà questo?”.
Non chiede come sia possibile che questo accada né intende porre ostacoli, vuole solo sapere quale sarà il suo compito, come dovrà comportarsi affinché in lei si realizzino i disegni del Signore.
L’uomo non può rinunciare alla propria intelligenza. L’adesione a Dio nella fede non esige mai la rinuncia alla ragionevolezza. Il “sì” detto a Dio, per essere realmente umano, deve essere ponderato e responsabile.
Maria è presentata da Luca come il modello della risposta umana autentica – che deve essere libera e consapevole – alla vocazione del Signore.
Il chiarimento richiesto viene dato con il linguaggio ben comprensibile a Maria e ad ogni israelita, quello delle immagini bibliche.
Lo Spirito Santo scenderà su di te, come nube ti coprirà la forza dell’Altissimo (v. 35).
È ricordata anzitutto la presenza dello spirito di Dio, quello spirito che all’inizio del mondo aleggiava sulle acque (Gn 1,2) e che ora è di nuovo richiamato perché Dio sta per realizzare un nuovo atto creativo nel grembo di Maria.
Poi l’ombra e la nube: nell’Antico Testamento sono segni della presenza divina.
Durante l’esodo il Signore precedeva il suo popolo in una colonna di nube (Es 13,21), una nube co­priva la tenda dove Mosè entrava per incontrare Dio (Es 40,34-35) e, quando il Signore scendeva sul Sinai per parlare con Mosè, il monte era coperto da una nube densa (Es 19,16).
Affermando che su Maria è sceso lo Spirito Santo e si è posata l’ombra dell’Altissimo, Luca dichiara che in lei si è reso presente lo stesso Signore. Siamo di fronte a una professione di fede di questo evangelista nella divinità del figlio di Maria.
L’angelo conclude il suo discorso ricordando l’efficacia garantita di ogni parola uscita dalla bocca del Signore. Lo fa con le stesse parole che uno dei tre angeli rivolse a Sara e ad Abramo, increduli all’annuncio della nascita di Isacco: Nulla è impossibile a Dio (Gn 18,14).
Eccomi, sono la serva del Signore (v. 38a).
Nel breve racconto evangelico che stiamo esaminando compaiono tre nomi della Vergine: a Nazaret la chiamavano Maria, in Cielo era conosciuta come l’Amata da Dio. Ecco ora il terzo nome, quello con cui l’ha identificata la comunità cristiana: Serva del Signore.
Nel nostro testo è Maria che si attribuisce questo nome, ma è poco verosimile. Questa qualifica infatti non significa – come qualcuno traduce – “umile ancella”, ma è un titolo di sommo onore che l’Antico Testamento riserva ai grandi uomini fedeli a Dio (mai a una donna). Samuele, Davide, i profeti, i sacerdoti che nel tempio notte e giorno benedicono Dio (Sl 134,1-2) sono chiamati “servi del Signore”. Quando cita il nome di Mosè, l’autore sacro spesso sente il bisogno di aggiungere “servo del Signore”.
È difficile che Maria sia stata così poco modesta da attribuirsi un titolo così elevato, anche se nessuno più di lei l’ha certo meritato. È più probabile che la comunità primitiva – in mezzo alla quale lei è vissuta in preghiera (At 1,14) – avendo contemplato in lei il modello della discepola fedele, abbia scelto questo  titolo biblico per qualificarla e glielo abbia posto sulle labbra.
Avvenga di me quello che hai detto (v. 38b)
In molti dipinti traspaiono, dal volto della Vergine, la sorpresa e, a volte, quasi il suo sbigottimento, cui segue però sempre l’accettazione della volontà del Signore.
Tuttavia, avvenga non significa affatto accondiscendenza rassegnata. Il verbo greco génoito è un ottativo ed esprime un desiderio gioioso. Sulla bocca di Maria rivela la sua ansia di vedere presto realizzato in lei il progetto del Signore.
Dove entra Dio, lì giunge sempre anche la gioia.
Il racconto, iniziato con il rallegrati, si conclude con l’esclamazione lieta della Vergine avvenga.
Nessuno aveva capito il progetto di Dio, non l’avevano capito Davide, Natan, Salomone, i re d’Israele. Tutti gli avevano contrapposto i loro sogni e da lui si aspettavano soltanto l’aiuto per realizzarli. Maria non si è comportata come loro, non ha contrapposto a Dio alcun suo progetto, gli ha chiesto soltanto di mostrargli chiaramente il ruolo che intendeva affidarle e lei, dopo aver capito, con gioia ha accolto la sua volontà.




Testo preso dal libro
del biblista
Fernando Armellini
Ascoltarti è una festa.
Solennità, Feste e Triduo pasquale
Ed. Messaggero, Padova, pp. 183-191.
Il vangelo alle pp. 47-54